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  • Io sono l’abisso è il thriller socio-psicologico di Carrisi

    Io sono l’abisso è il thriller socio-psicologico di Carrisi

    Tratto dal romanzo omonimo, il nuovo film di Donato Carrisi è appena uscito nei cinema e si incentra su un mix narrativo singolare: la topica storia di un serial killer e un thriller sociologico, focalizzato sui mali innati del mondo. Che il killer potesse diventare un elemento di liberazione (almeno parziale) era, se vogliamo, prevedibile e a pieno focus. Io sono l’abisso risulta, fin dalle premesse, un thriller italiano fuori canone, o meglio: il suo essere fuori dalle righe si colloca in un contesto alienante quanto umanizzato, con cui sarà facile empatizzare – e di cui vale la pena raccontare la genesi.

    Per consentire una promozione del film in modo adeguatamente misterico, infatti, regia e produzione non hanno divulgato i nomi degli attori, che compaiono in forma sostanzialmente anonima all’interno del film, e non vengono nemmeno citati come nomi propri dei rispettivi personaggi. Su IMDB, per intenderci, sono presenti i nomi degli interpreti come lista, ma manca l’associazione con ogni rispettivo personaggio. Il film si popola pertanto di figure archetipiche, come “la madre” o “l’uomo che pulisce”, personaggi principali della storia legati a doppio filo ad una realtà come quella di Como, nei pressi del cui lago è ambientata la storia.

    La buona società (non esiste)

    La realtà cittadina è fiorente e ricca di benestanti, segretamente perversa e a doppia faccia: un qualcosa di non troppo diverso dal contesto di Society di Brian Yuzna, dove le mostruosità organiche assortite sono state rimpiazzate da un orrore interiore, sottinteso, insondabile. Una società benestante ipnotizzata dal benessere, che non bada o minimizza il degrado attorno a sè, i congiunti in difficoltà, i drammi esistenziali che fanno continuo riferimento all’ombra della morte. Nell’ombra della rispettabilità (sul fronte sociologico) si muovono drammi morali, depressione, angoscia e sfruttamento della prostituzione; sul piano del killer, è un uomo insospettabile dedito a lavori umili, prigioniero di un’infanzia infelice e deprimente.

    Non ci sono dubbi che un prodotto del genere sia unico nel suo genere, pertanto, per quanto la sua visione paghi dazio in una lunghezza vagamente eccessiva (circa due ore di film, dai toni quasi d’essai, ricchi di sottintesi e allusioni). I primi minuti di “Io sono l’abisso” rimangono particolarmente incisivi e sconvolgenti: assistiamo ad una storia apparentemente anonima, con soli suoni naturali, senza colonna sonora e quasi senza dialoghi, e quasi non riusciamo a cogliere l’intreccio. In seguito ci troviamo nel pieno svolgimento della vicenda: un addetto della nettezza urbana che salva una ragazzina dal suicidio. Dopo averla fatta rinvenire, pero’, si fa prendere dal panico e scappa: scopriamo che si tratta di un serial killer (nell’introduzione ci suggeriscono come possano esistere anche in Italia e come, soprattutto, sia plausibile che non vengano mai scoperti), affetto da un singolare feticismo per la raccolta e la catalogazione dei rifiuti, i quali – a suo dire – dicono più sulle persone di quanto possa sembrare. Il killer anonimo del film è un bambino mai cresciuto che vorrebbe saperne di più sul mondo, o che cerca un contatto umano in modo disperato e degenerato.

    Sarebbe un errore relegare Io sono l’abisso all’universo classico dei killer narcistici e spietati come Henry o American Psycho. Come ha dichiarato Carrisi, c’è qualcosa in più: “non ci rendiamo conto di quanto raccontino di noi le cose che buttiamo via“. Certo è vero che internet può fornire le stesse informazioni su chiunque o quasi, ma ciò di cui tendiamo a disfarci sottolinea spesso sottotesti inconsci, sepolti dentro di noi, di cui abbiamo paura ed urgenza di doverci liberare (scatole di medicine, materiale compromettente, pacchi di fiammiferi brandizzati su nomi di locali a cui non vorremmo mai essere associati in pubblico). E potrebbe anche essere lecito, a nostro avviso, interpretare tali presupposti in chiave o come epitema ambientalista, per quanto l’autentica chiave di lettura sia quella esistenzialista ed abbia, almeno nei presupposti, qualcosa a che vedere con la doppia vita mostrata anche in Tulpa.

    Tutto o quasi ne “Io sono l’abisso” sembra sudicio, oscuro, poco illuminato, decadente; i personaggi sembrano afflitti, tormentati quanto vividi, consumati dall’esistenza (l’attore protagonista ha vissuto in maniera isolata dal cast durante tutte le riprese, per entrare meglio nel ruolo), vittime di scheletri nell’armadio che non vogliono nè pensano possano mai riemergere. Ma quanto è vero che le emozioni inespresse non moriranno mai e, come aveva scritto Freud, restano sepolte vive ed emergeranno in modo peggiore nel seguito, questo concetto si realizzerà a pieno all’interno della storia, creando almeno un paio di twist clamorosi.

    Traumi infantili, rabbia repressa, adolescenti soli e inascoltati, situazioni imprevedibili quanto credibili (rileviamo una sottostoria di baby prostituzione e revenge porn, entrambe tutt’altro che irrealistiche), si affiancano alla classica narrazione criminologica del serial killer “uno di noi”, nascosto nel buio, impetuoso nel proprio uccidere, alimentato da un male superiore che lo ha soggiogato da piccolo. Io sono l’abisso è anche – e forse soprattutto – un thriller psicologico par excellence, dove – per quanto manchi lo splatter ed il canonico finale nichilista – assistiamo ad una serie di triangolazioni tra personaggi sempre degne di nota, intricatissime e mai banali. Il vissuto e il tormento anteriore dei personaggi sono sempre pronti a riemergere, anche quando meno ce l’aspettiamo, un po’ come il lago di Como che restituisce pezzi dei cadaveri di vittime diverse. Motivo per cui sarebbe forse più corretto parlare di thriller drammatico, di thriller filosofico-esistenziale (in fondo non fa altro se non indagare sulle origini del male), o meglio ancora sganciarsi dalle etichette, godersi l’opera per quella che è, preparandosi a vedere una piccola gemma di forma e sostanza.

    Molto interessante, tra le altre cose, la trovata per cui il killer è “guidato” da una voce distorta fuori campo, che sembra raffigurare il Super-Io a cui è costretto a fare riferimento, da cui viene manipolato esattamente come il ragazzino fragile che era stato anni prima (quasi morto annegato, come si vede all’inizio). La figura della madre (l’altra madre, quella che vaga nel film senza che sappiamo nulla di lei) è altrettanto emblematica: etichettata semplicisticamente come una pazza, indaga su casi di violenza sulle donne, spinta da un’esperienza traumatica che ha vissuto e di cui non sappiamo nulla, almeno fino alla fine. Il suo inconscio appare dominato da un profondo senso di giustizia, ma anche dalla paura di aver sbagliato tutto nella vita, tanto più quando si scoprirà quel qualcosa del suo passato che la turba.

    Il film in definitiva convince soprattutto per questo sapiente mood noir, accennato e mai didascalico, con moltissime scene girate volutamente al buio per accentuare il senso di degrado e di orrore, non solo psicologico ma anche fisico, sociale, economico. Convincono un po’ meno, forse, certi lunghi silenzi che accompagnano la storia, che caratterizzano un film dall’andamento lento e inesorabile, forse non proprio adeguato ai gusti della maggioranza ma pur sempre a testimoniare (comunque la si pensi) un carattere fortemente introspettivo della storia e una personalità registica che, senza dubbio, non manca.

    SPIEGAZIONI TRAMA E FINALE

    DA QUI IN POI POTENZIALI SPOILER!

    Chi è la voce fuori campo che guida il killer?

    La voce distorta che tortura e istiga il killer non è un personaggio reale: è plausibilmente il riflesso, come si certifica alla fine, dell’educazione che ha ricevuto: in effetti gli dice cosa fare, come comportarsi, come punirsi. Ogni sequenza in merito è costruita in modo estremamente raffinato, dato che sembrerebbe la raffiguazione del padre (o meglio, di uno dei tanti amanti della madre), lo stesso che vestiva anni 80 e che il protagonista, oggi, cerca di emulare (la lettura in chiave freudiana è quasi ovvia), rievocandolo, impersonificandolo, truccandosi come lui (la parrucca) e andando in un night in cerca di nuove vittime (che probabilmente raffigurano una figura femminile su cui l’uomo vuole avere una rivalsa irrealizzabile).

    In realtà, anche sulla falsariga di film come Sleepaway Camp, la voce del Super Io (che lo comanda con violenza e che non può non ascoltare, se non a costo di paura e sofferenza) è in realtà una donna, una neo-Medea: era la madre che lo stava per lasciare annegare nella piscina durante la prima sequenza.

    Perchè la ragazzina prova a suicidarsi?

    Le ragioni sono legate al possesso di foto intime risalenti ad sua vecchia relazione con il ragazzo dispotivo e autoritario che incontra alla festa (e che si lamenta che lei non risponda al cellulare): la sua volontà di andare alla festa è necessaria per parlare con l’ex, al fine di intimargli di cancellarle per sempre. Il ragazzo, insospettabile cinico al di là di ogni parvenza, usa quelle foto per ricattarla e la costringe per questo a prostituirsi. Il tentato suicidio è pertanto frutto della disperazione per questa situazione.

    Perchè il killer salva la ragazzina?

    Probabilmente lo fa perchè si identifica in lei, e per via dell’evidente similarità con la sua stessa storia: entrambi infatti hanno rischiato di morire annegati. Il panico ha la meglio per paura che qualcuno scopra la sua identità di assassino, per cui scappa per questo motivo.

    Cosa è successo nel passato della cacciatrice di mosche?

    La cacciatrice di mosche è uno dei migliori personaggi del film: donna sola, trasandata e senza apparenti motivazioni per vivere, ha fatto della difesa delle donne una ragione di esistenza. Il trauma che ha vissuto in passato è avvenuto in ospedale anni prima, come si scoprirà: viene chiamata assieme al marito perchè il figlio ha accoltellato la fidanzata, che era forse incinta di lui.

    Ecco il motivo per cui la donna va a trovare il figlio in carcere: il ragazzo è stato condannato per l’aggressione, cosa resa ancora più gravosa per la madre dato che si tratta, anche qui quasi certamente, di una ex carabiniera (lo si può capire dalla familiarità con cui tratta con la donna che poi, nella sequenza finale, ucciderà il killer). La storia dell’omicidio viene ribadita durante quella visita in carcere: lui la invita a casa, vorrebbe andarci a letto, la ragazza rifiuta, poi ammette di stare con un altro ragazzo, il ragazzo prende un coltello in cucina e la ferisce.

    Chi è Diego?

    Probabilmente Diego è il futuro nipotino della cacciatrice, nato dalla relazione (ormai finita) tra suo figlio (in carcere) e la ex fidanzata, mai inquadrata. Il finale di “io sono l’abisso” non è troppo immediato nel suo apparato presentativo, in questa specifica sede, dato che viene innestato en passant e non si lega esplicitamente con la storia che, invece, sembrava conclusa (il killer si incontra con la ragazzina, e in quel momento viene ucciso).

    Diego è il nome del bambino che risulta essere appena nato, mentre la mamma (non inquadrata) viene interrogata dalla polizia: non è difficile intuire che si tratta della donna pugnalata, ovvero la ex del figlio della cacciatrice di mosche, evidentemente non morta. In sostanza la storia suggerisce che nonostante la tragedia familiare in corso, che ha traumatizzato la cacciatrice ed il marito, affetti entrambi da depressione e dipendenti dall’alcol, alla fine madre e figlio si siano comunque salvati.

  • Mysterious Skin racconta l’alienazione lacerante delle vittime di abusi e pedofilia

    Un adolescente ribelle e un ragazzo ossessionato dall’ufologia si incrociano da ragazzini, ma si perdono di vista in seguito: il loro reincontrarsi da adulti segnerà il disvelamento di una realtà traumatizzante, legata ad abusi infantili.

    In breve. Un film traumatico e realistico come pochi ne sono stati girati. Da non perdere, ma con cautela: non per tutti gli stomaci.

    Tratto dall’omonimo romanzo di Scott Heim, Mysterious Skin è ambientato in gran parte in una hicktown, che nel linguaggio gergale indica una città del sud popolata da redneck – un ambiente di provincia in cui si sviluppano i peggiori incubi dietro un’apparenza di rude normalità. Lo si vede fin dall’inizio, mediante l’inquietante parallelismo tra Neil (molestato sessualmente dal proprio allenatore di baseball) e Brian (vittima anch’egli di un abuso di cui, pero’, non ricorda nulla). Mentre il primo vive una vita dissoluta e si prostituisce fin da ragazzino, il secondo è diventato ossessionato dagli UFO – tanto da farli diventare, nella sua psiche, simbolo di quegli abusi e spaventosa allegoria del proprio passato. Le strade dei due ragazzi si separano, con una differenza fondamentale: Neil ricorda tutto degli abusi subiti, e vive una sessualità irresponsabile coniugandola con un carattere egocentrico e da sbruffone; Brian, nettamente più sensibile, si chiude completamente in se stesso, e sarà proprio Neil ad aiutarlo a tirare fuori ciò che la sua psiche ha rimosso.

    Il film segue questi due percorsi paralleli, ricchi di numerosi dettagli legati alla pedofilia ed alla scoperta prematura del sesso: nelle prime sequenze, per intenderci, i protagonisti avevano meno di dieci anni. In queste sequenze, insolite per un film pensato come un mainstream, la componente disturbing cede il passo a quella più esplicita, ed in questa sede il regista riesce a districarsi senza abusare dell’aspetto visivo più esplicito. Ovviamente l’aspetto sessuale è dichiaramente traumatizzante in due estremi: da un lato Neil che si prostituisce a pagamento, dall’altro Brian che sviluppa diffidenza e terrore per il mondo esterno e per il sesso, tanto da rifiugiarsi nello studio dell’ufologia. Anche l’incontro con la ragazzina che racconta di essere stata rapita dagli alieni, del resto, finirà per degenerare in un conflitto ed un rifiuto.

    Ne risulta un film globalmente inaccettabile per il pubblico più sensibile o moralista – proprio perchè di norma il tema trattato è considerato universalmente intrattabile. Eppure le cronache ci hanno abituato ai peggiori fatti in questo ambito, e vederle qui rappresentate in modo esplicito fa male proprio per il realismo ed il senso di trauma ripetuto sulle vittime (le scene di sesso sono, per quanto fuori campo, tutte perfettamente intuibili). Secondo il parere dello psicologo Richard Gartner, Mysterious Skin è una raffigurazione piuttosto fedele degli effetti degli abusi sessuali sui ragazzi. Molte delle quali saranno davvero insostenibili per lo spettatore, specie per l’aura di normalità da abuso – che le rende ancora più brutali di quanto non siano.

    Mi sono stufato: voglio sognare qualcos’altro.

    Il film, ad esempio in Australia, è stato bandito dalla circolazione per via delle tematiche trattate, mentre in Italia ha avuto distribuzione più o meno in sordina, per via del contenuto esplicito in termini di amore gay e pedofilo, generi tipicamente maltrattati dalla censura nostrana.

    C’è anche da aggiungere che, al di là dell’aspetto psicologico ed erotico-ossessivo dei contenuti (il finale evoca una seduta psicoanalitica vera e propria, mediante la ricostruzione dettagliata dell’episodio che Brian non ricordava), si mettono in evidenza anche piccoli dettagli – ad esempio che nell’ambiente in questione si praticasse sesso senza protezione, tant’è che il primo preservativo usato da Neil risale al suo successivo viaggio a New York. Piccoli aspetti che, nell’insieme di una simbologia esplicita paragonabile a quella di un film snuff, rendono Mysterious Skin un film da scoprire o rivedere – certo per un pubblico adulto, non in un contesto familiare o se siete alla ricerca di un film leggerino.

    Mysterious Skin farà male, come solo Requiem for a dream e pochissimi altri sono riusciti a trasmettere al pubblico. Ma è un male liberatorio, che ci ricorda orrori nascosti e tenuti segreti per anni, in grado di influenzare la psiche e condizionare le vite delle giovanissime vittime.

  • L’horror low budget e surrealista di “Carnival of souls”

    L’organista Mary Henry è miracolosamente sopravvissuta ad un incidente stradale; poco dopo decide di lasciare la città per cambiare lavoro…

    In breve. Archetipo di horror tra il sovrannaturale e l’onirico, giocato esclusivamente su suggestioni e sottintesi; un lynchiano ante-litteram che molto ha influenzato il genere in seguito. Non per tutti i palati ma notevolissimo, soprattutto per l’epoca in cui uscì.

    Se dovessimo citare uno dei film più fuori dalle righe degli anni ’60 “Carnival of souls” entrerebbe di diritto tra le prime citazioni; girato in sole tre settimane con un budget bassissimo (17,000 dollari), ebbe scarso successo all’uscita – salvo poi diventare di culto in seguito. Solo nel 1989, infatti, venne trovata una nuova distribuzione (della Panorama Enterntainment) e Carnival of souls venne riproposto in alcune sale e festival tematici, riscuotendo un’approvazione unanime da parte della critica.

    Mary dovrebbe essere morta nell’incidente che vediamo all’inizio, eppure tutti l’hanno vista emergere dalle acque, senza ricordare nulla di come abbia fatto a salvarsi; nel frattempo, pero’, la sua vita (che potrebbe essere un’allucinazione, come un sogno-incubo pre-morte) cambia radicalmente, ed inizia ad essere tormentata da un uomo spettrale senza nome, che compare – e sembra richiamarla a sè – in vari momenti del film.  Un classico low-budget del terrore, insomma, giocato più sulle sensazioni che sul gore (qui del tutto assente); non per tutti, in tal senso, ma solo per fan hardcore del genere.

    Venne girato presso un suggestivo parco giochi nello Utah, che rappresenta una location perfetta per il senso di enigmatica sospensione su cui si basa il film stesso; un senso di limbo, verrebbe da dire, in cui la protagonista si muove con ritmo e spirito mutevole, forse consapevole di essere sfuggita ad un macabro destino. Questo spiega il suo atteggiamento cangiante ed imprevedibile nei confronti delle avances del proprio vicino di stanza nella pensione, come del medico che vorrebbe aiutarla e della mite padrona di casa: la sua umoralità e doppia personalità, a questo punto, potrebbe anche legarsi all’alternarsi del giorno e della notte, così come suggerito dalle sue stesse parole (“Il mondo è così diverso alla luce del giorno. Al buio si perde il controllo delle proprie fantasie … così facilmente. Ma alla luce del giorno, ogni cosa torna al suo posto“). Al tempo stesso, l’orrore si finisce per librare nell’aria in modo inevitabile solo nel seguito, quando Mary inizia a suonare melodie definite sacrileghe dal prete presso cui lavora, e quando rifiuta terrorizzata le proposte di John, sprofondando in una progressiva ed ineluttabile follia.

    Una storia molto efficace e coinvolgente, e richiama lo stile, a mo’ di archetipo, su cui si sarebbero fondati film di successo nel seguito (penso a The Others, ma anche Il sesto senso). Accostamenti del genere mi sembrano francamente più pertinenti di chi abbia voluto vedere nelle “anime” spettrali che tormentano Mary dei morti viventi pre-Romeriani, cosa che a mio avviso è accettabile giusto come suggestione visiva. Carnival of souls è, infatti, estraneo al cinico materialismo del compianto regista, e somiglia più ad un film onirico o “lynchiano”, nel senso di irrazionale e poco consequenziale in alcuni passaggi. Se è vero che l’intreccio sembra quasi scontato se visto oggi, bisogna contestualizzare il clima ed immaginare la portata del film all’epoca in cui uscì: accoglienza abbastanza fredda, a giudicare dagli incassi, salvo poi essere riscoperto alla fine degli anni ’80 come cult indiscusso.

    Su film del genere sono fin troppe le parole spese dalle varie fan theory e dagli accostamenti con film successivi proposti dai vari recensori: tutti cercano di trovare una spiegazione alla storia, ma non esiste una risposta soddisfacente. Non può esistere per definizione, in questo caso, a meno di accettarne la dimensione puramente onirica, ed in tal senso il film potrebbe essere null’altro che un sogno pre-morte, ipotesi che trovo suggestiva quanto più convincente di molte altre che ho letto. Di sicuro Mary vive l’intero intreccio in una dimensione simile ad un limbo, in cui combatte contro una morte improvvisa per cui non sembra essere pronta, raffigurata splendidamente (e con richiami all’espressionismo tedesco) di figure spettrali dal volto dipinto (e di cui la principale venne interpretata da Harvey stesso). Non bisogna dimenticare, peraltro, che si tratta dell’unico lungometraggio di Herk Harvey, professionista del cinema che ha girato, per il resto, film documentaristici e serie TV di tutt’altro genere, e che per questo rientra nei notevoli casi di chi ha saputo fare un solo singolo horror di gran classe. Un regista che ha, quindi, vissuto il genere solo in maniera occasionale, e alla fine ciò ha finito per contribuire alla fama di cult singolare ed irripetibile di “Carnival of souls” stesso. Candace Hilligoss, archetipica scream queen semplicemente perfetta nella propria parte (oltre che unica attrice professionista del film), resta alla storia solo per questo film, senza considerare altre interpretazioni, solo sporadiche. Resta da chiedersi quanto possa essere lecito dare tutto questo credito ad un film che, nelle stesse parole del regista, è considerato solo una piccola parte di un lavoro enorme, in cui riteneva di avere tanto altro da dire (ben 35 anni a fare film di altro genere di cui mai nessuno, finora, ha parlato troppo)

    La fama di cult legata a Carnival of souls è, in fondo, basata su questa essenzialità: non solo un low budget di alto livello (come altri, del resto, ne vennero girati in quegli anni), ma anche un film che resta isolato nella sua produzione (senza contare un remake omonimo ma abbastanza diverso nella sostanza), quasi come Mary che avverte un macabro ed inspiegabile isolamento dal mondo nei momenti più inattesi. Nell’intervista al regista concessa a fine anni 80 viene riferito come “il film che non voleva morire”, e questa forse rimane la sua descrizione breve più adeguata.

    Carnival of souls non è mai stato distribuito in Italia doppiato, ma è disponibile con sottotitoli italiani nell’edizione della Enjoy Movies (non troppo facile da reperire); da non confondersi, peraltro, con l’omonimo remake degli anni ’90 uscito in seguito.

  • Tar: cast, trama, sinossi, spiegazione finale

    Cast

    Cate Blanchett
    Noémie Merlant
    Nina Hoss
    Sophie Kauer
    Julian Glover
    Allan Corduner
    Mark Strong

    Sinossi. Lydia Tár è la prima donna direttore principale della Filarmonica di Berlino. Si affida a Francesca, la sua assistente personale, per gestire la sua agenda. Mentre viene intervistata da Adam Gopnik al New Yorker Festival, Lydia promuove la sua prossima registrazione dal vivo della Quinta Sinfonia di Mahler e il libro Tár on Tár. Incontra Eliot Kaplan, un banchiere di investimenti e direttore d’orchestra amatoriale che ha co-fondato la Fondazione della fisarmonica con Lydia per sostenere le aspiranti direttrici d’orchestra. Discutono di tecnica, sostituiscono Sebastian, l’assistente direttore di Lydia, e riempiono un posto vacante di violoncello a Berlino.

    Produzione. Nell’aprile 2021 è stato annunciato che Blanchett avrebbe recitato e sarebbe stato produttore esecutivo del film, che sarebbe stato scritto e diretto da Todd Field. In una dichiarazione che accompagnava il teaser trailer nell’agosto 2022, Field disse di aver scritto la sceneggiatura per Blanchett e che non avrebbe realizzato il film se lei lo avesse rifiutato. Nel settembre 2021, Nina Hoss e Noémie Merlant si sono unite al cast e Hildur Guðnadóttir è diventata la compositrice del film.

    Le riprese sono iniziate nell’agosto 2021 a Berlino. Tutta la musica parte integrante del film è stata registrata dal vivo sul set, inclusa la esecuzione del pianoforte di Blanchett, il violoncello di Kauer e le esibizioni della Filarmonica di Dresda.

    La verità è che, fin dall’inizio, io so precisamente qual è il tempo, e il momento esatto in cui voi e io arriveremo insieme a destinazione.

    Spiegazione del finale

    A Berlino, Lydia viene rimossa come conduttrice a causa delle polemiche. Furiosa per le accuse e la mancanza di comunicazione di Lydia, Sharon le impedisce di vedere la figlia. Lydia si ritira nel suo vecchio studio e diventa sempre più depressa e squilibrata. Si intrufola nella registrazione dal vivo che avrebbe dovuto condurre e affronta il suo sostituto, Eliot. Consigliata dalla sua agenzia di management a non dare nell’occhio, torna nella sua modesta casa d’infanzia a Staten Island, dove alla parete sono appesi gli attestati di successo con il suo nome di nascita, Linda Tarr. Si commuove guardando una vecchia VHS di Young People’s Concerts in cui Leonard Bernstein parla del significato della musica. Suo fratello Tony arriva e la ammonisce per aver dimenticato le sue radici. Qualche tempo dopo, Lydia trova lavoro come direttrice d’orchestra nelle Filippine. In cerca di un massaggio, il portiere dell’hotel la manda in un bordello che si presenta come un salone di massaggi; le giovani donne siedono in semicerchio con dei numeri sulle loro vesti. Il numero 5 guarda direttamente Lydia, che si precipita fuori a vomitare. Alla fine dirige la colonna sonora della serie di videogiochi Monster Hunter davanti a un pubblico di cosplayer. Si può interpretare il finale in vari modi, in effetti: appena Lydia Tár alza la bacchetta e l’orchestra inizia la sua esibizione, una ripresa laterale del pubblico ci rivela il colpo di scena conclusivo del film, consentendo una rilettura completamente nuova dell’atto finale appena trascorso.

    Le sue speranze e il progetto a cui aveva dedicato cuore e anima le sono state sottratte senza pietà: voleva dirigere la sublime Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler, e non potrà più farlo. Il suo ingresso trionfale sul palco, con Lydia avanzante con un’ira ardente verso la telecamera, si svolse in brevi istanti, con la ferocia di una belva scatenata: la donna scaccia via dal podio il suo collega designato per sostituirla, Eliot Kaplan (Mark Strong), per poi scagliarsi su di lui con furia selvaggia. Per un personaggio che all’inizio della narrazione era apparso così tranquillo, disinvolto, assolutamente padrone di sé e del suo mondo, questa è una trasformazione radicale, inconscia, inconcepibile, destabilizzante. In seguito, Lydia è condotta in un centro di benessere per un trattamento massaggiante e si trova di fronte a una situazione chiamata “l’acquario”. Incolpata di essere una predatrice, è circondata da un gruppo di giovani donne dai volti abbassati, tra cui deve scegliere la sua preferita. L’unica a sollevare lo sguardo, sfidandola con uno sguardo deciso, è la numero cinque, come la sinfonia di Mahler che Lydia non ha più potuto dirigere. La scena è ambigua e la fuga affrettata di Lydia, sopraffatta da una sensazione di nausea, riflette lo stato psicologico precario di un personaggio che non è ancora riuscito a liberarsi dei suoi tormenti interiori (e forse dei sensi di colpa). Infine, durante la sua esibizione successiva, l’orchestra filippina di Lydia esegue la colonna sonora del videogioco Monster Hunter per un pubblico di appassionati di cosplay: questo può essere visto come l’estremo oltraggio inflitto a un idolo ormai infranto, una sottolineatura della “caccia al mostro,” o forse l’epilogo nasconde qualcos’altro?

    Da un lato la realizzazione di un sogno in veste diversa da quella che avevamo prefigurato, dall’altro – forse – la distruzione assoluta del sogno.

    Di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=F_NxSjuprJs, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=9498611

  • Porte aperte: trama, cast, curiosità sul film

    “Porte Aperte” è un film italiano del 1990 diretto da Gianni Amelio. Il film è noto per il suo impegno sociale e politico ed è stato ispirato da eventi reali. Di seguito, ti fornirò dettagli sulla trama, il cast, la regia, la produzione, lo stile, alcune curiosità e una spiegazione dettagliata del finale con un avviso spoiler.

    Trama: “Porte Aperte” è ambientato in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e segue la storia di un prete cattolico, Don Benedetto (interpretato da Gian Maria Volontè), che lavora per aiutare e proteggere i detenuti politici antifascisti. La storia ruota attorno alle sue interazioni con un giovane detenuto politico di nome Luigi (interpretato da Ennio Fantastichini), che è stato condannato a morte per le sue attività antifasciste.

    Il film esplora il conflitto tra Don Benedetto, che cerca di offrire conforto spirituale e sostegno umano a Luigi e agli altri detenuti, e il regime fascista che cerca di reprimere l’opposizione politica in Italia. La narrazione si sviluppa attraverso una serie di incontri tra Don Benedetto e Luigi, rivelando il crescente legame tra i due uomini e la lotta per la sopravvivenza e la giustizia.

    Cast:

    • Gian Maria Volontè come Don Benedetto
    • Ennio Fantastichini come Luigi
    • Renato Carpentieri
    • Tuccio Musumeci
    • Renato Scarpa

    Regia: Il film è stato diretto da Gianni Amelio, un regista italiano noto per il suo stile realistico e la sua attenzione per i temi sociali e politici. La sua regia in “Porte Aperte” è stata apprezzata per la sua capacità di catturare l’angoscia e la tensione dei personaggi e dell’epoca storica in cui è ambientato il film.

    Produzione: Il film è stato prodotto da Giuseppe Tornatore e Angelo Rizzoli Jr. ed è stato distribuito nel 1990.

    Stile: Il film presenta uno stile realista, con una fotografia che cattura l’atmosfera cupa e opprimente del periodo storico. La narrazione si concentra sulla profondità dei personaggi e sulle loro relazioni, piuttosto che su effetti speciali o azione spettacolare.

    Sinossi: “Porte Aperte” racconta la storia di un prete che cerca di sostenere detenuti politici antifascisti durante la Seconda Guerra Mondiale in Italia, mettendo in evidenza i conflitti morali e politici dell’epoca.

    Curiosità:

    • Il film è stato nominato per l’Academy Award come Miglior Film Straniero nel 1991.
    • È basato su eventi e personaggi reali, il che aggiunge una dimensione storica significativa alla storia.

    Spiegazione dettagliata del finale (SPOILER ALERT): Nel finale del film, Luigi è stato condannato a morte, ma Don Benedetto continua a sostenere spiritualmente e moralmente il giovane prigioniero fino all’ultimo momento. Mentre Luigi viene condotto al plotone di esecuzione, Don Benedetto è presente e lo guarda morire. Questa sequenza finale è profondamente toccante e rappresenta il culmine della relazione tra i due personaggi.

    La morte di Luigi sottolinea la brutalità del regime fascista e il sacrificio di coloro che si sono opposti ad esso. Don Benedetto, pur avendo fatto tutto ciò che poteva per aiutare Luigi, è costretto a confrontarsi con l’ingiustizia e la durezza della realtà politica dell’epoca.

    Il finale offre una potente riflessione sulla lotta per la giustizia, la fede e la resistenza contro le forze oppressive. È un momento di grande impatto emotivo che rimane con lo spettatore anche dopo la fine del film, rappresentando il tema centrale della storia e la sua forza emotiva.

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