Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • La lunga notte dell’orrore: voodoo e morti viventi pre-Romero

    La lunga notte dell’orrore: voodoo e morti viventi pre-Romero

    Un medico londinese si reca assieme alla figlia presso un suo brillante ex-studente: arrivati nel suggestivo paesino, strani morti sembrano verificarsi in modo del tutto inspiegabile…

    In breve. Due anni prima di Romero John Gilling mette in scena una buona storia di morti viventi, legata strettamente alla tradizione voodoo. Elegante nella forma e piuttosto fluido nella trama – per quanto non proprio strabiliante visivamente – si tratta di uno dei film più inquietanti e meglio realizzati del periodo.

    Ho sognato morti che resuscitavano… e tutte le tombe erano vuote

    La lunga notte dell’orrore” è una produzione diretta da John Gilling per la Hammer, anno di grazia 1966: essa si sviluppa come un tipico horror gotico “all’inglese” riportando alcuni punti di contatto con l’omologo – di 22 anni prima – Ho camminato con uno zombie, per quanto in questa nuova circostanza si leghi la dimensione “morti viventi” non alla residenza su un’isola esotica bensì all’importazione da parte di un ambiguo nobile locale. Lo zombie assume quindi, in questo film, la valenza di una sorta di instancabile “manovale” che il villain, come vedremo, sfrutta ferocemente all’interno della propria miniera. Per farlo egli ha imparato il voodoo presso qualche oscura località esotica, ed il suo essere infido ma apparentemente ineccepibile lo rende senza dubbio un personaggio molto affascinante (raffinatezza ed efferatezza estrema, del resto, sono tratti caratteristici a cui si richiamerà il moderno Ubaldo Terzani).

    Il medico Sir James Forbes, dal canto proprio, nell’eleganza classica da un lord inglese lucido e razionalista, verrà progressivamente travolto dalla dimensione ed inquietante mistica del voodoo, per quanto all’inizio la relegasse a banali superstizioni del posto; di fatto, è un trionfo della dimensione orrorifica in una pellicola di culto, gradevole da riscoprire ancora oggi, semplicemente irrinunciabile per gli appassionati del genere e che non risente troppo dell’età che ha. Ovviamente non c’è da aspettarsi un delirio di splatter e gore, per quanto i morti viventi siano piuttosto ben realizzati ed assumano, forse per una delle prima volte nella storia, il colorito violaceo, l’andamento barcollante e gli occhi bianchi che impareremo a conoscere negli anni successivi. Gli effetti speciali di questo film non sono certamente eccezionali, anzi vivono di quell’orgogliosa artigianalità di cui non tutti vanno fieri; nonostante questo la storia si regge in piedi molto dignitosamente, e conferma uno dei maggiori picchi di idee e buoni script di quel periodo. Questo è riscontrabile anche nei dialoghi molto curati che, come sappiamo, non sono tipicamente un punto di forza di questo tipo di film.

    Per quanto privo della carica rivoluzionaria ed ultra-gore delle opere di Romero, in definitiva, The plague of the zombies è senza dubbio uno dei migliori horror sui morti viventi mai realizzati.

  • Train de vie: un treno per vivere la memoria

    Anni ’40. Shlomo preavvisa gli abitanti del suo villaggio shtetl, in Europa dell’Est, che i soldati nazisti stanno arrivando. Per salvare tutti il protagonista lancia l’idea di costruirsi un treno, fingere di auto-deportarsi e fuggire in Palestina. Metà degli abitanti si travestirà da soldato tedesco e l’altra metà da deportato…

    In breve. Uno dei migliori film mai realizzati sull’ olocausto, in un perfetto equilibrio tra tragico e comico: da non perdere.

    Si può trattare in modo ironico o satirico l’olocausto, senza retorica o cattivo gusto, e senza scadere o degenerare? A guardare “Train de vie” del regista rumeno Radu Mihăileanu, sembrerebbe proprio di sì: questo film gioca un ruolo essenziale nella cinematografia del genere, solitamente propensa a presentare solo storie tragiche (come è giusto che sia, in fondo), ma focalizzando la visuale sull’ottica di un protagonista (una vittima o, più raramente, un carnefice). Ed è davvero incredibile come anche oggi, nella giornata della memoria, questo piccolo gioiello non venga quasi mai citato.

    Molti film sull’Olocausto, al di là di eccezioni molto specifiche, possiedono come difetto la capacità involontaria di sminuire o alleggerire i fatti, presi come sono da un meccanismo di “voler sembrare” in un certo modo (ad esempio il film di Benigni La vita è bella lascia più il segno di un tragedia personale piuttosto che collettiva, mentre La settima stanza di Márta Mészáros si focalizza sul contraddittorio misticismo della protagonista, tralasciando deliberatamente da parte, per dire, la tragedia in atto ed il rapporto ambiguo tra chiesa e nazismo). Si ammette infatti, di voler concentrare l’attenzione esclusivamente sul protagonista e i suoi drammi personali, per restituire la massima empatia con il pubblico: ma ciò, di fatto, finisce troppo spesso per mettere in secondo piano lo scenario che, nel caso del nazismo, è invece fondamentale. Train de vie non solo fa questo, ma lo rende oggetto di satira (il che non implica, ricordiamo, che la cosa debba fare ridere: semmai, alla fine, provoca l’effetto contrario).

    C’è una mentalità che degenera, un modo malato da rappresentare: e pochi film lo sanno fare come “Train de vie“. Si sa ironizzare su una tragedia senza sminuirne la portata, giocando su un equilibrio delicatissimo e, soprattutto, facendolo in modo credibile: e nel frattempo uno dei protagonisti si chiede quanto potrà mai costare un biglietto per la Palestina, oppure “se deportarsi da soli ti sembri da sani di mente”.

    Train de vie è una successione incalzante di eventi, che alternano tradizioni yiddish (una parodia del tedesco con dentro l’umorismo, si dice all’inizio, ed è un po’ questa la chiave di lettura più vere dell’opera) ad imperdibili siparietti parodistici: i personaggi che si dividono in fazioni politiche o religiose, del resto, è degno di un film dei Monty Python.  il finale, poi, è un’autentica sorpresa, che solo la visione completa del film potrà far gustare appieno.

    Train de vie può essere considerato, senza mezzi termini, un capolavoro del genere, proprio perchè mostra uno scenario verosimile, possiede una visione globale della cultura e della società dell’epoca, con la capacità di fare satira efficace in chiave anti-nazista, ma rifiutando al tempo stesso qualsiasi collocazione aprioristica in una religione o un’ideologia. Buona, ed incalzante, colonna sonora di Goran Bregovic.

    Io fuggivo, credendo che si potesse fuggire da ciò che si è già visto… troppo visto.

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  • Shutter Island distrugge ogni certezza dello spettatore

    In breve. Thriller psicologico in pompa magna, molto ben realizzato ed interpretato (ed è anche uno dei film di Scorsese più oscuri di sempre). Alla prova dei fatti vagamente ermetico, e non sempre capito dal pubblico. Twist finale magistrale: unico nel suo genere.

    1954: Edward “Teddy” Daniels, un agente federale dal passato tormentato, indaga sulla scomparsa di una paziente da un manicomio criminale. Girato in quattro mesi nel 2008, Shutter Island è uscito due anni dopo; si tratta indubbiamente uno dei film più noti e cupi di Martin Scorsese, oltre ad essere l’ultimo ad essere stato girato dal regista su pellicola.

    Il film è basato su una storia vera?

    No, “Shutter Island” non è basato su una storia vera.  Se la storia è avvincente e ricca di suspense, sia il romanzo che il film sono completamente di finzione e non sono basati su eventi o persone reali. La trama e i personaggi sono il frutto dell’immaginazione dell’autore e del regista. Il tutto è basato sul libro L’isola della paura di Dennis Lehane (uscito del 2003, ed. Piemme), come abbiamo scritto non si basa su una storia vera (anche se tutto, in effetti, lo farebbe pensare), per quanto la suggestione dell’isola sia tratta da un ricordo dell’autore, Lehane: la visita, da ragazzino, ad un carcere di Boston Harbor.

    Trama del film Shutter Island: ecco il riassunto in breve

    1954: Edward “Teddy” Daniels e il suo collega Chuck Aule salgono su un traghetto diretto a Shutter Island, la sezione dell’Ashecliffe Hospital riservata ai criminali psichiatrici. Sono lì per avviare l’indagine sulla scomparsa di una paziente, Rachel Solando, che è stata incarcerata per aver ucciso per annegamento i suoi tre figli. Nonostante sia tenuta in una cella chiusa a chiave sotto costante supervisione, è riuscita misteriosamente a scappare dall’ospedale e forse addirittura dall’isola.

    Il film si svolge sull’ambivalenza della figura di Teddy, che si ridefinirà più volte nel corso della trama fino ad un imprevedibile finale.

    Lo spiegone del film

    La scelta precisa di un “genere” per Shutter Island è difficoltosa: c’è il noir, c’è il thriller, ci sono in parte anche l’horror e le atmosfere claustrofobiche tipo, ad esempio, The Experiment. Fino alla fine lo spettatore è assalito dai dubbi: chi è davvero Teddy Daniels? Anche lo spettatore più razionale tenderà a “dare ragione” ed empatizzare con il suo personaggio fino alla fine, sostenendo la sua (tutto sommato credibile) teoria del complotto: l’uomo infatti sospetta che gli infermieri ed il personale del manicomio abbiano favorito l’evasione di Rachel Solando, una paziente evasa in circostanze misteriose e, da allora, svanita nel nulla. Eppure l’isola è un ambiente ristretto, in cui è difficile muoversi, e da cui non sembra esserci modo di fuggire: come stanno davvero le cose? La risposta è contenuta (pre-avviso: adesso c’è uno spoiler) in quel finale sorprendente, quel twist che spezza ogni speranza e riporta il pubblico alla cruda realtà: Teddy in realtà ha problemi psichiatrici di sdoppiamento della personalità e dissociazione, e gran parte di ciò che ha vissuto è avvenuto soltanto nella sua mente. (fine spoiler)

    Shutter Island, visto oggi, appare quasi rarefatto nella sua atmosfera, anche se le continue allucinazioni del protagonista (ad un occhio allenato, per la verità) faranno più volte sospettare quella che è, alla fine, quell’unica inesorabile verità. Probabilmente, visto oggi, è anche vagamente scontato da smantellare nella sua costruzione da giallo puro, ma questo non cambia la sua valutazione complessiva che rimane, senza dubbio, positiva.

    Edward, il poliziotto tutto d’un pezzo

    Del resto la figura di Edward oscura qualsiasi dubbio o domanda, tanto è compatta, coinvolgente e nitida: un poliziotto tutto d’un pezzo, in cui è scontato immedesimarsi, apparentemente irreprensibile e stereotipico del federale cinematografico USA – con tanto di vizio dell’alcol.

    Blooper o errori nel film? Non proprio

    Questo film, del resto, è anche un raro caso in cui non solo il twist finale stravolge l’intero senso della storia, ma anche gli errori di continuità (che in realtà sembrano essere tratti dai sogni allucinati di Edward) sono voluti, funzionali e frequenti, oltre ad essere prettamente legati alla spiegazione finale. Non ha senso, pertanto, sindacare sugli stessi e “scandalizzarsi” che Scorsese abbia potuto girarli, dato che sono funzionali ad una narrazione tra realtà e fantasia – che non tutti, evidentemente, hanno inquadrato nel modo corretto.

    Sempre in bilico tra follia e realtà

    Nello scorrere di Shutter Island, del resto, si gioca spesso sul filo dell’inintellegibile, del non percepito a prima vista. Vedi ad esempio la questione degli anagrammi dei nomi (e dello stesso titolo: l’anagramma di Shutter Island potrebbe essere “verità e bugie” -“truths and lies” – così come verità-negazioni – “truths/denials“). Più in generale le apparenze non sono quello che sembrano, ed il limite tra follia e realtà è sempre sottile, sfumato, sulla falsariga di thriller ambigui come Seven o Identità. Nella narrazione sono comunque presenti riferimenti a casi storici realmente accaduti (i fatti di sangue nel campo di concentramento di Dachau nel 1945, liberato dall’esercito americano), ed il feeling generale è tanto realistico da lasciare spiazzati, alla fine della visione, e quasi malinconicamente delusi dalla stessa.

    La citazione cult del film: vivere da mostro o morire da uomo per bene?

    La frase più significativa del film, del resto, nella sua lucida follia (“Cosa sarebbe peggio: vivere da mostro o morire da uomo per bene?”) è legata ad un doppio significato: vivere da mostro, infatti, significherebbe accettare il proprio senso di colpa. Morire da uomo buono, al contrario, comporterebbe l’asportazione di parte del cervello mediante lobotomia, proprio perchè la cura non ha mai funzionato.

    Il paradosso di Shutter Island

    Due scelte soffocanti dai tratti esistenzialisti, che evidenziano certi limiti della mente umana e definiscono il paradosso definitivo della pellicola, oltre a sancirne ufficialmente la bellezza. Non esiste un vero e proprio legame esplicito e voluto tra quella frase e un famoso brano dei Metallica, ma è comunque evocativo e significativo ricordarne il testo:

    When a man lies he murders
    some part of the world
    These are the pale deaths
    which men miscall their lives
    All this I cannot bear to witness any longer
    cannot the Kingdom of Salvation
    take me home (Metallica)
    tradotto:
    Quando un uomo mente, uccide
    qualche parte del mondo
    Tali sono le pallide morti
    che gli uomini chiamano “vita” per sbaglio
    Tutto questo non posso più sopportarlo
    possa il Regno della Salvezza
    non portarmi più a casa

    Il dilemma del protagonista, del resto, potrebbe essere riassunto da quell’ultima criptica frase, la quale – a parte evocare il testo di To live is to die dei Metallica – definisce il senso di quanto abbiamo visto, in definitiva: un film nel film, un roleplay ultra-realistico – difficile da vedere con scetticismo, sia per il protagonista che per buona parte degli spettatori. A livello di spiegazione del finale, inoltre, non abbiamo risposte nette, ma il modo in cui l’uomo si consegna agli infermieri farebbe pensare che abbia scelto di farsi lobotomizzare come unico possibile antidoto al loop di dolore che prova.

    Shutter Island è in definitiva un grande thriller, forse uno dei migliori mai girati in quegli anni – come pochi ne sono stati girati, e che vanta tantissimi, più o meno fiacchi, tentativi di imitazione.

  • C.H.U.D.: l’orrore nelle fognature

    Nella città di New York si verificano ripetute scomparse di persone di ogni estrazione sociale: il capitano di polizia indaga sul caso, scoprendo progressivamente una incredibile verità.

    In breve. Poco noto in Italia, probabilmente, ma rientra nelle chicche del genere completamente da non perdere. Per intenditori del genere anni ’80, e per pochi altri.

    Chi si nasconde nei bassofondi delle fogne di New York? Secondo una diffusa leggenda urbana, con un fondo di verità, dei coccodrilli o dei caimani: la versione più popolare di questa storia impone che siano grandi, grossi, affamati e albini, per via della manca di luce solare. I coccodrilli nel sistema fognario di NY sono una delle urban legend più potenti mai raccontate, ed in questo film di Douglas Cheek si respira, fin da subito, aria di urban legend. Solo che non si tratta di rettili, in questo caso, bensì di creature umanoidi dagli occhi luminosi, che sembrano cibarsi degli esseri umani e che, secondo una certa opinione pubblica, non sarebbero altri se non i barboni che affollano le strade. Col tempo, un fotografo ed un poliziotto scopriranno la verità.

    Le creature hanno il potere di chiudere il cielo…

    C.H.U.D. – che è un acronimo che fa riferimento sia a “Cannibalistic Humanoid Underground Dweller” che a “Contamination Hazard Urban Disposal” – parte col botto, senza preamboli nè orpelli narrativi: un campo lungo su una strada desolata, con una donna che porta in giro il proprio cane. Da un tombino fuoriesce uno strano fumo; la donna si avvicina un po’ troppo e, neanche a dirlo, viene trascinata in basso da una creatura misteriosa. La dimensione è quella del classico horror anni 80 che tutti conosciamo, del resto a metà anni 80 l’horror era così: diretto, immediato, senza complimenti. Un film che, peraltro, presenta anche una certa importanza come cult, tant’è che in tempi recenti è stato apertamente citato come ispirazione per US di Jordan Peele.

    Nel film si intrecciano più storie parallele, dimensione atipica per un horror del genere che, in genere, ne racconta quasi sempre una, focalizzandosi su al massimo un paio di protagonisti o di villain. I personaggi minacciosi della storia sono volutamente indefiniti, ma si intuisce senza neanche troppo sforzo che vivono nelle fognature e ogni tanto si affacciano per cibarsi di qualche essere umano. I vari personaggi saranno successivamente destinati ad incontrarsi nel seguito, mentre la trama introduce il sospetto che dietro le sparizioni possa esserci un complotto del governo americano.

  • I miserabili: trama, cast, curiosità, produzione

    “I miserabili” del 1998 è una versione cinematografica dell’omonimo romanzo di Victor Hugo, diretta da Bille August. Ecco alcune informazioni sul film:

    Cast Principale:

    • Liam Neeson nel ruolo di Jean Valjean.
    • Geoffrey Rush nel ruolo di Ispettore Javert.
    • Uma Thurman nel ruolo di Fantine.
    • Claire Danes nel ruolo di Cosette.
    • Hans Matheson nel ruolo di Marius.
    • Natalie Baye nel ruolo di Madame Thénardier.
    • Claire Rushbrook nel ruolo di Madame Thénardier giovane.
    • Christopher Adamson nel ruolo di Montparnasse.
    • John McGlynn nel ruolo di Père Fauchelevent.

    Recensione e Critica: “I miserabili” del 1998 ha ricevuto recensioni miste da parte della critica. Mentre alcune recensioni hanno elogiato le performance degli attori principali, la scenografia e la fedeltà al materiale originale, altri critici hanno trovato il film piuttosto lento e privo di energia rispetto ad altre adattamenti della storia. La recitazione di Liam Neeson come Jean Valjean è stata generalmente ben accolta, così come quella di Geoffrey Rush nel ruolo di Ispettore Javert. La colonna sonora e la cinematografia del film sono state anche elogiate.

    Produzione: Il film è stato prodotto da Sarah Radclyffe e James Gorman ed è stato girato in varie location in Francia, tra cui Parigi.

    Curiosità:

    • Questa versione di “I miserabili” è stata girata principalmente in lingua inglese, con attori di lingua inglese che interpretano i personaggi francesi. Questa scelta ha ricevuto alcune critiche da parte di coloro che preferiscono un adattamento più fedele dal punto di vista linguistico.
    • Il film è una delle numerose trasposizioni cinematografiche del celebre romanzo di Victor Hugo. La storia è stata adattata in film, musical e serie televisive molte volte nel corso degli anni.
    • Nonostante la divisione della critica, il film ha ricevuto una nomination per l’Oscar per la miglior canzone originale per la canzone “A Heart Full of Love.”

    “I miserabili” del 1998 offre una delle tante interpretazioni cinematografiche della storia di Victor Hugo ed è considerato da alcuni come un adattamento fedele, mentre altri preferiscono altre versioni cinematografiche o teatrali della stessa storia.

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