Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    All’interno di una Los Angeles distopica nell’anno 2019, la tecnologia ha consentito di creare i “replicanti”, androidi o robot fortemente umanizzati, utilizzati per servire gli esseri umani e esteticamente non distinguibili da questi ultimi. Sei di essi, particolarmente evoluti e dotati di possente forza fisica, sono fuggiti dalle colonie extramondo e cercano di introdursi nella Tyrell Corporation, la fabbrica che li produce. Il poliziotto Deckard è sulle loro tracce.

    In breve. Suggestivo, sempre straordinario da rivedere e ricco di spunti, suggestioni onirico-futuristiche ed affascinanti ambiguità, mai veramente sciolte e oggetto di infinite fan theory. Chi sono gli umani, chi gli androidi? Quale valore assumono i ricordi nella vita dell’uomo? Forse, senza timore di esagerare, uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi assieme a Brazil.

    Scrivere oggi di “Blade Runner“, indimenticabile capolavoro (che potremmo definire proto-cyberpunk) girato da Ridley Scott, rischia di ricadere inevitabilmente nella sterile ripetizione di concetti, idee e visioni futuristiche che hanno formato buona parte del cinema di fantascienza “colta”.

    L’analisi, che non può – in casi del genere – essere approssimativa in alcun modo, dovrebbe comunque basarsi su una duplice considerazione. Se da un lato infatti questo film ha stilato dei veri e propri canoni stilistici all’interno del cinema di fantascienza, dall’altro – senza nulla togliere a regia ed interpretazioni – è in effetti la storia di Philip Dick da cui è tratta ad avere gran parte della responsabilità del successo della pellicola. “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (1968) poneva, in anticipo sui tempi, una tematica estremamente intrigante: se è umano amare, proteggere e relazionarsi con altri simili, cosa implica uccidere un androide che, in preda ad una “presa di coscienza” progressiva, si senta “vivo”?

    Bisogna rispondere a questa domanda formulandone molte altre, e questo potrebbe non piacere a chi concepisce la fantascienza in modo più orientato verso l’azione pura che altro. Il film possiede dunque la capacità di far immedesimare grandi fette di pubblico, e questo sia nella coscienza per così dire “organica” di alcuni protagonisti che in quella “artificiale” dei replicanti, rendono impossibile la chiarificazione definitiva dei ruoli di ognuno – è quasi certo che Deckard sia un replicante (forse…), e rimane vivido il fascino di lasciare questo interrogativo “appeso” fino all’estremo.

    Se si guarda Blade runner oggi, peraltro, va fatta una certa attenzione a procurarsi la director’s cut: la versione voluta dal regista con il finale ambiguo, mille volte più poetico e intrigante di quanto non sia la versione imposta dalla produzione, che forza fantozzianamente un happy end che, visto oggi, convince meno della metà del pubblico a cui era teoricamente rivolto. Il punto merita una breve digressione tanto per capirne il grottesco: dopo averci raccontato per quasi due ore che gli androidi vivono solo per pochi anni, tanto che sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa pur di diventare immortali (vedi la caccia al loro creatore, che vanno a stanare direttamente a casa per farsi rivelare il segreto della vita eterna), quel finale scellerato (che è lo stesso che potete vedere nella versione Amazon Video, per inciso) afferma, mediante un improbabile solipsismo di Deckard, che Rachael in realtà non era programmata per morire dopo quattro anni e che dovremmo goderci la vita, demolendo la simbologia fondamentale degli origami (l’unicorno e via dicendo) e di conseguenza, a nostro modesto avviso, uno dei capolavori del genere, rendendolo incoerente prima che melenso.

    Una scelta che risulta ancora peggio oggi, e per cui uno dovrebbe scusarsi con il cast a cominciare dal compianto Rutger Oelsen Hauer, scomparso giusto nel 2019 (per una macabra coincidenza, verrebbe da scrivere, tra la scomparsa del suo personaggio e dell’attore) e qui artefice di una delle sue interpretazioni più iconiche di ogni tempo. Il suo personaggio è un androide diventato dolorosamente consapevole di sè, in un processo psicologico di rinnovamento e ricerca del senso della vita che mai gli ingegneri genetici avrebbero potuto prevedere. E anche oggi, per restare sul pezzo, l’eco di Blade Runner risuona sinistramente nelle nostre coscienze, mentre rabbrividiamo nello scoprire che certe profezie del film si sono quasi avverate (i robot umanoidi sono una realtà, e riusciamo a creare video deepfake talmente realistici da ingannare anche i più esperti).

    In fondo il tratto distintivo di questo cult – uno dei film che possiede ben 7 cut differenti, tra Director’s, International e Final – è rappresentato essenzialmente dalla profondità dei topic che tira in ballo: questo è visibile non soltanto all’interno di ambientazioni metropolitane gigantesche e tutt’altro che a misura d’uomo, ma anche per via delle tematiche esistenzialiste che sono inserite nell’intreccio. È interessante la chiave visiva scelta da Ridley Scott, pure, che affianca al futurismo classico delle automobili che possono volare – il film è del 1982, ed è ambientato nel 2019 – il degrado dei bassifondi delle città, in cui troverai un ambiente fumoso, personaggi ambivalenti e poliziotti intenti a mangiare sushi. Una scelta che, anch’essa, è diventata profondamente iconica.

    https://www.youtube.com/watch?v=Wo3HpcRJxUg

    I replicanti, del resto – umanoidi che assumono le precise fattezze di esseri umani – non soltanto possono pensare, agire e vivere per quattro anni, ma si trasformano in autentici “oggetti” sia multimediali che biologici. È questa loro duplice natura che li rende i veri elementi tragici della storia, e ciò è visibile soprattutto nel momento in cui iniziano a porsi delle domande, a crescere mentalmente, ad interrogarsi sul presente. Oggetti, dunque, che sono consapevoli di esserlo e che sviluppano autonomamente sofferenza, disgusto e – di rabbioso controbalzo – desiderio di diventare immortali. Cosa ci sarà dato fare nell’arco della nostra breve vita? Ha davvero importanza se i ricordi ci sono stati impiantati artificialmente oppure sono frammenti di vita vissuta?

    La complessa simbologia scomodata da “Blade Runner“, di cui i celebri origami di Gaff sono soltanto la punta dell’iceberg, pone domande per il nuovo millennio che meriterebbero risposte fin troppo articolate. Risposte che si possono provare a cercare vedendolo ancora una volta, senza esitazioni.

    Per finire, un tutorial per emulare Gaff, e fare un origami a forma di unicorno.

  • Vital racconta l’amore dal punto di vista di Shinya Tsukamoto

    “Tutti i tuoi felici, falsi ricordi:
    che possibilità ho, io, contro tutto questo?”

    In breve: non è certo uno dei migliori film del regista giapponese, oltre ad essere insolitamente lacrimoso e (a tratti) con scarso mordente. Adatto, forse, ai neofiti per avvicinarsi senza “traumi” al suo incredibile cinema (il regista è quello di Tetsuo).

    Tsukamoto in “Vital” incentra la storia su due tematiche di fondo: da un lato la perdita della memoria che affligge il protagonista, e dell’altra l’ambigua valenza dei ricordi, che distorcono la realtà ed alienano l’individuo ma nei quali è quasi impossibile non perdersi e sognare.Un film concettualmente e stilisticamente molto valido, ma al tempo stesso affetto da una sorta di “pesantezza” di fondo: sembra quasi che il regista indulga su dettagli lacrimosi molto più del necessario, proponendo una storia totalmente priva di colpi di scena, e fin troppo concetrata sugli aspetti romantici tanto per (verrebbe quasi da dire) far presa facile sul pubblico.

    Hiroshi, dopo un incidente stradale, perde completamente la memoria, dimenticandosi completamente della fidanzata che era in macchina con lui, e che è deceduta poco prima che si risvegliasse. Mentre cerca di ricostruire i propri ricordi ricomincia a seguire i corsi di medicina, ed inizia un corso sulla dissezione che, destino vuole, debba fare proprio sulla ex ragazza deceduta, Ryoko: quest’ultima aveva dato il consenso ad essere usata per la scienza, e viene riconosciuta dal protagonista mediante un visibile tatuaggio sul braccio. Nel frattempo il protagonista fa iniziare una vera e propria ossessione nei confronti del cadavere, che si sofferma a guardare per lunghe ore perdendosi in un sogno-allucinazione nel quale reincontra regolarmente Ryoko, isolandosi dai suoi colleghi e da una nuova ragazza che gli si propone inutilmente…

    Si tratta di un film piuttosto atipico rispetto alla produzione del regista: non tanto per la presenza della tematica inerente gelosia ed amore (vissuti in modo ossessivo anche in Tetsuo e, in parte, in Haze), quanto per i toni struggenti che hanno reso questo film uno dei più apprezzati dal grande pubblico – quantomeno per chi ha avuto modo e voglia di vederlo. Questo, a mio parere, è legato alle dinamiche “televisive” del film stesso, dalla totale mancanza di dettagli macabri e da uno stile certamente di grande classe ma privato in modo molto radicale dell’estro artistico del regista, se non per alcune inquadrature molto insistite su alcuni dettagli.

    La cosa davvero strana, a questo punto, è che una scena ripetuta ed enigmatica come il tentato soffocamento reciproco tra Hiroshi e la sua spasimante Ikumi, la quale non si fa una ragione dell’ossessione del ragazzo, ed al tempo stesso è costretta a riconoscere che non puo’ essere gelosa di una defunta, si colloca in modo abbastanza inspiegabile rispetto all’intreccio: si tratta quindi di un elemento che, inserito in un altro qualsiasi film del regista, avrebbe fatto gridare allo scandalo, alle “seghe mentali” ed al tocco artistico da radical-chic. Orrore! Se invece si volessero scomodare quegli stessi concetti filosofici e concettuali che normalmente fanno inorridire i mainstreamer, allora si desume che la nuova amante di Hiroshi volesse morire assieme a lui per il fatto che sa bene che è l’unico modo per rimanergli vicino. Se poi consideriamo la danza di Ryoko (viene specificato che da viva non ha mai danzato), la quale assume una valenza simbolica che va necessariamente cercata al di là dello schermo… Pero’ qui si parla di amore, quindi va tutto bene e nessuno si pone alcun problema: se si fosse parlato di altra roba, sarebbe stato diverso.

    Romanticoni! Uno dei film certamente più poetici del regista, nel quale escono fuori varie icone di fragilità umana.

     

  • Society – The horror è una metafora del mondo in cui viviamo

    Billy è di famiglia benestante nell’America di fine anni ’80: dovrebbe essere felice, godersi le sue giornate spensieratamente e passare le notti con le donne più belle di Beverly Hills. Eppure qualcosa lo turba, non dialoga coi genitori, vive ambiguamente i propri rapporti ed è tormentato da paure inspiegabili. Un orrore incredibile sta per spalancare le porte contro di lui..

    In due parole. Prima parte da telefilm, seconda grand guignol a coronare un notevole horror satirico di Yuzna contro l’ipocrisia della società capitalistica.Una delle chicche orrorifiche (e più politicizzae di sempre) del cinema americano anni ’90.

    Già John Carpenter aveva espresso con grande maestria il rapporto conflittuale tra sfruttati e sfruttatori nel mondo degli yuppie, basandosi sulle fondamenta degli zombi mai troppo compresi di George Romero. Yuzna, sceneggiatore promettente di splatter inquientanti e fan di Lovecraft della prima ora, decide di girare una sostanziale satira contro il mondo finto ed ipocrita della borghesia americana. Il soggetto fu firmato da Woody Keith e Rick Fry, e crea i presupposti – grazie ad una regia solida e ad effetti speciali da manuale – per un film divertente e pauroso al tempo stesso, forse non sempre ben interpretato ma con varie “macchiette” davvero irresistibili. Lo spettatore passa mezzo film a chiedersi cosa veda Billy, se si tratti di paranoia o chissà che altro: le conclusioni horror probabilmente oggi appaiono scontate, ma si tratta pur sempre di un’idea originalissima, e mai realizzata prima. Come già in “Essi vivono“, le apparenze ingannano lo stesso protagonista, che sospetta che i suoi familiari covino qualcosa di mostruoso: ma, dal loro punto di vista, si tratta di comuni paranoie adolescenziali, che scemeranno non appena Billy sarà introdotto nella Società che conta. Ai suoi occhi, nel frattempo, si compone un puzzle infernale che ogni volta sembra chiaro, e che inevitabilmente viene scombinato da una forza esterna: la stessa che lo tormenta dall’inizio, e che rende terribile il suo passaggio da “ragazzo qualunque” a “persona che conta”. Terrorizzato da quel mondo adulto in cui non riesce a riconoscersi, viene contattato dall’ex fidanzato della sorella, che gli fa ascoltare una cassetta registrata piuttosto inquietante: in essa ascolta la propria famiglia che racconta l’iniziazione nella società della ragazza come un’autentica orgia, a cui avrebbero partecipato addirittura i suoi genitori ed un bullo che lo tormenta. Sospetti paranoici o realtà?

    “Mamma, papà, vorrei parlare un po’ con voi…”

    E’ ovvio che Yuzna intende costruire una metafora piuttosto esplicita del mondo borghese, un mondo divora chiunque non si omologhi ai suoi canoni, e questo dopo averlo adulato con mille “giocattoli” irresistibili. Ma il regista opera in tal senso con grande stile, facendo sorridere ogni tanto e senza appesantire mai lo spettacolo con slogan politici, anzi rivelandosi apertamente non politically-correct nel finale. In particolare “la società che uccide per mantenere segreta la sua esistenza” non deve essere intesa in senso cospirazionista: questo è il “manifesto” di Yuzna, che si scaglia contro la società in cui viviamo tutti, chi da un lato, chi dall’altro della barricata. Dunque chi si omologa avrà agi, un posto di lavoro assicurato, bellezza esteriore e ricchezza materiale: chi invece si azzardi anche solo a discutere l’assunto capitalistico verrà letteralmente… mangiato vivo. Tale aspetto, a scanso di possibili equivoci, viene specificato nell’inizio della scena conclusiva, quando Billy è additato come appartenente ad una razza diversa per “addestramento“, un piccolo insieme di persone della razza umana che sottomette tutti gli altri e detta subdolamente legge.

    Una visione non banalmente romantica, quella del ragazzo, dato che non desidera un mondo ideale di persone simili a lui: semplicemente uno in cui sia lecito vivere la vita vera, umana, fatta di complicazioni, problemi, pulsioni e naturalmente di sesso (il vero leitmotiv di Society, probabilmente). Insomma, quell’umanità che dovrebbe essere ovvia e che invece ai genitori, alla sorella ed agli altri “normali” evidentemente manca, e gli fa addirittura venire il sospetto di relazioni incestuose tra i suoi familiari. In questo scenario anche il rapporto “normale” con Clarissa – interpretata perfettamente dalla conturbante playmate Devin DeVasquez – appare pauroso, visto che anche lei sembra parte di quel mondo. In fondo se la Società, intesa come insieme di rapporti umani tenuti assieme dalla convenienza, della speculazione e dall’opportunismo, impone universalmente dei modelli disumani, Yuzna suggerisce che il tutto non possa che sfociare nella perversione, nel cinismo e – neanche a dirlo – nel cannibalismo. La “grande orgia” e la “cosa informe” degna dei peggiori incubi lovecraftiani è, in effetti, una letterale fusione dei corpi dei borghesi-mutanti: flaccidi, umidicci, solidali tra loro e propensi a cibarsi dei poveri, degli oppressi e di chi non sta alle loro “regole”. Più chiaro di così, si muore (è proprio il caso di scriverlo).

    Vale la pena aspettare la fine del film (il gore nella prima parte è praticamente assente), perchè le scene conclusive sono realmente spaventose, tutte figlie di allucinazioni horror sul corpo umano (mani che escono dalla bocca, persone rivoltate letteralmente come guanti, deformazioni e contorsioni). Non mancano momenti surreali, come le allucinazioni di Billy che vede ninfomani in pose insolite un po’ ovunque (colpa degli squilibri ormonali della sua età!), senza contare la rappresentazione stra-cult dell’irreprensibile padre di famiglia, ovvero una letterale… “faccia da culo”! Anche se la forma è ironica – e richiama una commedia americana – il sottotesto è serissimo e viene affrontato in modo irreprensibile: il pubblico si diverte, e tutti (o quasi) sono soddisfatti dalla visione. Ogni appassionato di horror dovrebbe vedere Society, poi ovviamente la scelta finale spetta a voialtri.

    L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione (G. Debord, “La società dello spettacolo”)

  • La moglie dell’astronauta: la fantascienza che riuscì solo in parte

    Una coppia di astronauti esperti subisce, durante una missione in orbita, quella che sembrerebbe una tempesta magnetica, attraversando due minuti in cui perde i contatti con la Terra: rientrano a casa, e nessuno dei due sembra aver voglia di raccontare cosa sia accaduto. Quale mistero si nasconde in quei due, interminabili minuti di oscurità?

    In breve. Modesto b-movie che riesce solo a metà: presupposti inquietanti, buon ritmo dall’inizio ma il film si perde, passo dopo passo, nel “già visto”, dissolvendosi come un biscotto economico nel latte bollente – e rivelandosi, purtroppo, poca cosa.

    La moglie dell’astronauta” fa parte di quella fantascienza di “basso livello”, dai tratti dichiaratamente b-movie – e con impianti/effetti visuali decisamente modesti, che cerca di fare leva sulle interpretazioni degli attori (l’impianto ricorda vagamente L’arrivo di Wang), genere da sempre contrapposto alla sci-fi più pretenziosa (il recente Interstellar). Da un film del genere ti aspetti un livello di cultismo che deriva da più fattori: la coppia di protagonisti (di solito Deep è una garanzia), il regista poco conosciuto, l’ambientazione nello spazio (almeno in parte), lo sviluppo imprevedibile della storia. Invece lo spettatore che riprenda questo film oggi, all’epoca strombazzatissimo, non potrà che restarne deluso: in effetti al botteghino fu un flop, e questo nonostante la presenza della Theron e di Deep, che ne escono pressappoco a testa alta, ma senza riuscire a convincere quasi nessuno.

    Se è vero che i presupposti del film non sono da poco, e che i primi 20 minuti serrati, brutali ed imprevedibili illudono lo spettatore di stare per assistere ad un masterpiece, il resto del film si dilegua in poco o nulla: e a niente serve la figura ambigua, e progressivamente tenebrosa, di Deep, da marito amorevole ad inquietante individuo capace di perseguitare la moglie-vittima, e minacciarla (senza un motivo troppo chiaro, peraltro). Motivo che poi, a metà film, inizia a diventare più nitido fino a svelarsi nella sua interezza: ma anche qui, la rivelazione è fiacca, e la sostanza della stessa rischia di fare quasi più sorridere che altro. Questo genere di difetti mette in secondo piano anche la mancanza di continuity di alcune sequenze, difetto trascurabile in un film del genere e che qui, invece, diventa determinante in negativo. Non è un caso, del resto, che buona parte di quanto mostrato – inclusa i suoi semplicistici concetti di “umanità allo sbando”, e di “altri mondi” ostili ed infidi – si possa prestare più ad una parodia modello South Park che altro.

    La Theron, di suo, emerge come figura iconica, donna-simbolo anche piuttosto credibile e ben interpretata, e questo per ciò che viene tirato in ballo nella storia (su tutto, la tematica dell’aborto ed il disprezzo della società “per bene” contro chi compie tale tragica, quanto spesso inevitabile, scelta): serve a lasciare un che di dignitoso al tutto, in un certo senso, ma non basta a salvare “The Astronaut’s Wife“, lavoro che zoppica lo stesso, passo dopo passo. Quello che non funziona in soldoni è proprio l’impianto generale della storia, troppo poveristica nel suo allestimento, troppo semplificata e scontata in certi passaggi e forse, credo, troppo poco legata al cinema di genere “che conta”, affidato ad un regista con troppa poca esperienza (nelle mani di John Carpenter, tanto per dire, lo stesso soggetto sarebbe forse diventato ben altro).

    Se non parlassimo di un film a mio avviso fiacco ( di un’occasione persa, in un certo senso), bisognerebbe spendere qualche parole sul finale della pellicola: un finale a sorpresa, se vogliamo, in cui il tema è quello dello sconosciuto che assume le sembianze di una persona amata, e diventa in grado di impadronirsi della sua vita, senza che la vittima possa accorgersene in alcun modo. Neanche malissimo come conclusione da fanta-horror, ma in giro c’è molto di meglio e, soprattutto, non ce n’è abbastanza per ridimensionare la fama non esaltante che La moglie dell’astronauta possiede. Esiste anche un finale alternativo, sul quale sorvolo perchè comunque non sembra cambiare troppo la sostanza.

    Rand Ravich, dal canto suo, dopo questo film ed un precedente corto non ha fatto più nulla in veste di regista (non a caso, verrebbe da pensare), dedicandosi invece a sceneggiatura e produzione. Se resta vero che molte critiche rivolte a “The Astronaut’s Wife” sono piuttosto gratuite, resta la considerazione realistica su un film che poteva dare molto di più, e che si appiattisce fotogramma dopo fotogramma fornendo solo tensione a sprazzi.

  • Tarantino e gli omaggi al cinema di arti marziali: “Kill Bill Vol. 1”

    Una sposa incinta è ferita e sanguinante: un uomo l’ha appena aggredita e sta per spararle.

    In breve. Tarantino omaggia i film di arti marziali di ogni ordine e grado, proponendo un kolossal del genere: fantasioso, ricco di violenza e colpi di scena. 

    Girato con un budget di almeno $60,000 (solo per l’armeria), Kill Bill è probabilmente – ad oggi – uno dei film di arti marziali più celebri e marketizzati della storia; è anche uno dei film di Tarantino più associabili al cinema di genere di ogni ordine e grado, per quanto l’ispirazione primaria sia dovuta a quelli di Bruce Lee. Al netto del vestiario della sposa, infatti, che indossa una tuta gialla identica a quella di Bruce, Kill Bill (in questo primo volume di quella che, ad oggi, potrebbe essere una trilogia incompiuta, che forse non vedremo mai sullo schermo) palpita di azione, eccesso e violenza in quasi ogni singolo fotogramma.

    Le fonti di ispirazione ufficiali sono tre film: The Killer di John Woo (1989), la blaxpoitation di Coffy (1973) ed il western di Per un pugno di dollari (1964); per quanto poi, a ben vedere, si tratti forse del film tarantiniano che omaggia più esplicitamente Lucio Fulci. Non solo per la presenza nella colonna sonora del main theme di Sette note in nero, ma anche per il tipo di violenza esplicita (spesso in primissimo piano, senza risparmiare dettagli) che viene qui omaggiata, rielaborata e riproposta in chiave moderna. Bill, peraltro, è una figura sinistra e difficile da inquadrare, neanche fosse il Jason del primo Venerdì 13, e rimane solo citato da altri personaggi senza vedersi mai (si vedranno solo le sue mani all’inizio ed alla fine del film: per vedere la sua faccia bisognerà infatti aspettare il secondo volume).

    Fondamentale in questo film l’apporto della Thurman, che a quanto pare ebbe l’idea di girare un film di arti marziali durante le riprese di Pulp Fiction (e infatti viene anche tributata nei titoli di coda: Based on the character of ‘The Bride’ created by Q and U è riferito proprio a Quentin e Uma), costruendo un personaggio su misura, archetipico dei film di kung fu: l’eroe solitario disposto a qualsiasi cosa pur di soddisfare la propria sete di vendetta.

    La Sposa è un personaggio tipicamente da film di genere, che per molti versi (e per via di certe morbose circostanze) evoca uno dei film preferiti (e meno citati dalla critica più hipster) di Tarantino, ovvero Thriller – A grim film. La guerriera disposta a qualsiasi cosa pur di vendicarsi dei propri aguzzini, del resto, farebbe di Kill Bill un vero e proprio rape’n revenge, se non fosse per la sua sostanza spettacolare, quasi da cine-fumetto, lontana dalla semi-amatorialità che rese famosi (quanto insostenibili) quel genere di film. Molti altri riferimenti, del resto, sono difficili da inquadrare per via del doppiaggio italiano, per la cronaca: la celebre pluri-citazione “My name’s Buck, and I’m here to fuck” (che suona meravigliosamente assonante quanto è semplicemente grottesca e priva di musicalità, se resa in italiano) è prelevata da una battuta quasi identica di Robert Englund in Quel motel vicino alla palude.

    Nota di merito anche per la colonna sonora, che vede contributi che quasi precedono la fama del film (Nancy Sinatra, The RZA, SFX), brani classici del cinema di genere (Bacalov, Vince Tempera), e altri più di nicchia o raffinati (Neu!). Con un body count degno di uno slasher (si contano in questo episodio 95 morti in tutto), Kill Bill Vol. 1 venne girato in pellicola Super 35 (3-perf), per quanto poi nei credits figuri “Filmed in Panavision“. La scena più esaltante di una pellicola che nasce per esaltare lo spettatore, lasciando svariate parentesi aperte, rimane quella finale: la lotta della Sposa contro gli 88 Folli (Crazy 88, che ci ricorderanno poi ironicamente che “non erano veramente 88“), un omaggio esplicito alla cinematografia kung-fu anni 70 e 80 (soprattutto all’incompiuto Game of death, citato tra gli altri in Bruce Lee La leggenda), ma diventa anche un modo per il regista per aggirare un vincolo imposto all’epoca dalla MPAA, che non gradì l’eccesso di sangue durante quella sequenza.

    Una sequenza interminabile, accattivante quanto paradossalmente (penso) poco realistica anche per un film di arti marziali: del resto Tarantino è sempre stato il re dell’omaggio quanto dell’eccesso, ed impiegò 17 ciak e ben 6 ore di lavoro di cui molto girato con una steadicam (l’operatore ne uscì esausto, da quello che ne sappiamo). Nonostante la lunghezza eccessiva dell’opera, il regista è stato poi abile a tenere alta l’attenzione (apre furbescamente una parentesi sul figlio della sposa proprio negli ultimi secondi del film, ad esempio), anche perchè il rischio di diluire la trama era altissimo, e ne sarebbe risultato, all’atto pratico, un film molto meno consistente di quanto non sia in realtà.

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