Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Saw – L’enigmista: il thriller modello argentiano di J. Wan

    Saw – L’enigmista: il thriller modello argentiano di J. Wan

    Lawrence e Adam, un chirurgo e un fotografo, si ritrovano imprigionati dentro il bagno di quello che sembra essere un edificio abbandonato; kafkianamente, sono stati rapiti senza conoscerne il motivo. Nel frattempo L’enigmista, un sadico serial killer, ha preparato per loro una trappola dalla quale i due dovranno provare ad uscire…

    In breve. Gran film: tensione, gore, ottima regia e recitazione ne compongono l’andamento. Dentro c’è davvero tutto: suggestioni iniziali alla “Cube“, thriller psicologico, cenni alla Dario Argento dei tempi d’oro, horror e splatter. Un vero e proprio filmaccio che eleva la media del genere, inchiodando a più riprese alla poltrona lo spettatore, e raccontandoci gli orrori del nuovo millennio.

    Bel tipo questo James Wan: idee valide, assoluta padronanza della macchina da presa, ricostruzione asettica e distaccata degli ambienti, buona conoscenza del cinema di genere e, soprattutto, giovane età all’epoca dell’uscita del film. Sembra essere un dato di fatto, del resto, che in molti casi i migliori horror escano fuori nei momenti di gioventù dei registi: nel caso di “Saw – L’enigmista” questo aspetto, pur essendo importante, è forse uno dei meno interessanti.

    Il primo di quella che diventerà una celebre saga (si è perso il conto dei seguiti, che ricalcano bene o male sempre la medesima idea) è un thriller incalzante e violento, dal forte feeling claustrofobico e che si distacca dalla tradizione dell’orrore “vedo-non vedo“, in grado di schiaffare sulla faccia dello spettatore la cruda realtà. Due persone vengono tenute imprigionate da un maniaco che si manifesta esclusivamente mediante una voce (o, al massimo, un video). Si tratta di un crudele serial-killer, “l’enigmista”, dalla storia piuttosto complicata (che i seguiti della saga chiariranno un po’ per volta), il quale ha deciso di imprigionare gli sventurati per un motivo preciso. Nel frattempo, quasi a voler loro insegnare il gusto della vita attraverso una estrema minaccia di morte, ha preparato delle micidiali prove di sopravvivenza, per superare le quali le vittime dovranno ricorrere al proprio istinto e capacità di improvvisazione. Sì, perchè il killer in fondo – paradossalmente – ama la vita, e non sopporta chi, come loro, mostra di averla disprezzata o di viverla in modo passivo.

    “Tecnicamente non è un assassino: lui fa in modo che le sue vittime si uccidano da sole.”

    Simile al predatore di esseri umani de “Il centipede umano“, strizzando l’occhio a Dario Argento in più di un’occasione, disseminando le strade della morte di indizi snervanti ed incomprensibili, “L’enigmista” sembra quasi suggerire un carpe diem in salsa splatter che farà la gioia di centinaia di appassionati, con effettacci insostenibili e situazioni spaventose distribuite in modo uniforme nella pellicola. In effetti questo primo episodio è un carosello del gore mica da ridere: Adam viene costretto a cercare in un putrido cesso un seghetto con il quale, per liberarsi da una catena, sarà costretto a segarsi un piede. Amanda (un’ennesima vittima, perchè – come si scoprirà – ce ne saranno parecchie), tossicodipendente, dovrà cercare la chiave per sbloccare una trappola mortale nelle viscere del suo compagno di cella (narcotizzato, ancora vivo), e così via. Il “gioco” del protagonista è, in sostanza, quello di costringere le sue vittime a ripetere gli stupidi gesti che commettevano nella propria vita, pena un grottesco suicidio se non dovessero riuscire nell’intento.

    Probabilmente uno dei pochi film del genere capace di rendersi interessante anche – secondo me – per chi non fosse, di suo, uno sfegatato fan dell’orrore.

  • Wanna: su Netflix la docuserie sulla televenditrice più discussa di sempre

    Wanna è la docuserie lampo di Netflix (di appena 4 puntate) che racconta la storia di due tra i personaggi TV più iconici di sempre: Wanna Marchi e Stefania Nobile, coppia TV di madre e figlia, nella veste delle iconiche venditrici di prodotti cosmetici (e di lì a poco, di consulti magici, rituali del sale, del desiderio, del danaro, del corallo), dedite ad una singolare forma di upselling telefonico che venne, infine, giudicato come estorsione da una giuria. La scrittura della docuserie in questione è affidata ad Alessandro Garramone, già noto per la sceneggiatura di Italian Horror Stories, mentre produzione e regia sono affidate a Gabriele Immirzi e Nicola Prosatore.

    Tutti abbiamo bisogno di illusioni, nella vita! (W. Marchi)

    Si tratta di quattro episodi per una durata complessiva di circa due ore, visionabili su Netflix a partire da settembre 2022, con la presenza di Wanna Marchi, Stefania Nobile, Federica Landi, Roberto Da Crema, che vengono sia proposti in veste storico-televisiva. Da Crema, ad esempio, è il televenditore che oggi sarebbe probabilmente un meme internet, dal caratteristico tono di voce alto ed esasperato che, come ammette lui stesso candidamente, era inizialmente legato alla sua scarsa esperienza in ambito TV, che interpretava le proprie performance come fosse in un centro commerciale senza microfono. La docuserie è ricca di lunghe, personali e approfondite interviste, mentre viene esplicitato nel finale come le protagonisti abbiano scontato le loro pene e siano, ad oggi, libere cittadine. Wanna Marchi proviene da una famiglia di umili origini, con un marito con cui ha un rapporto complicato ed una figlia a cui è legatissima, tanto da farla esordire in TV come sua spalla fin da giovanissima (il documentario è infarcito di spezzoni TV d’epoca, ovviamente).

    La dinamica delle televendita viene spiegata dalla docuserie ben nel dettaglio: l’hype delle seminali e numerosissime TV commerciali (primi anni ottanta) si stava per scontrare con la necessità di fare cassa, cosa non facile per imprenditori a volte improvvisati o poco avveduti che, come avvenuto nel caso in questione, sfruttavano televendite “memetiche”, facilmente riconoscibili, dirette, molto aggressive, che portarono inaspettatamente a vendite stellari.

    Parliamo della vendita di cosmetici che poi, come viene mostrato, ad un certo punto più non basta: si passa alla vendita di “numeri fortunati” al lotto, di talismani contro la sfortuna e via dicendo, in una catena commerciale infinita che prevedeva, per inciso, l’interlocuzione diretta per telefono con tutti i clienti (circa 300 mila, di cui solo qualche centinaio accettò di testimoniare al processo subito nel 2006). Fa sensazione pensare a tutti questi italiano che “credevano“, come si meraviglia di ammettere una ex centralinista durante un’intervista: il che indica la generazione sottovalutazione del sentimento di credenza o credulità popolare, a nostro avviso, mettendo in luce – cosa che viene apertamente ammessa – come il successo del trio Marchi, Nobile, Do Nascimento fosse da imputare più a cosa (e come lo) dicevano, che ai prodotti in sè. Non importa se poi fossero, come è stato, cure dimagranti o per la cellulite, numeri del lotto, talismani, fino ad arrivare alle televendite telefoniche basate sull’urgenza, sul pericolo imminente quanto non sulla minaccia ai clienti, a livello implicito o esplicito. Non importava perchè il prodotto si situava in un territorio borderline che, ad un certo punto, sfugge di mano alle stesse protagoniste.

    La Marchi auto-assume (con grande personalità ed una buona dose di sfrontatezza, mescolata ad una incoscienza di fondo che quasi certamente fu presente tra gli “ingredienti” di questa storia) il ruolo di leader aziendale, guadagnando tantissimi soldi grazie ad una capacità teatralizzante di effettuare vendite, sfruttando la credenza di cui sopra. Il tutto fino a  insospettire la Finanza, grazie ad una celebre segnalazione al programma Striscia la notizia ed una signora che si prestò a fare da “gancio” per avviare l’inchiesta (un format, quello di Mediaset, che possiede forse un’idea discutibile della comicità e della satira, ma che su questi frangenti è sempre stato molti passi oltre chiunque altro). Fa ancora più impressione, del resto, la linea difensiva delle Marchi, che si muove (estremizzando un po’ la sintesi) sulla falsariga del darwinismo sociale, per cui non sarebbe affatto un delitto raggirare degli ingenui.

    La sua aggressività iconica, in barba a qualsiasi criterio di razionalità e tabù moderno sul body shaming (la Marchi appellava fin dall’inizio come “grasse” le clienti target a cui si rivolgeva, e questa cosa era uno dei tratti distintivi del suo registro di comunicazione), sembrava far parte di una strategia psicologica (probabilmente non del tutto consapevloe) quanto alla prova dei fatti efficace: l’attacco frontale e senza mezzi termini serviva a sbarazzarsi della reticenza nell’acquisto, costruendo un bisogno nel futuro acquirente e facendolo sentire in dovere di fare come dicevano dall’altra parte del telefono.

    Cosa che portò la tele-venditrice più famosa d’Italia negli anni ottanta e novanta a guadagnare molti soldi, salvo doversi confrontare con situazioni non sempre trasparenti (al dramma familiare si aggiunge, ad esempio, la circostanza con cui il suo negozio viene in una circostanza preso di mira, incendiato da ignoti). Niente male, a conti fatti e dopo il trascorrere di qualche tempo, per una persona che nasce e cresce nella promozione di prodotti cosmetici, e che racconta le circostanze incredibili con cui ha arricchito la propria esistenza, fino a scontrarsi con un fallimento negli anni novanta e un processo per truffa e associazione a delinquere.

    Approfondimento esterno: Psicologia e manipolazione mentale

    Wanna colpisce nella lucidità delle testimonianze presentate dai protagonisti delle vicende, ed è interessante cogliere una sostanziale (e poco ovvia, per certi versi) riflessività della vicenda: se accettiamo che personalità del genere siano tipi psicologici più o meno “machiavellici“, il fatto che siano riuscite a vendere l’improbabile a varie gradazioni non le immunizza, come potrebbe sembrare, dal dare per scontato che il loro target fosse altrettanto sincero. In pratica, stando a questa visione psicologica, se è vero che la manipolazione c’è stata è altrettanto vero che non sarebbe comunque facile, per loro, notare a loro volta se qualcuno stesse mentendo

    Magra consolazione, per le vittime, ma tant’è: se una personalità machiavellica tende per sua natura mentire, il rovescio della medaglia è che non per forza si accorgerà se l’Altro mente, a sua volta. Il che suggerisce una escalation di significanti per cui, per associazione di idee neanche troppo arbitraria, che ciò che hanno fatto non siano le sole ad averlo fatto, che insomma il mood trasmesso da Wanda sia stato quasi riciclato da certe multinazionali digitali, per non parlare dei vari settori borderline di vendita-fuffa di cui il web è zeppo. A quel punto non puoi nemmeno farne una questione personale, per così dire, e non ti resta che chiederti: ma come hanno fatto, in quegli anni, a vendere più prodotti di quel tipo che cellulari costosi? Altro interrogativo non da poco consisterebbe, poi, nel chiedersi se quanto avvenuto sia così localizzato, o sia diventato, al contrario, emblematico di un certo modo di vendere abusando della buonafede altrui (con vari gradienti di gravità, s’intende) mediante leve psicologiche, cosa a cui dovremmo essere abituati un po’ tutti, peraltro, a giudicare dal ritmo e dal tenore delle telefonate di marketing da cui siamo tragicamente tempestati.

    Il sistema di vendita della Marchi, così come viene descritto nella docuserie in questione, ricorda in parte quello proposto dalla versione moderna del telemarketing, il digital marketing nelle sue forme più aggressive, anche lì basato sulla costruzione di bisogni e su vari gradi di upselling – ad un certo punto si iniziano a vendere numeri del lotto vincenti e, nel caso in cui non uscissero, si proponeva la lettura delle carte da parte dell’iconico, anche qui, Mário Pacheco do Nascimento. Nulla che in effetti su internet non sia ampiamente diffuso da anni, e sul quale sono cambiate certe modalità di erogazione, in parte, ma non la sostanza: la distrubuzione mediante ads ambigue di info-prodotti fake, pseudo-formazione e via dicendo, rimane ancorata al registro dell’aggressività, dello sminuire il prossimo, con marketer ambiziosi, sprezzanti ed egotici (oltre che moralmente discutibili), dell’”io so’ io e voi non siete un cazzo” di marco-grilliana memoria, uno strano mood che dovrebbe soltanto infastidire ma che, a conti fatti, accresce solo il senso di urgenza dell’acquisto nelle persone più fragili, in un delirio di iperboli e tecniche di manipolazione (implicita ed esplicita) che, spiace riconoscerlo, continuano a funzionare ancora oggi.

    La canzone “prendimi” della colonna sonora di Wanna è il brano Cinque minuti di te di Don Antonio, The Graces. Wanna è disponibile in streaming su piattaforma Netflix.

  • Spogliamoci così, senza pudor… è la commedia erotica di Sergio Martino

    Titolo: Spogliamoci così, senza pudor…

    Regia: Sergio Martino

    Anno: 1976

    Genere: Commedia erotica

    Cast

    • Edwige Fenech
    • Vittorio Caprioli
    • Lino Banfi
    • Carlo Delle Piane
    • Giuseppe Pambieri

    Storia e produzione

    “Spogliamoci così, senza pudor…” è un film italiano del genere commedia erotica diretto da Sergio Martino. Ambientato negli anni ’70, il film segue le vicende di un gruppo di amici che si trovano in situazioni imbarazzanti e impreviste in una località turistica.

    Sinossi

    Il film racconta le avventure e gli equivoci che si verificano durante le vacanze di un gruppo di amici in una località turistica. Le situazioni comiche si susseguono quando si trovano coinvolti in fraintendimenti romantici e imbarazzanti. La trama ruota attorno a equivoci amorosi e situazioni spiacevoli che mettono alla prova le relazioni e la moralità dei personaggi.

    Curiosità

    Il film appartiene al genere della commedia erotica all’italiana, che era popolare nel cinema italiano degli anni ’70. Queste pellicole spesso mescolavano umorismo e contenuti piccanti, creando un mix caratteristico del periodo.

  • Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Follia contro ragione, fantasia contro realtà: uno dei più celebri masterpiece dell’orrore mai realizzati.

    In breve. Film stra-cult perchè ha inventato molti consolidati stereotipi thriller, e per la meravigliosa forma espressionistica, a tratti impensabile per l’epoca. Contiene un interessante doppio finale “involontario” davvero clamoroso.

    Davvero singolare questo esempio di cinema muto risalente alla Germania del 1920, contato tra i primissimi horror della storia (Nosferatu di Murnau uscirà solo due anni dopo, così come Freaks di Browning). Girato secondo i canoni dell’espressionismo, si presenta come un film seminale adatto, oggi, probabilmente solo agli appassionati di cinema “assoluti” o, al limite, agli hacker di pellicole alla ricerca di immagini insolite. Com’è ovvio non esiste parlato a livello di suono, ma solo una lunga ed alienante colonna sonora curata da Giuseppe Becce.

    La storia è quella di un ipnotista che usa come un fenomeno da baraccone Cesare, un sonnambulo con la capacità singolare di predire il futuro delle persone. Dopo due misteriose morti avvenute in zona, una delle quali realizza esattamente la “profezia”, esce fuori che l’inquietante ipnotista avrebbe trovato un modo per controllare la volontà del giovane e costringerlo, durante il sonno, a compiere omicidi. Inoltre l’uomo si sarebbe immedesimato nella figura del Dottor Caligari, che aveva compiuto secoli prima delle approfondite ricerche sull’argomento ipnosi: come rivelazione definitiva si scopre che egli è, di fatto, il direttore di un manicomio che ha perso, neanche a dirlo, i lumi della ragione (i richiami al celebre “Dottor Catrame e Professor Piuma” di E. A. Poe sembrano sostanziali).

    Finita qui? Non proprio: non è infatti possibile discutere de “Il gabinetto del Dottor Caligari” senza considerare la parte iniziale e finale, inserite per imposizione del governo dell’epoca allo scopo di cambiarne il significato, letto addirittura come sovversivo. E così la versione definitiva del film viene farcita con un “panino” esterno, capace di stravolgere il messaggio di fondo e facendo apparire  il tutto come l’allucinazione di un pazzo, che avrebbe inventato quella storia avendo in odio il direttore del manicomio in cui è rinchiuso. Col senno di poi, una volta tanto potremmo dire che la censura è riuscita a fare qualcosa di buono, anche se così facendo 1) il sottotesto del film viene annullato del tutto e 2) si è indotti a fare considerazioni piuttosto brutali contro il cinema stesso e, come ha scritto molto giustamente Exxagon, far apparire che “la visione espressionista sia quella di una folle, ovvero l’arte moderna non ha senso ed è pura pazzia“. Ad ogni modo questo particolarissimo espediente narrativo del doppio finale “innestato” diventerà un classico di un certo thriller moderno, nel quale la demolizione delle apparenze è condizione necessaria per svelarà la cruda realtà dei fatti.

    La trama non è troppo lineare, il film rimane comunque interessante mentre, a onor del vero, gli elementi bizzarri de “Il gabinetto del Dottor Caligari” non sono pochi, anzi occupano parte preponderante della pellicola: tuttavia, considerando l’epoca ed i mezzi annessi, l’opera è di livello davvero notevole e finirà per piacere anche a chi non ama particolarmente certi virtuosismi. Molto degni di nota gli effetti visivi globalmente presenti, mentre la sequenzialità della storia è resa in modo ottimale dalla successiva colorazione della pellicola (avvenuta nel 1996) che scandisce, ad esempio, i notturni in azzurro.  Tra le curiosità più prettamente cinematografiche, infine, vi è l’interpretazione data da alcuni riguardo al misterioso Cesare, che – per via del comportamento e del suo dormire in una cassa di legno – sembrerebbe una specie di proto-zombie, il che smentirebbe White Zombi del 1932 come primo film di questo tipo. L’ipotesi è indubbiamente affascinante ma, di fatto, non mi pare nè smentibile nè confermabile sulla base a quello che vediamo.

  • Il mostro della strada di campagna: vi spaventerà senza mostrare una sola goccia di sangue

    Due ragazze inglesi, Jane e Cathy, si trovano in vacanza in Francia a bordo delle proprie bici, fin quando non succede un imprevisto…

    In due parole. Se esistesse un genere “pre-slasher” non ci sono dubbi che “And soon the darkness” potrebbe essere uno dei suoi migliori rappresentanti: nonostante il sottotesto subdolamente violento, nel film non viene sparsa una sola goccia di sangue, e si delinea abilmente, in un gioco di sospettati accennato con cura, un modello di assassino scoperto solo nel finale. Delinea lo scenario di apparente normalità/terrificante realtà a cui Wes Craven, Dario Argento, Aldo Lado, Mario Bava e molti altri finiranno per rifarsi. Di culto.

    Partendo da presupposti apparentemente banali (due giovani ragazze ed un “orco” che sembra perseguitarle) Robert Fuest – che l’anno successivò dirigerà L’abominevole dottor Phibes – sviluppa un intreccio diretto, semplice e coinvolgente, avendo cura di inserire pochi personaggi e focalizzando l’ambientazione, in gran parte, all’interno di un scenario archetipico (un bosco). Appare da subito piuttosto chiaro che si tratti di un film con un orrore di fondo nascosto, subdolo e sempre accennato, che inizia a decollare sul serio solo dopo la prima mezz’ora, inchiodando inesorabilmente, a quel punto, lo spettatore alla poltrona.

    I presupposti sono i soliti, quelli tipici del cinema di genere dell’epoca, e sembrano dipingere lo scenario in cui saranno ambientati almeno altre due celebri (e controverse) pellicole: L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972) e I spit on your grave di Zarchi (1978). Pellicole in cui l’orrore esce fuori dall’isolamento di individui giovani di sesso femminile, e che deriva in buona parte dalla loro innata ingenuità – oltre che, naturalmente, dalla violenza subdola e repressa di un mondo ipocrita o perbenista. Nonostante in questa sede – è bene specificare – non siano presenti le note estremizzazioni ultra-violente dei due citati, si nota da subito come iniziasse a “bollire in pentola” un certo spirito, un’attitudine – che di lì a poco sarebbe diventata in parte slasher, in parte revenge movie.

    Nonostante “Il mostro della strada di campagna” non possieda questo tipo di caratteristiche, ma sia soltanto una sorta di compendio essenziale del genere – per questa regione accessibile anche dal pubblico più impressionabile – risulta essenziale dal punto di vista storico, perchè delinea lo scenario classico (e non è poco), ma fa anche di più: suggerisce stilemi, drammatizzazioni e caratteri dei personaggi a cui fin troppi registi faranno riferimento nel seguito. Il gioco del “tutti-sospettati”, del resto, è realizzato con enorme cura: tanta da evocare i clamorosi “giochi di prestigio visuali” a cui Dario argento, tanto per citare uno dei più famosi, ha sempre cosparso le proprie pellicole. Chi sarà l’assassino? Forse il marito della barista? L’uomo con la vespa? Che non sia l’insegnante di inglese dall’aspetto pacato?

    Il tutto senza alcun eccesso visivo o concettuale, ma narrando la storia con una sorta di “pacatezza” che la rende, in fin dei conti, ancora più spaventosa. “Il mostro della strada di campagna“, orrendo titolo italiano corrispondente ad un più suggestivo “And soon the darkeness“, definisce un intreccio che, visto oggi, appare di natura quasi ordinaria, neanche troppo esaltante. Uno svolgimento obiettivamente accattivante, minato da qualche banalità di troppo nella fase inizale che poi si delinea come un crescendo di tensione, fino ad un clamoroso finale a sorpresa: una sorpresa che non appare troppo inattesa, che forse molti potranno indovinare prima del tempo ma che è di natura archetipica, e ce ne accorgiamo contestualizzando al periodo di uscita (1970).

    Ancora di più in ragione di questo anticipo clamoroso rispetto a molti altri epigoni usciti fuori nel seguito: le tante “variazioni sul tema” che i cinefili più appassionati amano ancora oggi. I volti candidi di Michele Dotrice e Pamela Franklin, di fatto, finiscono per rappresentare l’innocenza di una generazione allergica agli stereotipi, ed alla riscoperta di una libertà perduta sulla strada (Easy rider, uscito un anno prima), valori sviliti da un mondo incomprensibile, indifferente, retrogrado e per certi versi a loro avverso.

    In questo il film getta le basi per pellicole come il claustrofobico L’ultimo treno della notte (che uscì cinque anni dopo): in definitiva ciò finisce per rendere And soon the darkness” una vera pietra miliare del genere. Un genere che si trova ancora in uno stato embrionalmente slasher (Reazione a catena di Mario Bava uscì solo l’anno successivo), e che quindi è prematuro definire tale per quanto esso, nel lungo periodo, seguirà molte di queste direttive cinematografiche.

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