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  • Porco rosso: il saggio antifascista di Miyazaki

    Porco rosso: il saggio antifascista di Miyazaki

    1930: Marco è un veterano della prima guerra mondiale che è diventato un cacciatore di taglie nonchè un maiale antropomorfo.

    In breve. Film di animazione giapponese dai toni tendenzialmente leggeri, quanto impegnativi e politici da altri. Concepito sulla falsariga di un manga scritto dallo stesso regista, assume un tono serioso da un lato e scanzonato dall’altro.

    Scritto e diretto dal co-founder dello Studio Ghibli Hayao Miyazaki, Porco Rosso esce nel 1992 come prodotto di intrattenimento puro, dai tratti leggeri e disimpegnati e, come raccontato da Gualtiero Cannarsi che ne ha curato uno specifico doppiaggio italiano (uscito come Il maiale rosso, anno 2010, Festival del Cinema di Roma), “un film leggero per uomini d’affari stremati da lavoro, ipossia cerebrale e jet-lag“. La sobrietà tematica di Porco rosso, a ben vedere, è relativa: il protagonista, nello svolgersi della storia, è diventato un maiale antropomorfo (che è un dettaglio quasi dato per scontato, tanto più che non viene esplicitamente detto come ciò sia avvenuto, anzi il suo racconto è per certi versi vago e rimane tendenzialmente poco impresso nella memoria). Ma è soprattutto un bersaglio del regime fascista.

    La storia è ambientata in Italia nel Ventennio: Marco (nella storia, in molti casi, più semplicemente “Porco“) è considerato un sovversivo pericoloso, un maiale in ogni senso, il che assume una parvenza di vera e propria metafora (un porco rosso, peraltro, quindi tendenzialmente comunista). Viene anche invitato a rientrare nell’esercito e ad abbandonare la propria attività di cacciatore di taglie dell’aria, cosa che rifiuta: questo perchè piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale. Nella sequenza surreale e commovente in cui assistiamo alla storia della sua trasformazione, non capiamo effettivamente da cosa sia dipesa: verrebbe da pensare ad un sortilegio, ma per certi versi (come suggerito dalla scheda del film sulla rivista online AsiaMedia) sembra essere dovuta soprattutto al senso di colpa e di sfiducia, nell’essere l’unico sopravvissuto ad un attacco aereo che ha ucciso tutti i suoi compagni di volo.

    L’aspetto sentimentale, poi, occupa – con un stile essenziale e garbato costruito più su pudiche allusioni, mai troppo esplicite – buona parte della storia: Porco si barcamena tra almeno due relazioni amorose, di cui una totalmente idealistica con la nipote diciassettenne dell’uomo che ha ricostruito il suo aereo (Fio) che ha anche deciso di accompagnarlo in missione, e l’altra altrettanto vaga con Gina, cantante e proprietaria di un locale molto frequentato dai “pirati dell’aria”. Nella storia c’è giusto il tempo di costruire un antagonista, Curtis, un americano presuntuoso e donnaiolo che sfida Porco in una battaglia aerea, con la promessa di sposare Fio se dovesse averla vinta.

    Al di là dell’aspetto politico – aspetto da non sottovalutare – Porco Rosso è un omaggio alla passione di Miyazaki per la storia dell’aeronautica, tanto che lo stesso nome Ghibli fa riferimento al bimotore del Caproni Ca.309 prodotto realmente negli anni ’30 dalla Caproni Aeronautica Bergamasca, e molti piloti citati sono realmente esistiti (Francesco Baracca, Adriano Visconti, Arturo Ferrarin). Inizialmente era stato concepito come film-tributo di circa 40 minuti per conto della Japan Airlines, e poi l’idea venne espansa e divenne un vero e proprio lungometraggio. In seguito, il regista lo definì semplicemente foolish: una piccola follia, pensata come mashup tra il mondo delle fiabe classiche e quello, dai contorni più vaghi, di quelle per adulti. Questo dovrebbe autorizzarsi a non urlare troppo facilmente al capolavoro, anche in considerazioni di alcuni rallentamenti narrativi che sembrano, per certi versi, allungare il brodo più del dovuto.

    Tenendo conto della genesi della storia e della sua derivazione, la valutazione rimane positiva per quanto, ovviamente, probabilmente non dotata del pregevole dono della sintesi. Questo per quanto siano obiettivamente divertenti – essendo un film di intrattenimento puro per circa metà della sua portata – le allusioni, i siparietti e gli stereotipi bonari sugli italiani: i pirati dell’aria più tonti che cattivi, le donne giovani quasi sempre incantevoli (Gina, ad esempio, evoca nelle fattezze la femme fatale modello Fujiko Mine di Monkey Punch), le anziane sempre cordiali, le bambine frivole e pestifere, lo stesso Porco che rappresenta l’italiano ironico, beffardo e anarcoide (e naturalmente donnaiolo).

  • La crisi esistenziale durante i controlli alla dogana

    Episodio: Man’s Crisis of Identity in the Latter Half of the 20th Century 1.5 (“Monty Python”, 1969)

    Il quinto episodio della prima serie del Flying Circus va in onda il 16 novembre 1969, registrato nel mese di ottobre dello stesso anno; la novità di questo episodio è legata all’essere stato il primo trasmesso a colori.

    Si configura fin da subito come un episodio fortemente virato sull’assurdo, a cominciare dal classico “Confuse-a-Cat“, nel quale due coniugi (uno interpretato da Terry Jones) chiamano un veterinario per via del proprio gatto, in preda ad una sorta di inedia esistenziale. E quale migliore soluzione per uscire dalla depressione che sottoporlo al trattamento “confuse a cat“? I Python allestiscono un palco nel giardino, guidati da un colonnello che ne seguirà le operazioni, e si esibiscono in uno spettacolo teatrale delirante – in cui personaggi, vestiti, cappelli e bidoni della spazzatura appaiono e scompaiono in continuazione. Il gatto sarà debitamente confuso dalla situazione e tornerà a comportarsi da ordinario animale domestico.

    Segue “The Smuggler“, il celebre sketch della dogana, in cui ancora una volta domina il meccanismo dell’inversione dei criteri di valutazione: un contrabbandiere piuttosto confuso non viene fermato dall’addetto ai controlli, mentre non tocca la stessa sorte ad un innocuo prete. A Duck, a Cat and a Lizard (discussion) è, di suo, un piccolo capolavoro del surreale: un micro talk show in cui il conduttore chiama a discutere di importanti temi tre animali di gomma (un papero, un gatto ed una lucertola), utilizzando uno standard che diventerà molto ricorrente anche in scenette successive. È la volta di Vox Pops on Smuggling, cioè interviste alla gente comune sui problemi doganali, su cui quasi nessuno riesce a dire qualcosa di sensato (si segnala un John Cleese versione Gumby, stereotipo dello scozzese delle Isole Shetland, dal limitato vocabolario e capacità mentali, qui alla sua prima apparizione).

    Stessa falsariga che manterrà, poco dopo, il piccolo frammento Letters and Vox Pops dedicato alle ipotetiche lettere degli spettatori sull’argomento. Police Raid è un simpatico sketch dallo stile tipicamente english, in cui un poliziotto fa irruzione in un locale alla ricerca di sostanze stupefacenti, per poi tirare fuori un sandwich dalla tasca ed incolpare (presumibilmente) qualcuno dei presenti. Newsreader Arrested, poi, è una delle migliori parti dell’episodio: durante la lettura di un fatto di cronaca, viene mostrata la foto del presunto colpevole che non è altri se non il giornalista che sta leggendo la notizia (che poi viene arrestato in diretta). Erotic Film insiste su una scena erotica per diversi secondi, e si segnala per una tecnica che renderà celebre un film come “Una pallottola spuntata“: al posto di mostrare una scena di sesso, viene riportato un montaggio di scene – torri che si sollevano, mare in tempesta, aerei che atterrano disastrosamente – fortemente allusive (ma in questo caso, infine, un colpo di scena meta-cinematografico sembra suggerire che siano gli spettatori ad aver pensato male).

    Silly Job Interview è uno dei capolavori dei Monty Python: un colloquio di lavoro in cui le domande poste al candidato sono illogiche, tendono a metterlo a disagio e lo portano volutamente a degenerare e litigare con gli altri. Visto oggi, fa probabilmente ancora più ridere che all’epoca, per via della sua potente carica destabilizzante, a mio avviso rimasta intatta fino ad oggi. Sempre in tema lavorativo, lo straniante Careers Advisory Board e Burglar/Encyclopedia Salesman ci mostrano infine un venditore di enciclopedia che entra in casa di una signora, fingendosi… ladro.

    Ancora una volta un episodio assolutamente superiore alla media, sia come idee che come ritmo.

    Le 45 puntate del Flying Circus sono disponibili, in inglese sottotitolato in italiano, all’interno di un bel cofanetto in 7 DVD, che trovate facilmente su Amazon: Monty Python’s – Flying circus (complete series).

  • Corti di fantascienza degni di nota: “Pathos” (2009, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Fabio Prati)

    In un futuro post apocalittico la Terra è un deserto inospitale e sommerso di spazzatura: gli uomini vivono in squallide stanze chiuse, nelle quali pagano mediante carta di credito anche per sognare…

    In breve. Corto “mordi e fuggi” all’italiana, che cita apertamente il tema distopico alla Verhoeven, si fa contaminare sia da “The cube” che da “Matrix”, ha certamente considerato la crudeltà di qualche post-apocalittico cult (pur senza svilupparla, di fatto) ed esce fuori in assoluta autonomia, senza poter essere tacciato di citazionismo o scopiazzatura.

    Mentre viviamo, il Grande Fratello ci osserva, e ci suggerisce come vivere, come pensare e cosa sognare: i cinque sensi non sono più gratuiti, nel futuro esiste un vero e proprio abbonamento da rinnovare. Chi ritarda per qualsiasi motivo l’abbonamento periodico, si ritroverà a perderne l’uso. Film forse troppo breve (a volergli trovare un difetto) e sostanzialmente privo di un vero e proprio intreccio (ma questo, in fondo, non è un problema): forse avrebbe potuto essere maggiormente arricchito da dettagli di vario tipo, caratterizzazioni dei personaggi, interazioni.

    Probabilmente il tutto, confinato tra inquietanti schermi televisivi alla Videodrome e squallide stanze semi-vuote, finisce per accentuare il senso di isolamento degli individui e, in tal senso, è una mossa molto azzeccata. Inquadrature e fotografia cyberpunk da brivido: un ottimo prodotto, in definitiva, per chi ama l’essenzialità e la fantascienza classico-complottistica.

    L’interpretazione di Fabio Prati, vittima della macchina “pathos”, è davvero convincente ed intensa, e merita certamente una citazione finale.

  • Le colline hanno gli occhi è l’orrore sociologico di Wes Craven

    Una famiglia con l’auto in panne si ritrova casualmente in una zona desertica: poco dopo si imbatte in un gruppo di criminali cannibali. Les jeux sont faits.

    La seconda opera di Craven, che focalizza ancora una volta un horror “sociologico” estremo e molto disturbing, incentrato sul comportamento di una famiglia ordinaria trovatasi in una situazione molto rischiosa, e capace di diventare crudele per sopravvivere. Se state pensando di averla già sentita: quasi certamente avete visto qualche clone di questo film.

    Suggestioni simili a quelle del precedente L’ultima casa a sinistra (non manca la solita citazione “fallica” di Freud) di cinque anni prima: Craven rimescola le carte del rape ‘n revenge e crea “Le colline hanno gli occhi“, un film in cui il regista si autocita con una certa classe, riproponendo l’idea del gruppetto di cannibali nascosti, in modalità forse improbabile nella realtà, nel deserto californiano. Non mancano personaggi stereotipati, tra cui la famiglia puritana, il poliziotto in pensione che la sa lunga e gli umani deformi che vivono lontano dalla civiltà. C’è da dire che la qualità audio e video non è certo elevata, del resto stiamo parlando di un low-budget puramente settantiano e forse qualcuno potrebbe trovare più interessante guardare il remake del 2005: personalmente non ci riesco, è più forte di me, rifare i classici è una trovata a mio avviso oscena nella quasi totalità dei casi.

    Questo film è, peraltro, il progenitore di una trafila di b-movie assai su questa falsariga, tanto che (ad esempio) Skinned Deep ne ricalca fedelmente più di una dinamica; inoltre è possibile, a mio parere, qualche parallelismo con Funny Games, anche se lì il regista ha ribaltato completamente l’assunto di Craven, mostrando vittime inermi nelle mani dei cattivi, completamente incapaci di reagire. Il concetto di fondo non cambia: lotta per la sopravvivenza tra mondi differenti, e forse la nota sociologica più curiosa si registra nell’inquietante parallelismo tra due mondi diversi solo in apparenza. Non il top dell’originalità e dello spunto di discussione, considerando le sassate scagliate anni prima già da Hooper (e forse da qualche altro regista indipendente), ma alla fine si tratta di un buon horror e questo dovrebbe essere messo in primo piano rispetto al resto. Tra le curiosità, i nomi dei “cattivi” che corrispondono a quella degli dei della mitologia classica (Plutone, Mercurio, Giove e Marte); probabilmente cult anche solo per il ferocissimo finale, da vedere senza esitazione anche oggi, ma non per tutti gli stomaci.

  • Tuvalu: quando l’avanguardia rilegge la Belle Epoque

    Fantasticando su un ipotetico e probabilmente irrealizzabile viaggio tra le isole del Pacifico, qualche giorno fa, cercavo in rete informazioni a proposito dell’arcipelago di Tuvalu. Clicco sulla pagina di Wikipedia corrispondente, e l’enciclopedia online mi presenta un link di disambiguazione: oltre all’arcipelago di Tuvalu (curiosità: il dominio .tv, che spesso si trova associato ai siti di molti canali televisivi, è proprio quello assegnato alla nazione polinesiana) esiste anche un film che porta quel nome… non lo avevate mai sentito nominare? Beh, neanch’io fino a poco fa!

    Incuriosito, cerco informazioni al riguardo – e, nonostante il film risulti essere stato vincitore di alcuni prestigiosi premi internazionali, le informazioni che si trovano sono davvero pochissime.

    Oltre a poche frasi frammentarie sulla trama, sappiamo che il film è una commedia del 1999, che è stato prodotto in Germania con la regia di Veit Helmer, che i principali interpreti sono due buoni mestieranti come Denis Lavant e Culpan Nailevna Chamatova e, come chicca, alcuni pezzi della colonna sonora sono di Goran Bregovic. Ciò che ha attirato la mia attenzione da quel poco che si trova in rete è il fatto che il film sia praticamente muto, e girato in bianco e nero “ricolorato”, come se fosse un film dei primi decenni del novecento, ritrovato e restaurato. Da queste poche informazioni scorgo intenzioni artistiche abbastanza “fuori di testa” da reputarlo degno di uno studio più approfondito.

    Investo del problema la redazione de Lipercubo e, grazie ai loro potenti mezzi, riusciamo a trovare la versione russa del film: io non conosco una sola parola di russo (a parte “Vodka“, ma vabbè) nè so leggere il cirillico, “ma che ce frega?“, il film è muto, la lingua non è un ostacolo. Preciso che non dobbiamo intendere il termine “muto” nel senso “classico” del termine – il sonoro ambientale c’è ed è anche abbastanza curato – quello che manca sono i dialoghi: oltre ai nomi dei personaggi, gli attori pronunciano, in tutto il film, non più di una trentina di parole singole, quindi avulse da un costrutto grammaticale e sintattico, semplici parole isolate ma necessarie per rendere comprensibile l’evolversi della storia.

    Non sono solo la recitazione muta e la fotografia in un simil bianco e nero ricolorato a riportarci all’epoca del cinema delle origini, ma anche la mimica, l’espressività, i costumi e, non ultimo, il montaggio. Nonostante l’impianto di base sia quello appena descritto di un finto film da inizio novecento, le citazioni cinematografiche che vi si ritrovano sono innumerevoli e variegate: già nella prima scena viene proposto il primo piano di un uccello in cartapesta che vola sulla scena, modellato (volutamente) in maniera approssimativa, che fa il verso alla scena del film Uccelli di Hitchcock in cui i volatili attaccano la gente in uscita da una chiesa, così come sono numerosi i richiami alla comicità dei fratelli Marx o dei Monty Python, nonchè momenti onirici e visionari di Felliniana memoria. Va da sè comunque che i riferimenti che colpiscono subito l’occhio sono quelli a Charlie Chaplin e a Fritz Lang: il buon Denis Lavant interpreta il suo personaggio, Anton, in perfetto stile Chapliniano mentre la regia surrealistica paga dazio al Lang di Metropolis.

    La trama del film segue il canovaccio tipico delle storie  di Charlie Chaplin: tanto umorismo a denti stretti, personaggi principali che sono o assolutamente buoni o assolutamente cattivi (al massimo possono essere vittime di ingenuità e implusività come Eva, ma la loro vera natura non può mai stare “nel mezzo”), situazioni grottesche e amplificate fino al paradosso, ambientazioni decadenti e imprese improbe che fanno da contraltare ad eroi puri e semplici che alla fine, pur rimettendoci qualcosa, se la caveranno.

    La storia è costruita intorno alle vicende accorse al povero Anton nel tentativo di salvare dalla demolizione la fatiscente piscina di proprietà di suo padre, Karl. Oltre alla burocrazia che (giustamente) intimerà ad Anton di ripristinare in brevissimo tempo una condizione minima di sicurezza in un edificio ormai cadente e trascurato, Anton dovrà lottare anche contro suo fratello Gregor, un costruttore affarista e senza scrupoli, che vorrà abbattere la piscina per costruire al suo posto un moderno palazzone residenziale. Il destino della piscina si intreccia con quello di Eva che, dopo la morte del padre – un vecchio capitano di marina per la cui dipartita Eva incolperà ingiustamente Anton – deciderà di partire a bordo della nave che il padre le ha lasciato in eredità per raggiungere la meta di una misteriosa mappa trovata in uno scrigno appartenuto al genitore: l’arcipelago di Tuvalu. Per azionare la caldaia della nave Eva avrà bisogno di un ingranaggio ormai non più disponibile in commercio, ma che ha notato essere installato nella caldaia della piscina, gemella di quella della nave. Tenterà così più volte di rubare il pezzo scontrandosi con Anton il quale, recuperando il pezzo sotrattogli da Eva, causerà l’esplosione della caldaia a bordo della nave. Ma, in un disperato tentativo di rubare l’intera caldaia della piscina, Eva capirà che il vero responabile della morte del padre è stato Gregor e non Anton. Così, Anton ed Eva, ormai coalizzati e innamorati, salveranno la caldaia della piscina proprio mentre Gregor, in preda alla follia, stava distruggendo il palazzo che la ospitava, la installeranno sulla nave di Eva e, insieme, partiranno alla volta dell’arcipelago di Tuvalu.

    La storia, all’apparenza semplice e lineare come una favola dei tempi moderni, in realtà nasconde al suo interno infinite metafore e allegorie, sia nella recitazione iperespressiva, sia nella scenografia decadente, sia nel montaggio grottesco e surreale. Insomma, un film che ci sentiamo di consigliare a chi ama il cinema d’avanguardia e ai cultori dei film delle origini, un accostamento che può sembrare fuori posto – ma che in realtà non lo è, se si pensa che non c’è stata epoca artistica più avanguardistica di quella del cinema delle origini quando, appunto, una nuova arte è stata praticamente forgiata da zero.

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