Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    L’algida Greta sopravvive ad un incidente in carrozza, e si fa ospitare da una coppia di coniugi. Ma chi è veramente?

    In breve. B-movie con alcuni punti di interesse, minato da un montaggio poco comprensibile ed uno script tirato troppo per le lunghe. Incuriosisce ancora oggi, forse, ma va contestualizzato all’epoca e ai mezzi, oltre che al regista (Joe D’Amato di Buio Omega).

    Noto con svariati titoli tra cui Death Smiles on a Murderer, viene prodotto da Franco Gaudenzi ed è noto per essere stato il primo film in cui D’Amato si firma come Aristide Massaccesi, sfruttando un budget di 150 milioni di lire dell’epoca (1973). La villa che compare nel girato è Villa Parisi a Frascati, location di innumerevoli b-movie dell’epoca ed in parte riconoscibile da alcune inquadrature. La locandina del film ritrae una sequenza specifica, in parte rivelatrice della trama quanto debitrice dei classici di Edgar Allan Poe, citato più volte in tutto il film.

    La morte ha sorriso all’assassino potrebbe evocare un giallo classico, almeno a partire dal titolo, ma assume piuttosto la forma di un horror gotico, in cui montaggio e regia provano ad evocare qualche suggestione surrealista. Uno stile complessivamente lento, inesorabile e che insiste sui primi piani ai protagonisti, ognuno dei quali sembra custodire un segreto: sorvolando sull’ovvio (questo approccio lo fa sembrare un po’ datato, visto oggi), si nota come buona parte del suo fascino sopravviva intatta, soprattutto per il modo decisamente curioso di iniziare la trama e svilupparla, così come per il susseguirsi frammentario, apparentemente illogico delle prime sequenze. La figura di Greta von Holstein è meravigliosamente orrorifica, evoca quasi una delle Madri argentiane ed è un archetipo di personaggio: manipola la storia, seduce, uccide, cambia aspetto.

    Certo il film presenta dei limiti sostanziali – soprattutto a livello visuale, spesso molto artigianale, ma anche narrativo – ma al tempo stesso colpisce per un paio di trovate interessanti: in primis la figura mortifera di Greta (candida, sensuale e spaventosa al tempo stesso), la suggestiva festa in maschera (grottesca e quasi felliniana, ispirata a La maschera della morte rossa di E. A. Poe), la sepoltura in casa (un tributo a Il barile di Amontillado e Il gatto nero), le fattezze di Walter (coi baffi che richiamano molto l’aspetto dello scrittore statunitense), e poi il finale a sorpresa – che può sembrare artefatto nella sua bizzarria, ma chiude comunque il cerchio. Se il livello attoriale è accettabile, permane un intreccio scritto interamente da Massacesi-Scandariato-Bernabei interessante solo come idea, di fatto troppo diluito in sequenze insistite, astratte e interminabili. Peraltro alcuni trovate non sono il massimo (la sequenza del gatto citata nella locandina, il montaggio alternato sul viso normale / cadaverico) e più in generale lo splatter non sembra sempre giustificato dalle circostanze. A confronto con Buio Omega, del resto, si intuisce come l’approccio più congeniale al regista resti quello di storie sviluppate in modo più moderno (e più morboso, peraltro).

    La critica più sostanziale può essere ricondotta a La morte ha sorriso all’assassino, del resto, oltre alla curiosa scelta di sfruttare un gigante come Klaus Kinski per un personaggio che sembra (e che poi non è) centrale nella storia, si lega alla ricostruzione temporale della vicenda, presentata in modo anti-causale e che – almeno fino a metà film – sembra incentrata su una surreale vicenda romantica, che deve qualcosa al Dracula di Bram Stoker e qualcos’altro al Frankenstein di Mary Shelley. La narrazione prende una piega differente e non sempre è agevole seguire, con il risultato che molti potrebbero non capire, e che molte delle sinossi che si trovano sul web, tra blog anche autorevoli e Wikipedia, sono in parte fuorvianti (addirittura quella di IMDB non sembra troppo azzeccata: di fatto scambia una sotto-trama per la trama principale). Non mancano ovviamente i riferimenti ai grandi classici appena citati, e Massacesi mostra di ispirarsi ai migliori luoghi comuni dell’orrore classico: necrofilia, claustrofobia, allucinazioni. Con un po’ più di unità narrativa sarebbe stato un grandissimo film: così è solo un film non banale (ovviamente), ma non abbastanza focalizzato per parlare di un vero e proprio cult.

  • Mondo cane oggi: lo snuff in VHS zeppo di stranezze

    Di episodi strani ed anomali è pieno il web, ma il mondo movie rimane un genere decisamente a se stante: non è semplicemente e solo uno snuff (un filmato che mostra violenza o orrori autentici, senza trucco), ma è uno snuff commentato dal punto di vista di un pubblico snobistico che, per qualche incomprensibile motivo, ne dovrebbe godere. Ancora peggio di uno snuff, in sostanza.

    Di fatto, il mondo movie è un genere che oggi ha un senso decisamente limitato, al di là di qualsiasi gusto perverso in fatto di cinema; le videocassette in formato VHS come quella di Mondo cane oggi (disponibile ad oggi in streaming, edizioni Raro Video, su Prime Video) rappresentavano, probabilmente, l’equivalente anni ’80 degli orrori del sito Rotten e dei suoi innumerevoli epigoni. Questo shockumentary è, per la cronaca, il terzo della saga che era stata inagurata, con toni non dissimili ma quantomeno più sensati, nel 1962.

    I mondo erano in genere accompagnati da una voce narrante, modello cinegiornale di regime, che non si limitava a commentare ciò che passa sullo schermo, ma tendeva anche a distorcerlo, piegarlo al dettaglio rivoltante, al gusto per il disgusto, al dileggio a prescindere e, come se non bastasse, cimentandosi in battute che più improbabili non si poteva.

    Jacopetti in effetti era stato un po’ il padre putativo del genere mondo, e – al netto degli aspetti meramenti shockanti legati dal suo cinema, che rientrano puramente nel fine a se stesso – era se non altro un abile narratore, anche solo per la furbesca trovata di confondere gli episodi realmente avvenuti con quelli creati ad arte (per sembrare realistici).

    Il narratore di Mondo cane oggi, che coinvolge poco ed annoia abbastanza, non è purtroppo neanche accattivante, e l’ironia presunta dei commenti oscilla tra l’ostentazione di calembour sciapi, un sostanziale razzismo e via delirando. L’ottica narrativa insiste sui dettagli morbosi, in questo caso con un irritante gusto per il gossip, nell’ottica dello spettatore snob (e forse sul modello ignorante orgoglioso) che si sente vagamente superiore e non vede l’ora, per qualche strana ragione, di “godersi” spettacoli del genere.

    Quello che vediamo in Mondo cane oggi è, in altri termini, un’accozzaglia di episodi che slittano dal grottesco al disgustoso senza preavviso, con una costante: la voce monotona – e vagamente strafottente – del narratore. Il senso del film è solo uno: scuotere, turbare, shockare, anche a costo di dare spiegazioni spicciole o pseudo-intellettuali, che oggi etichetteremmo come fake news, sulla frigidità (che può avere certamente cause psicologiche, ma anche fisiche). L’erotismo di Mondo cane oggi risulta quasi imbarazzante, e in più occasioni, scivola inesorabile nel grossolano – ad esempio nel momento in cui le immagini di alcune sculture a sfondo sessuale vengono commentate, causticamente, dall’audio di un film porno.

    Formalmente tutte le immagini sono buttate lì, date in pasto ad uno spettatore che dovrebbe sapere bene che cosa sta andando a vedere, con il compito (?) di giudicare da solo. Ma il punto è proprio questo: il film sembra concepito per spettatori che bramano di meravigliarsene o inorridire, e questo, di per sè, fornisce una carta d’identità alquanto chiara sulla personas media che dovrebbe o vorrebbe guardarlo.

    Girato da Max Steel (lo Stelvio Massi di Squadra volante) e scritto da Gino Capone, il film mostra tra le altre cose: dei gauchos che si danno al singolare sport del lancio dell’anatra viva, una donna frigida che si sottopone ad un massaggio erotizzante (una banale scusa per un nudo integrale), nudisti che vengono ridicolizzati a prescindere, la macellazione di animali, un cadavere vivisezionato con dell’eroina all’interno, alcuni durissimi allenamenti di karate, una singolare forma di agopuntura riscaldata, il sangue crudo di serpenti e renne usate come afrodisiaco. C’è anche la sensazione soggettiva che, in molti episodi, la realtà non sia proprio quella raccontata dal commento audio, e che da alcune episodi emergano dettagli riferiti a cose o persone non esistenti.

    In fondo film del genere, dai meriti artistici senza dubbio molto discutibili, fanno emergere limiti e modalità usuali della censura. Per intenderci: non ci si creano scrupoli a mostrare animali scuoiati e uccisi in diretta, ad esempio, ma la sequenza che mostra i preliminari del sesso tra due donne ed una presunta “scuola di masturbazione” è stata quasi certamente tagliata (si percepisce che una frase del narratore resta a metà, per poi passare alla scena successiva). Ancora più assurdo se si pensa, ad esempio, che l’operazione di chirurgia al pene, di contro, viene mostrata esplicitamente per intero. Una riprova perenne di un qualcosa che forse non è mai cambiato: la censura, alla lunga, è sempre un’espressione arbitraria del pensiero di poche persone, e non è scontato che la loro sensibilità possa fare da “faro guida” per tutti gli altri (soprattutto nel medio-lungo periodo). Quindi possiamo provare a teorizzare, addirittura mediante un film borderline del genere, che la censura ha sempre e comunque poco senso.

    Inutilmente frustrante chiedersi, ad oggi, perchè si girassero film del genere, e perchè abbiano stuzzicato almeno una parte del pubblico avvezzo all’orrore, o all’orrido, in sè. Forse una forma di feticismo, più probabimente una contro-contro-cultura che esibiva un mondo disumanizzato magari per provare ad ostentare o rivalutare, alla meglio, quello in cui viviamo. Peraltro, il tutto avveniva con una sostanziale differenza rispetto agli orrori splatter che mostrarono alcuni film di Fulci e Joe D’Amato, che erano realistici quanto simulati (cosa che in questo film non sempre sono), e quantomeno provavano ad avere uno straccio di riferimento narrativo (che qui manca del tutto). Assistiamo ad una spettacolarizzazione orrida, per semplice giustapposizione, che rimane come mera testimonianza, da archivio (per così dire), e si dimentica con la stessa facilità con cui si prova a guardare.

    Le versioni in formato PAL Raro Video e EAHV sono entrambe uncut, e della durata complessiva di 75 minuti.

  • Martyrs: l’horror viscerale e imprevedibile di Laugier

    Una bambina, in fuga da una fabbrica abbandonata, viene accolta in un orfanotrofio. Anni dopo, la vediamo da adulta irrompere in una casa, armata di fucile a pompa. Mentre l’amica di sempre si affretta a raggiungerla, una domanda assilla lo spettatore: per quale motivo la ragazza sta agendo così?

    In breve. Singolare storia thriller ad innesco multiplo, convulsa, imprevedibile, avvincente quanto ricca di momenti decisamente cruenti (non sarà facile guardarlo per intero). Il punto da focalizzare non è tanto l’osare, il trasgredire chissà quale tabù, quanto l’immettere in circolo un messaggio preciso e, a suo modo, ancora rivoluzionario. Il “gioco” di Laugier sembra essere quello di fare concetto sull’idea di martirio: A serbian film si è spinto anche oltre, ma qui non si scherza neanche.

    Non faccio parte dell’elite che scrive sui magazine e forma gran parte delle opinioni sui film; tantomeno mi piace cercare sottotesti quando non ce ne sono, anche se – senza una vera consapevolezza – della volte finisco per farlo lo stesso. Per queste ragioni vorrei improntare la mia recensione instradandola sui giusti binari da subito, dato che le cose da evidenziare in Martyrs sono tante, ed è molto facile divagare e perdersi in discorsi futili.

    Per analizzare il film mi sono basato su un’intervista a Laugier disponibile ancora oggi su Youtube, che parte da un’osservazione fondamentale: da Scream in poi, piaccia o meno, è nata una corrente di horror che (triste da riconoscere) sembra non credere più alle storie che racconta. A differenza dei classici dell’exploitation anni ’70, della corrente satanica e di poche, lodevoli eccezioni analoghe, la rappresentazione del terrore è diventata sempre più “popolare”, più legata a stereotipi di genere, fumettistici quanto a loro modo ammorbidenti, collocando spesso la narrazione su situazioni facili da prevedere, stereotipate, a prescindere. Il famoso caso in cui “si strizza l’occhio al pubblico” per accattivarsene i favori, e farlo al limite sentire più intelligente della media è tutto qui: ed è proprio ciò che Martyrs, senza dubbio, non è.

    Questo mi sembra il presupposto fondamentale per capire appieno lo spirito di “Martyrs“: in molti altri film si era fin troppo consapevoli che si trattasse di finzione e questo, secondo il regista, ha contribuito a smaliziare il pubblico e a renderlo (aggiungerei) particolarmente maleducato – nel senso di “non educato al Cinema“. La reazione a questo malessere, legato a problemi personali del regista, è stata la stesura di questa allucinante storia – e con risultati del tutto positivi.

    Martyrs“, a dispetto di chi ne ha criticato la violenza gratuita – manco fosse il più insulso dei naziploitation, è un horror molto complesso nel suo concepimento e, forse proprio per questo motivo, facile preda di banali critiche nazional-popolari, quanto a ben vedere affascinante. La recensione che segue potrebbe contenere, inevitabilmente, qualche micro-spoiler inevitabile, a cui ho badato, in una successiva revisione dell’articolo, a fare in modo che non fosse eccessivamente “compromettente” (nota di maggio 2022).

    Il regista francese Pascal Laugier, classe 1971 – che qualcuno ricorderà per “Saint Ange“, lavoro parzialmente sulla falsariga di The ward e Session 9 – è partito da uno scenario tipico nel cinema di genere (una storia di vendetta, un po’ alla Tarantino verrebbe da dire), per poi sviluppare la trama su altro, mediante una sequenza di colpi di scena uno più devastante dell’altro. E sa farlo, questo è innegabile. Il film possiede una capacità di inchiodare lo spettatore alla poltrona sfruttando situazioni sempre poco prevedibili, poco scontate, molto poco banali. E dire che la storia, al di là dei minuti iniziali, si sviluppa con un caso di “già vista” violenza casalinga apparentemente motivo, che finisce per fare da inquietante preavviso per il pubblico.

    Perchè Martyrs?

    Per martirio si intende, per definizione, il sacrificio della vita accettato in nome di una fede: un concetto che è risuonato minaccioso negli ultimi eventi che abbiamo vissuto a livello mondiale, dopo il collasso delle superpotenze polarizzate ed il consolidamento delle post verità personali. Laugier parla soprattutto del martirio accettato dai seguaci di una religione ma il discorso, ad oggi, potrebbe estendersi a qualsiasi credo politico, per dirla alla Zizek (o Lacan) un Grande Altro, foriero di perenne tensione morale e psicologica quanto, alla fine dei conti, identificabile con qualsiasi ideologia o principio ispiratore della propria vita.

    Dicevamo la complessità di Martyrs e questo, sia ben chiaro, deve essere messo in chiaro per evitare di descrivere ciò che il film non è: Laugier ha svolto un gran lavoro di ricerca etimologica sul martirio e sulle sue implicazioni di significato, a livello religioso come culturale. Per chi ama l’horror non dovrebbe essere neanche una novità, alla fine: per quanto si possa apprezzare ad esempio Cronenberg e la sua profondità concettuale, o anche solo “divertirsi” con mostri, serial killer o famiglie dedite al cannibalismo (anche qui il rischio banalizzazione è dietro l’angolo, come detto all’inizio), non sarà facile per il pubblico medio accettare un film come “Martyrs“. Che di una violenza considerevole non fa mistero, ma la usa sempre in modo funzionale al titolo: il martirio possiede una connotazione liberatoria, pura, angelica, tanto da renderlo realmente inquietante, come pochi altri titoli. Un qualcosa che riprende, a livello di linguaggio, la tradizione dell’orrore pulp e low-cost, quello che va bene a patto che sia realistico (Le colline hanno gli occhi, L’ultima casa a sinistra), prendendo le distanze dall’horror più scanzonato o “fumettaro”.

    Specialmente in tempi di crisi generalizzata come quelli che viviamo, il pubblico ha poca voglia di speculare e riflettere su ciò che ha visto – e tanta di cannibalizzare pellicole giusto per “fare numero”, per cui quando un film come questo ha qualcosa di serio da raccontare, è paradossale che il contenuto passi in secondo piano per parte del pubblico. Del resto la regia è solida, la sceneggiatura non fa una grinza e le interpretazioni sono tutte ineccepibili: Martyrs possiede un ritmo da film perfetto, ma per capire appieno quello che si è visto occorre pazientare un’ora e mezza, e a quel punto non sarà facile non distogliere lo sguardo. La violenza che sprigiona da circa la metà dei fotogrammi padroneggia e domina lo spettatore, mostrandogli sangue, umiliazioni e sottomissione psico-fisica che, come si scoprirà, sono dovute ad una vera e propria setta religiosa che finalizza la sofferenza del martirio, per l’appunto, alla ricerca dell’Aldilà e a spese delle povere vittime.

    Martyrs prende spunto (anche) da Clive Barker

    Se state pensando ad Hellraiser – il dolore per sublimare il piacere – siete quasi sulla giusta strada, in effetti, anche se qui le conseguenze sono spinte in modo molto più contemplativo, realistico e profondo di quanto non avvenga nel capolavoro di Barker. In tal senso i paragoni con Hostel di Roth sono fuori luogo (qualcuno ha equivocato in tal senso, in effetti) se non per la dinamica delle torture, aspetto secondario rispetto ai contenuti effettivi del film, che vanno al di là di una mera o compiaciuta pornografia dell’horror. Rimane forse come tratto comune tra queste ultime pellicole la sofferenza dell’uomo vista come un qualcosa di catartico, liberatorio e purificatore: l’asceta/vittima diventa un privilegiato, un essere superiore da idolatrare perchè del tutto immune al dolore, e sulla via della conoscenza. E se il mostro che hanno creato è così, è chiaro che sarà terribilmente più spaventoso di qualsiasi altro.

    Martyrs e il torture porn

    Ho letto che molti hanno scomodato il termine torture porn, espressione abusatissima fino a qualche anno fa in questo ambito, ma in questo caso la locuzione – per quello che vale – è assolutamente fuorviante ed inesatta: la violenza che subiscono le vittime di Martyrs non provoca piacere a nessuno, ma è comunque liberatoria, serve a far raggiungere uno status privilegiato (quello di martiri, ovviamente nella mente contorta degli aguzzini), e questo rende automatico riportare il discorso verso le varie forme di fanatismo (religioso ma anche, come dicevamo prima citando Lacan, politico e sociale).

    Altro colpo di genio, del resto, è il fatto di rappresentare una inquietante micro-società auto-organizzata, nella quale le giovani sono lentamente massacrate anche da altre donne, mediante violenza subdola ed arrivando a perdere progressivamente i propri tratti di femminilità. Una chiave di lettura che, a suo modo, richiama metamorfosi cronenbeghiane (per non dire kafkiane) ma anche il Potere brutale rappresentato dal celebre “Salò” di Pasolini, altro film molto apprezzato da diversi amanti dell’horror per quanto anch’esso propenso ad essere mal giudicato, per via di una forma che finisce per sovrastare la sostanza.

    Servono sicuramente anche film del genere, saggi di psico-horror o horror sociale che dir si voglia, e serve rivedere film del genere con uno spirito di ricerca: con più pellicole come Martyrs, probabilmente, non cambierebbero di una virgola le incomprensioni tra detrattori ed estimatori a priori ma – se non altro – la dignità del genere horror sarebbe sicuramente più preservata.

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  • Supervixens: la summa dei film Russ Meyer

    Clint è il prototipo di “bravo ragazzo” onesto e lavoratore, fidanzato con la splendida SuperAngelica: una formosa ragazza tanto focosa quanto ferocemente possessiva. Un litigio particolarmente pesante tra i due darà inizio ad una pazzesca avventura erotica del protagonista…

    In due parole. “The sum total of all my films“, la summa erotica dell’arte meyeriana, priva dei fronzoli dei precedenti lavori ed incentrata su due aspetti: omaggiare la bellezza femminile come valore assoluto, e deridere la remissività del maschio represso medio. Il risultato finale, diluito in due ore che difficilmente riusciranno ad annoiare, sarà un vero spasso.

    Lanciato da una tagline all’insegna dell’eccesso (“Troppo… per un solo film“) “Supervixens” di Russ Mayer è probabilmente uno dei migliori film del famoso cineasta: un artista che seppe conferire un minimo di rilievo artistico ad un genere, quello erotico-pornografico, che tradizionalmente è ritenuto dalla “critica seria” di scarsa ampiezza e valore. Mayer sovverte questa convinzione mantenendo un tono scanzonato ed auto-ironico, per certe trovate strizzando l’occhio a certe trovate alla Monty Python, con grande stile.

    E come se non bastasse, realizza tutto questo mediante uno script costruito in circa una settimana, concretizzando una fotografia fuori dagli standard e – ci mancherebbe altro – sempre da vero amante delle più prosperose curve femminili. Tanto che, in questo film, delizia il pubblico con ben sei bellezze maggiorate: la mora Uschi Digard della locandina, Christy Hartburg, Colleen Brennan, Deborah McGuire, Haji – già vista in Motorpsycho e Faster pussycat… kill, kill! – e la splendida Shari Eubank, che interpreta il doppio personaggio SuperAngel / SuperVixen.

    Non c’è il tempo di cercare sottotesti o messaggi subliminali tra le immagini, di fatto, perchè l’intento è “solo” quello di far godere il pubblico, e questo mediante una visione erotizzata, umoristica, movimentata, estremamente allusiva per quanto – rispetto agli standard odierni – praticamente mai esplicita. Se alcune sequenze hanno certamente fanno scuola nel seguito della cinematografia di genere, l’inquadratura di seni giganteschi e  falli sproporzionati di alcuni protagonisti (che probabilmente provocarono il divieto del film ai minorenni) potrebbe ormai essere parte di un “ordinario” demenziale-erotico di oggi, ed in questo Meyer mostra di essere stato un fiero precursore: un po’ come il collega italiano Joe D’Amato, il quale – a prescindere da fenomeni di successivo cultismo dei suoi film – ha semplicemente saputo dare al pubblico quello che desiderava.

    Sfondando le porte delle ordinarie convenzioni, e liberandosi di qualsiasi sciocca inibizione (siamo pur sempre nella metà degli anni 70), Meyer immagina la storia del timido Clint Ramsey, benzinaio letteralmente sottomesso alle volontà di SuperAngelica, con la quale litiga perennemente per via della gelosia di lei. Dopo uno scontro particolarmente violento – la donna gli distrugge la macchina a colpi di ascia in una sequenza che rappresenta una sorta di proto-pulp – inizia un lungo peregrinare che fa diventare “Supervixens” un road movie erotico, una sequenza di avventure porterà il protagonista, dopo mille peripezie, verso la sua vera donna ideale (SuperVixen, neanche a dirlo).

    Tormentato fino al parossismo da splendide fanciulle che sembrano non aspettare altro che saltargli addosso (Meyer nel farlo, peraltro, abolisce l’idea di mercificazione del sesso, evidenziandone l’aspetto sano, di puro divertimento: in questo effettua a mio parere uno smacco considerevole verso qualsiasi possibile accusa di sessismo), l’operaio Clint vivrà all’interno di una specie di sogno/incubo ad alta densità erotica, caratterizzato dall’esaltazione di corpi femminili in bella vista e, ovviamente, da rappresentazioni grottesche e decisamente acrobatiche dell’atto sessuale (ad esempio la copula sulla cima di una montagna).

    Il linguaggio scelto, del resto, riesce a rendere “Supervixens” diverso da un porno vero e proprio, nel quale invece il tutto è focalizzato in modo totalitario sull’aspetto sessuale e sui primi piani, con tanti saluti alla trama ed al ritmo del film stesso. Il sesso, se ci fosse bisogno di scriverlo, per quanto assuma una valenza fondamentale non è certamente l’unico elemento di spicco, visto che sussistono elementi di pura explotation (l’omicidio nella vasca da bagno, crudele ed improvviso, sembra in parte precursore degli omicidi della saga ottantiana Venerdì 13).

    Tuttavia il tono cartoonesco della pellicola, ricca di momenti realmente spassosi nei quali la risata è quasi sempre dovuta ad una presenza femminile dominante, contribuisce a rendere il film gradevole, interessante e mai noioso. La cosa è talmente evidente, nonostante qualche inevitabile istante di calo, che non ci si capacita di come un film di due ore possa non provocare questo effetto in nessuna sequenza. Il quadro che ne risulta, per quanto volutamente grottesco ed estremizzato, non è in fondo troppo distante da alcune realtà che conosciamo, anche se naturalmente sarà difficile che lo si possa ammettere e ci sarà qualcuno che parlerà per forza di esagerazioni, quando non di sessismo.

    Del resto il tono gioioso che accompagna l’intero film serve a sdrammatizzare il tutto, e a rendere la visione di “Supervixens” indispensabile per conoscere un esempio di cinema “leggero” – nel senso di poco impegnativo – e, al tempo stesso, non banale.

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  • Herz aus Glas: l’uomo e la perdita di coscienza/conoscenza secondo Herzog

    L’opera del regista tedesco Werner Herzog ha sempre fatto discutere. Genio visionario e poliedrico, spesso osannato e ancor più spesso sottovalutato se non sbeffeggiato, ha abituato il pubblico a trame, personaggi e scenografie sempre con un piede penzoloni sul baratro della follia. Ma, a volte, ha esegerato ed ecco che in un film come Cuore di Vetro (Herz aus Glas) del 1976, entrambi i piedi varcano il limite di sicurezza e registra, cast, troupe e spettatori vengono catapultati in un salto nel buio degli abissi di un pozzo senza fondo.

    La follia collettiva di questo film colpisce tutti, indiscriminatamente: il regista che sottopone di suo pugno il cast ad ipnosi prima di farli recitare, il cast che accetta tale assurdità, la troupe che asseconda regista e cast nell’apparentemente insensato espediente di cui sopra e il pubblico che, colpevolmente complice, assiste al film… e, fortunatamente, qualche anima pia che meriterebbe almeno una menzione speciale nei titoli di coda, è riuscita a far desistere il buon vecchio Herzog dal comparire ad inizio film in una scena in cui avrebbe ipnotizzato, a sua volta, il pubblico.

    Qualcuno starà dicendo: “beh, poco poco sarai scemo anche tu, che lo hai guardato e recensito!“… vero, infatti sulla tenuta delle mie facoltà mentali sono il primo a pormi dei leciti dubbi ma, appurato che ad oggi nulla certifica una mia deficienza psichiatrica (credetemi sulla fiducia), le conclusioni che ho tratto terminata la visione del film, vi sorprenderanno.

    Senza rinnegare quanto affermato poc’anzi (a cominciare dalla mia salute mentale), confermando l’impressione che il film sia stato diretto con “consapevole follia“, non si può negare il fatto che esso sia un capolavoro del cinema d’avanguardia dove, come consuetudine dell’avanguardia stessa, il gusto per la corsa estrema all’innovazione crativa, è sempre a discapito dell’intelligibilità e fruizione dell’opera. D’altronde cosa sarebbe l’arte pittorica di Jackson Pollock senza la sua pazzia che – paradosso dei paradossi – ne aiuta la comprensione e giustifica i risultati? E non è sempre la pazzia creativa (anche se, al contrario di Pollock, non conclamatamente patologica) ad animare la musica colta di Stockhausen, quella rock di Frank Zappa, i romanzi di Thomas Pynchon e tutto ciò che ha a che fare con avanguardie e postmoderno?

    Diciamolo subito: per chi non lo avesse già capito, Cuore di Vetro, come la quasi totalità delle opere d’avanguardia, non è un film per le famiglie, per chi vuole passare la serata a guardare un film rilassante e spensierato o per gli amanti di film del tipo “Natale a Vattelappesca“. Anche i cultori di generi più di nicchia, quali potrebbero essere la Nouvelle Vague francese o il Jidai-geki giapponese, dopo aver visto Cuore di Vetro, potrebbero lasciarsi andare ad una esclamazione di stupore, magari un romanesco

    ahò, ma che vordì?

    Ma analizzando le intenzioni del regista, i sottintesi della trama e gli infiniti richiami filosofici, socio-culturali e simbolici cui essa poggia, ecco che il capolavoro prende vita e il film resta vivido nella mente dello spettatore per giorni, insieme alle mille domande che suscita senza mai dare risposta compiuta.

    Partiamo dalla trama che non ci facciamo nessuna remora a spoilerare per intero, anche perchè, conoscerla prima della visione del film può solo aiutare lo spettatore a capire dove porre l’attenzione. Sì, perchè, in fondo, la trama è quasi un aspetto secondario del film, una semplice tela bianca che serve al regista a rappresentare una serie di scene a cavallo tra il surrealista e la commedia dell’arte che fanno assurgere a rango di protagonista della narrazione il modus operandi in cui il film è stato sviluppato, ben più della semplice sequenza degli eventi. La storia, dunque, si svolge in un non ben precisato villaggio della baviera in epoca preindustriale (una data qualunque tra sedicesimo e diciottesimo secolo). La vita del villaggio viene sconvolta dalla morte del mastro vetraio della vetreria che è il fulcro cui gira l’intera economia del villaggio. Morendo, il vetraio porta con sé nella tomba il segreto per la realizzazione del “vetro color rubino” che rendeva speciali e ricercate le lavorazioni della fabbrica. Perdendo questa peculiarità, l’azienda va in crisi e con essa l’intera comunità.

    Ed eccoci arrivati al punto nodale della storia: la perdita di conoscenza (il modo in cui si realizza il vetro rubino) causa crisi economica e ciò porta alla perdita della ragione nella collettività. Tutto ciò, è sia una critica al capitalismo che una banale constatazione antropologica sulla natura dell’uomo moderno condizionato dal denaro più che da qualunque altra cosa e che è refrattario a capire che è la conoscenza a guidare ogni forma di sviluppo. Senza di essa il sistema, che si regge su piedi d’argilla, crolla inesorabilmente, pandemia Covid docet: Appena l’uomo si è trovato davanti all’ignoto il sistema economico-sociale è precipitato nel baratro… ma il film è del ’76, e non vorremmo attribuire a Herzeg anche doti divinatorie.

    Per rappresentare nella maniera più forte possibile questo dualismo inestricabile tra perdita di conoscenza e perdita di ragione che portano alla follia, Herzog, utilizza l’espediente di ipnotizzare gli attori che andranno in scena in stato di catalessi, esibendosi in espressioni e recitazioni del tutto innaturali e stranienti, grottesche ed emblematiche immagini della follia indotta. Sì, perchè questa non è e non vuole essere la rappresentazione di una follia patologica di origine psichiatrica, ma è una follia più subdola e, appunto, indotta dal potere economico che rende pazzo chi non ha accesso ai soldi. Entrando in questa ottica, lo spettatore capirà come l’ipnosi sottoposta agli attori non sia una trovata cervellotica di un regista schizzato (beh, forse un po’ lo è davvero) adoperata al sol fine di far parlare di sè, ma è un vero colpo di genio, una metafora scenica che ha ben pochi precedenti nella storia della settima arte.

    E se gli attori ipnotizzati sono la metafora dell’uomo assuefatto al potere/necessità dattato dall’economia, nella quasi totalità delle scene del film (girate per lo più in interno e con illuminazione naturale in stile Barry Lyndon)  troviamo onnipresenti due simboli: una porta – la porta della conoscenza – e una candela (o, più raramente, dei tizzoni ardenti), a rappresentare il lume della ragione. Al di là della porta, l’esterno sarà sempre buio, tranne in una scena in cui, attraverso la porta, si vedono dei vetrai che trasportano l’ultimo carico di vetro rubino prodotto prima della morte del custode della ricetta: il momento in cui la “conoscenza/ragione” lascia il villaggio. Le stanze piccole, sporche e anguste cui le porte danno accesso, sono invece illuminate da queste flebili fiammelle, sempre sul punto di spegnersi, proprio come la ragione dei personaggi che vi dimorano, a loro volta per lo più immobili o dai movimenti misurati e robotici. La macchina fa sempre primi piani o comunque, quando sulla scena sono presenti più personaggi, inquadrature molto strette che portano allo spettatore una sorta di disagio da claustrofobia. Nessuno guarda negli occhi il suo interlocutore, quasi come che la presenza e la condizione dell’altro venga appena percepita, ma mai realmente capita. Questa mancanza di comprensione della realtà è magistralmente rappresentata dalla grottesca scena in cui un personaggio bislacco, distrutto dalla morte di un suo compagno di bevute, ne va a recuperare il corpo dal letto dove era stato ricomposto in attesa della sepoltura e lo porta nella locanda del villaggio dove chiede agli altri beoni di intonare un’ultima canzone con cui ballerà in compagnia del cadaverere dell’amico defunto.

    La follia collettiva non toccherà soltanto il popolino, ma anche il vecchio e paralitico proprietario della vetreria e suo figlio, il quale arriverà ad immolare la vita di una giovane domestica per poter riportare in vita la formula del vetro rubino. Il tentativo, ovviamente, fallirà miseramente portando il giovane, ormai completamente ottenebrato dalla pazzia, a dare fuoco alla vetreria ponendo con essa fine alle speranze di rinascita dell’intera comunità.

    Ma c’è una voce fuori dal coro in questo marasma di degenerazione, il personaggio di Hias, un cacciatore veggente che, vivendo tra i boschi, appena fuori dal villaggio, sembra l’unico ad aver mantenuto una certa razionalità, tant’è che Josef Bierbichler, l’attore che lo rappresenta, sarà uno dei pochi che Herzog non sottoporrà ad ipnosi (gli altri esentati, per ovvi motivi, saranno dei veri maestri vetrai, che in alcune scene verranno ripresi ad eseguire delle lavorazioni in vetro). Hias, in virtù delle sue doti da preveggente, sarà interpellato più volte sul futuro della comunità e, puntualmente, le sue profezie non saranno mai ascoltate dal popolo, fino alla beffa conclusiva quando verrà tacciato di essere un portatore di sfortuna, malmenato e incarcerato in compagnia del figlio del proprietario della vetreria. Cosa accadrà al villaggio in seguito alla prigionia di Hias non è dato sapersi, lasciando intendere che esso continuerà il suo cammino di autodistruzione, ma ritroveremo invece il cacciatore, solo nei boschi, in una rara scena girata all’aperto. Avremo così l’amara beffa di scoprire che anche lui, come gli abitanti del villaggio, è in realtà pazzo e lo capiremo quando, approcciandosi ad una grotta, verrà assalito da un animale selvatico. Dallo scontro il cacciatore uscirà vittorioso tanto da esclamare “per questa sera avrò di che mangiare” ma ciò che vedrà lo spettatore è la scena di una lotta immaginaria, poichè la belva, in realtà, esiste solo nella mente di Hias.

    Dopo questo finto combattimento, Hias ha l’ultima premonizione che chiuderà il film: su due isole perse nell’oceano vive una popolazione che ha il “dono del dubbio” e, a bordo di piccole imbarcazioni, partirà per un lungo viaggio con lo scopo di scoprire la verità.

    Verità? Quale? nessuno lo sa, tantomeno Herzog, ma almeno ci lascia con la speranza che questa sia da qualche parte e che qualcuno, libero dai condizionamenti dell’uomo moderno, andrà alla sua ricerca e la troverà.

    Appare evidente che non si può interpretare questo film senza fare riferimento a dottrine filosofiche quali il Marxismo e soprattutto all’influenza della filosofia di Herbert Marcuse, che teorizzò come la società industriale sia inevitabilmente portatrice di una morale repressiva, concetto che pervade il film dalla prima all’ultima scena. E proprio il popolo del mare che andrà alla ricerca della verità, rappresenta l’ultimo tributo alla filosofia di Marcuse che, nella suo opera “L’uomo a una dimensione“, teorizzò come l’unica àncora di salvezza che resta all’uomo moderno è quella della presa di coscienza di sé da parte dei popoli che fino ad ora sono stati esclusi dalla vita “all’occidentale”.

    Una delle particolarità che ha caratterizzato i film di Werner Herzog è stata, escluse rare eccezioni, la presenza della colonna sonora composta dal gruppo musicale tedesco dei Popol Vuh. Anche in Cuore di Vetro la colonna sonora verrà affidata al gruppo di Florian Fricke ma, al contrario di altri film del regista in cui la musica ha un ruolo di primo piano, in questo caso la musica è molto più rarefatta e concentrata quasi esclusivamente nella prima mezz’ora del film, dove ha il compito di accompagnare tre lunghe sequenze di immagini di paesaggi naturalistici di estasiante bellezza che valorizzano le doti di documentarista di Herzog, quasi ad anticipare la piega che prenderà la seconda parte della sua carriera. Per il resto, esclusi questi tre episodi (la reinterpretazione di uno jodel bavarese e due lunghe suite in stile new age), le musiche dei Popol Vuh saranno limitate a qualche accordo di organo qua e là e poco più. Invece, restando in tema di musica, è da sottolineare in varie scene del film la presenza di una ghironda (altrimenti detta “viola da orbi”), strumento “povero” per eccellenza, che compare nelle scene ambientate nella locanda – come quella della macabra danza col morto – e di un’arpa, strumento “degli dei”, che accompagna invece le scene girate nel palazzo del proprietario della vetreria.

    Un’ultima sottolineatura dobbiamo porla al fatto che il film è recitato in un dialetto stretto bavarese che ne ha reso difficoltosa se non impossibile una precisa opera di traduzione e doppiaggio in altre lingue. Il doppiaggio in italiano, per esempio, a tratti sembra quasi improvvisato e lontano dalla versione originale. Ciò sicuramente causerà l’impossibilità, per chi (come lo scrivente) non conosce quel dialetto, di cogliere molti dei simbolismi che soggiaciono al film e di cui sono parte integrante e sostanziale. Ma, anche in mancanza delle dovute conoscenze linguistica, vi assicuriamo che il film, se visto con la giusta ottica e predisposizione mentale, non passerà inosservato ai veri amanti del cinema e sembrerà meno folle di quanto si potrebbe pensare.

    Insomma, Herzog è sempre stato così, o si ama o si odia, ma non c’è film migliore di questo per capire da quale parte stare!

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