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  • Suspiria di Dario Argento: un horror stregonesco e suggestivo

    Suspiria di Dario Argento: un horror stregonesco e suggestivo

    Suspiria è un film di Dario Argento del 1977, il primo a segnare una svolta stilistica quasi clamorosa nella sua carriera: il regista, infatti, si distacca nettamente dalle tematiche del puro giallo-thriller dei primi film, per avvicinarsi al mondo dell’occulto e dell’orrore in modo piuttosto tradizionale, con vari elementi di spicco.

    In breve: visivamente perfetto, violentemente coreografico, con ambientazioni da incubo e surreale, oltre ad uno stile inconfondibile e che avrebbe fatto scuola. Uno dei migliori Argento di sempre.

    Ispirato (come del resto la trilogia delle Tre madri) al libro Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey, “Suspiria” è ambientato a Friburgo, dove durante una notte di pioggia la giovane Susy arriva da New York per iscriversi alla scuola di danza. In realtà l’edificio  che la ospita è teatro della casa di alcune streghe, retta da una delle madri degli inferi, Mater Suspiriorum, Elena Marcos, nota come “La regina nera”.

    “…la magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti, è creduta”

    Almeno due le scene di culto del film: quella girata nella piazza dei Tre Templi di Monaco, in cui vediamo un volatile sorvolare la testa del pianista cieco che viene poi inspiegabilmente aggredito dal suo stesso cane. Qui esce fuori l’essenza del male secondo Argento, che come in Tenebre e soprattutto in Inferno non ha necessariamente una motivazione razionale: vista oggi bisogna riconoscere che una morte del genere, senza una causa ed un effetto immediatamente riconoscibili, rischia di non avere una giustificazione razionale agli occhi di alcuni spettatori. In fondo bastava pensare un po’ di più ad una storia che forse non si fa seguire con troppa facilità in certi punti: tuttavia ad Argento credo sia sempre piaciuto mantenere un filo di mistero “di troppo” in certi episodi dei suoi film, anche rischiando di risultare inutilmente enigmatico. Eppure le otto coltellate impresse sadicamente alla prima vittima del film, poi impiccata in uno scenario di luci colorate e decorazioni geometriche degne di una vera opera d’arte, dimostrano che il regista non tende affatto a presentare le cose in modo manieristico o come esercizi di stile, ma anche in modo tale da risultare funzionali a descrivere l’atmosfera malata della stregoneria e a lasciare gli spettatori a bocca aperta.

  • Inferno: quando Dario Argento creò un horror macabro e surrealista

    New York: la studentessa Rose trova il libro di un architetto-alchimista dal titolo “Le tre madri”, nel quale si narra di tre case costruite per ospitare tre streghe (Mater Suspiriorum a Friburgo che abbiano conosciuto in Suspiria, Mater Lacrimarum a Roma e Mater Tenebrarum, per l’appunto, a New York). La curiosità della ragazza la spingerà a scoprire orribili segreti, che nessuno deve conoscere, a prezzo della vita…

    Inferno , nome evocativo quanto semplice per uno dei migliori film del regista Dario Argento, impressiona lo spettatore dalla prima all’ultima scena mostrando un’atmosfera macabra e surreale, perfettamente sintetizzata dal titolo stesso dell’opera. Lavoro del 1980 caratterizzato da una splendida e studiatissima fotografia, estremamente nitida e basata su tanti dettagli minimali che fanno la differenza. Serrature in primo piano mentre scattano, un edificio labirintico e dominato da geometrie spaventose nel quale alberga il male assoluto, violenze spesso illogiche e sceneggiatura claustrofobica: gli ingredienti sono quelli di un horror puro, il secondo dopo il celebre “Suspiria“.

    La trama si richiama proprio a quest’ultimo, legata sottilmente da un sottile filo di esoterismo, stregoneria ed alchimia a cui il nostro regista è da sempre debitore. Lucio Fulci con la sua “trilogia della morte” deve certamente più di qualcosa a quest’opera, tanto da realizzare un suo film altrettanto “lovecraftiano” come  “Paura nella città dei morti viventi”, con cui (fermo restando le dovute distinzioni) le somiglianze stilistiche tra i due sono certamente numerose.

    Inferno” venne criticato per la presunta illogicità di alcuni passaggi, come la celebre sequenza in cui l’antiquario annega i gatti che lo tormentavano, viene sbranato dai topi ma anche letteralmente “terminato” dall’uomo di un chiosco nelle vicinanze, che invece di soccorrerlo lo pugnala alla gola. Evidentemente il concetto di maledizione (su cui è basato l’intero film, assieme alla stregoneria) era estraneo alla critica dell’epoca, forse troppo ingenua o troppo assorta a contemplare se stessa. Del resto qualsiasi film che presenti un astrattismo violento – come “Inferno” fa per quasi tutto il suo scorrere – è destinato, un po’ per definizione, ad essere capito solo dai fan, da coloro che vivono un minimo di empatia con le storie narrate.

    Un film da antologia dell’orrore, che vedrà la sua conclusione solo 30 anni dopo con “Le tre madri“, un ritorno ai fasti del passato certamente da non sottovalutare.

    « Ce ne sono molti di misteri in quel libro, ma l’unico grande mistero della vita è che essa è governata unicamente da gente morta… » (Kazanian)

  • Ai confini della realtà: Da oggi si cambia (“Shatterday”, The Twilight Zone, 1985, W. Craven)

    Peter Jay Novins, solitario uomo di successo, siede in un bar e chiede di poter fare una telefonata. Compone il numero di casa propria per sbaglio, dove pero’ risponde qualcuno: con sua grande sorpresa, sta parlando al telefono con se stesso. Il suo alter-ego si mostra sprezzante nei suoi confronti, e dopo essersi capacitato che non si tratta di uno scherzo, il protagonista non riuscirà a trovare la forza di fare i conti con il proprio io.

    In breve. Wes Craven dirige Bruce Willis in questo splendido episodio della seconda stagione, che vede protagonista l’attore de “Il Sesto Senso” in un’inedita (ed atipica) doppia interpretazione. In Shatterday (titolo originale che significa approssivativamente “il giorno infranto”).

    Quello che si vede nel seguito è lo smarrimento del protagonista, che si isola progressivamente dal mondo ed un significativo (e toccante) incontro finale tra i due “io”. Willis è stato in grado di reggere un doppio personaggio così complesso per tutta la durata dell’episodio, e già la sua presenza – di fatto – fornisce valore aggiunto allo stesso. Non spreco elogi per il regista di Nightmare perchè mi sembrano superflui: basti anche solo considerare intelligenza, sottile ironia, e perizia con la macchina da presa, che rimangono i tratti salienti di quanto emerge sullo schermo. La situazione paradossale, lungi dal rimanere astratta, si concretizza in una dura lezione morale per l’uomo protagonista e per l’uomo in generale: a volte bisogna dare dei tagli, anche molto dolorosi, ma necessari, perchè questo è lunico modo per evolvere e non fossilizzarsi.

    “Peter Jay Novins, vincitore e vinto al tempo stesso, e la sua lotta per la custodia della sua anima. Un uomo che si è perso, e si è ritrovato… in un campo di battaglia vuoto, da qualche parte nella Zona Oscura”

  • Repulsion: Polanski racconta le ansie della sessuofobia

    Carol è una donna introversa che non sopporta il fidanzato della sorella: il film è un viaggio da incubo nella sua personalità.

    In breve. Il film che ha consacrato Polanski come regista di culto, incentrato su una delle protagoniste thriller forse più formidabili del genere. Da non perdere, nonostante l’età.

    Il secondo film di Polanski dopo Il coltello dell’acqua, girato interamente a Londra e primo film in assoluto prodotto in inglese dal regista (siamo nel 1965). Repulsione si basa su una trovata che oggi troveremmo quasi prevedibile, tanto che è diventata la regola in un certo giallo o thriller, soprattutti quelli devoti al doppio o triplo finale con avvitamento carpiato. All’epoca venne tanto apprezzato da far conoscere Polanski il tutto il mondo, ancor più per la sua successiva capacità di trattare elegantemente qualsiasi tema.

    Le paure di Carol

    Carol (Catherine Deneuve) è un personaggio complesso: in prima istanza è solo una donna introversa, ma scopriremo nello scorrere degli eventi aspetti nascosti legati alla sua personalità. Anche la sua profonda sessuofobia (o androginia) è tutt’altro che incidentale:  sembra dovuta ad un vissuto che la condiziona profondamente, che tutti gli altri personaggi sottovaluteranno o prenderanno sottogamba. Di fatto, Polanski svela gli aspetti della personalità di Carol un pezzo alla volta: la frattura che avverte dentro di sè, nel frattempo, viene letteralmente rappresentata da crepe nei muri e nei pavimenti (che forse, in alcune fasi del film, la donna sta solo immaginando).

    Un film che è diventato emblema

    Se è vero che il linguaggio di Polanski sguazza nella critica – e nelle sue fantasiose o pindariche dissertazioni, è altrettanto vero che la struttura puramente da giallo è un modo per mantere la narrazione ben salda ed ancorata, con vari punti di contatto ad un altro film incentrato su una donna (depressa e traumatizzata anche in quel caso) come la protagonista di Io la conoscevo bene. Le conseguenze saranno diverse, sicuramente, ma la sostanza ed il feeling sembrano molto simili. Se questo film ha fornito un modello di riferimento per molteplici figure e lavori successivi, è impossibile non pensare anche a Madeleine / Frigga, l’anti-eroina muta e bendata raccontata da Bo Arne Vibenius, che è un po’ la figura mitologica, esacerbata tratta dal suo personaggio – tanto che potrebbe considerarsi un archetipo.

    Carol: perchè agisce in quel modo?

    Il personaggio di Carol sembra innocente, timida, insicura o introversa: di fatto, non diversa da una donna comune con cui lo spettatore è portato ad empatizzare. La seconda cosa che rileva, di fatto, è legata al suo profondo rapporto con la sorella, a cui sembra appoggiarsi con abbandono in caso di necessità. Sorella che, a partire dai capelli scuri, è molto diversa da lei: tant’è che frequenta un uomo sposato, esasperando una sorta di insano paragone con lei e, di conseguenza, esasperando il suo conflitto interiore. I dialoghi con la stessa sono sempre significativi: il tono monocorde, assente, evitante e sempre più inquietante di Carol suggeriscono ulteriori indizi per la ricostruzione della sua personalità. Il senso del paradosso indotto dalla sceneggiatura è molteplice, e si esplica soprattutto nel fatto che, nonostante tutto, lo spettatore simpatizza comunque con la protagonista, nonostante l’efferatezza del suo comportamento e la sua chiusura aprioristica al mondo maschile.

    È anche significativo che il personaggio forse più irritante del film (Michael), con i suoi modi burberi e sgradevoli nei confronti delle donne, sia anche l’unico a dire una cosa involontariamente saggia (cioè che Carol dovrebbe vedere un dottore). Che cosa renda pensierosa e incomprensibile Carol, del resto, non è chiaro: sembra vivere nel passato, come visibile dal fatto che guarda in modo interrogativo varie foto di famiglia. Il suo evidente fastidio nel sentire i rumori di più amplessi, nella stanza a fianco, tende ad amplificare il conflitto con la sorella maggiore. Ad un certo punto, Carol fa anche sparire alcuni oggetti personali di Michael, quasi a volersi disfare simbolicamente di lui. Il suo primo appuntamento con Colin, accettato tra mille indecisioni, finisce con un disastro: dopo il primo bacio non può fare altro se non correre via a lavarsi i denti.

    Diventa sempre più evidente la presenza di un uomo (o più di uno, forse) che l’abbiano traumatizzata in passato, e Polaski continua inesorabile il suo racconto con una camera gelida, spesso grandangolare o distorta, quasi fosse il racconto distaccato di uno psichiatra. Sullo sfondo, vediamo un coniglio in putrefazione che svolge il medesimo ruolo del cadavere in Der Todesking: è la personalità di Carol che marcisce, giorno dopo giorno, in un oceano di incomprensione da e verso il mondo esterno.  A completare il dramma, Helen parte per un viaggio a Pisa con il suo uomo, lasciandola sola coi suoi tormenti e, poco dopo, con delle orribili allucinazioni. A questo punto, Polanski vira sul linguaggio del thriller per rappresentare meglio lo stato d’animo della protagonista. E mai scelta avrebbe potuto essere più adeguata: Carol, da donna avvenente quanto riservata, inizia ad essere convinta di aver visto un uomo minaccioso in casa sua, il villain dei suoi incubi sessuofobici. I tormenti interiori della protagonista diventano sempre più allucinati e spaventosi, fino a farle perdere il posto di lavoro.

    L’incubo ripetuto dello stupro – con una figura oscura al suo cardine, a cui sembrano mancare solo occhiali scuri, guanti, impermeabile e cappello nero – è accompagnato dal macabro ticchettìo di un orologio, ed è intensa e rapidissima, interrotta regolarmente dal suono di un telefono. Sembra di trovarsi in una sequenza alla Dario Argento: sempre più cupa e assente, Carol è destinata a trasformarsi in un killer, primariamente contro chi ama o vorrebbe possederla. Il primo omicidio, ad esempio, è strutturato in maniera magistrale: il suo innamorato si è introdotto sfondando la porta di casa, visto che non riusciva più sentirla. La porta rimane aperta, ed il vicino di casa (uscito in quel preciso istante) osserva la scena, in secondo piano. Non appena Colin la richiude per una maggiore privacy, Carol (con un candelabro in mano, già dall’inizio) lo colpisce ripetutamente: un omicidio calcolato quanto hitchcockiano, oserei scrivere, che delinea la follia androgina in cui è precipitata. C’è anche spazio per una rapida componente horror, che vediamo nella sequenza (anch’essa magistrale) in cui Carol si aggira nel corridoio, fuori di sè, con le mani di vari uomini che fuoriescono dal muro.

    Spiegazione del finale

    Diversamente dalla tradizione di Hitchcock e di altri registi che, classicamente, alla fine fornivano una spiegazione razionale agli eventi, Polanski si limita ad inquadrare una vecchia fotografia di Carol da ragazzina, algida come sempre e altrettanto spaventata, assieme ad un anziano familiare (che potrebbe essere il padre, lo zio o il nonno). È chiaro che, neanche troppo velatamente, il regista voglia alludere ad un caso di molestie da parte dell’uomo, probabilmente mai venute a galla, che hanno sedimentato per anni dentro di lei. Questa è l’interpretazione che sembra più plausibile, e che certa critica ha rilevato come sostanziale difetto (ma una spiegazione esplicita avrebbe anche rischiato di risultare inutilmente didascalica).

    La suggestione è ciò che conta, il dubbio rimane ed il finale, in cui si chiude il cerchio, molte domande restano senza risposta.

  • Scappa – Get out: l’horror anti-razzista del nuovo millennio

    Chris e Rose sono fidanzati da pochi mesi: lui è un aspirante fotografo afroamericano, lei una classica ragazza da college. I due decidono di trascorrere un fine settimana a casa dei genitori di lei: all’inizio sembrano simpatici, cordiali e (figuriamoci) non razzisti. La madre, in particolare, sostiene di poter curare il vizio del fumo del ragazzo ricorrendo all’ipnosi.

    In breve. Un saggio horror sul razzismo e le annesse implicazioni sociali odierne, con richiami ai grandi titoli del passato (da Society a La casa nera). Imperdibile.

    Girato in soli 23 giorni e, per quanto ne sappiamo, senza particolari pressioni produttive (è l’opera prima di Jordan Peele, che poi consacrerà la propria fama con il successivo Us), Get out si apre sulla falsariga di Halloween di John Carpenter, una gigantesca citazione al classico slasher (tanto che, secondo il regista, Michael Myers rappresenterebbe “il perfetto vicino di casa bianco“).

    Il soggetto è stato scritto da Peele stesso, che scrive una storia con alcuni punti in comune con Il fu signor Elvesham (un racconto di H. G. Wells del 1896, che è stato anche girato come episodio di una serie TV su Sky Arte). Nel farlo, il regista cristallizza alcuni punti di riferimento del cinema che ama – a cominciare da La notte dei morti viventi – e rielabora una storia che presenta una componente originale (l’uso massivo dell’ipnosi, una pratica da horror sovrannaturale in un film che più materialistico non si può) per un film che, in altri tempi, sarebbe stata pura exploitation. Varrebbe la pena di ricordare anche La casa nera, uno degli horror più sociali e meno citati di Wes Craven, con il quale ci sono vari punti di contatto dentro Get out.

    Scappa – Get out per inciso non è uno slasher – o almeno non lo è nella sua definizione canonica: è più un mix di generi che vanno dalle home invasion ai thriller più psicologici, senza dimenticare le lezioni degli horror più prettamente politici di Yuzna, Romero e Carpenter. In particolare si parla di razzismo, un male radicato nella società (non solo) americana, e che viene rappresentato grottescamente all’interno di salotti di lusso, giardini curatissimi, bianchi raffinati e apparentemente impeccabili ed una nota anomala, ovvero personaggi afro-americani vestiti come i personaggi di metà ottocento de La capanna dello zio Tom. A questo si aggiunge una progressiva invasività dei personaggi, che incrementa il disagio del protagonista e lo fa diventare una sorta di Billy attualizzato (l’indimenticabile horror di Yuzna Society).

    Scappa – Get out (un titolo che, per certi versi, potrebbe quasi fuorviare e far pensare ad una commedia pura, per quanto Peele lo abbia scelto come titolo per citare una frase abusata in qualsiasi horror) risulta un film moderno ed efficace, mai appesantito e mai didascalico – difetto comune, quest’ultimo, in questo sottogenere. Un genere che Peele reinventa quasi da zero, disseminando tra una scena inquietante e l’altra alcuni gustosi siparietti umoristici (black humour, in tutti i sensi) con personaggi sempre molto teatrali e caratterizzati. E senza polarizzare le posizioni, soprattutto, dato che i classici poliziotti insulsi che non credono alla storia denunciata dall’amico del protagonista sono, volutamente, tutti di colore. Un film, peraltro, molto equilibrato dal punto di vista visuale, contraddicendo la tendenza moderna di caricare la violenza fino all’estremo, con risultati spesso fuori target (penso ad esempio a Frontiers).

    Il film è del 2017, ed è stato scritto durante la prima presidenza di Barack Obama, periodo in cui sembrava che il razzismo fosse un qualcosa del passato – cosa poi tragicamente smentita dalle cronache recenti annesse al Black Lives Matter. La scena in cui il protagonista precipita nell’oblio, peraltro, nel Sunken Place (traducibile più o meno come il “luogo profondo”), è stata tanto toccante da scrivere che, per quanto dice lo stesso Peele, avrebbe pianto dopo averla riletta (ed è probabilmente il motivo “tecnico” per cui lo fa Chris). La spiegazione del Sunken Place resta forse poco ovvia e vale la pena spenderci due parole: è la dimensione in cui la voce black non viene ascoltata, nonostante ogni vittima urli la propria disperazione, ed è anche lo status in cui la società tutta è ormai diventata sorda al problema. Vale la pena citare la definizione fornita dall’Urban Dictionary, che recita più o meno “quando si vive in un totale stato di sonnolenza, soprattutto a riguardo ad una sistematica avversione nei confronti verso le ingiustizie razziali“. La rappresentazione di questa zona oscura è raggelante (quanto vagamente artigianale), e funziona alla grande: guardiamo attraverso gli occhi del protagonista, e lo vediamo precipitare nel vuoto dell’universo mentre la realtà, impressa su uno schermo TV, si allontana sempre di più.

    Chris e Rose, poi, sembrano la coppia perfetta: assertivo e mite lui, mentalmente aperta e dolce lei. Sembra il quadretto perfetto che prefigura la classica commedia leggera americana, a cominciare dai presupposti e dalle piccole gelosie che ne derivano. La Williams, in particolare, è tanto convincente da risultare archetipica (un personaggio che sembra tratto da un qualsiasi slasher che contrapponga giovani del college e villain di turno). Il disagio del ragazzo, comunque, già prevenuto di suo, si accentua una volta a casa di lei, dove scopre che i discorsi della famiglia di lei sono sempre più impertinenti e razzisti e che, soprattutti, tutti coloro che hanno il colore della pelle uguale al suo sembrano imbabolati e inermi. Peele gioca più volte la carta della sorpresa narrativa, rivolgendo un clamoroso messaggio anti-razzista rivolto a risvegliare le coscienze, a non addormentarsi e a non farsi condizionare dall’andazzo conformistico generale. lo stesso andazzo che dibatte di razzismo nei salotti radical chic, per poi arrivare a sminuire o negare il problema, alla meglio banalizzarlo e ricordurlo a forme di complottismo, vittimismo o paranoia.

    Peele suggerisce – e con Us finirà per ribadirlo – che il problema è tutt’altro che risolto, e che deve essere affrontato da tutti con grande coraggio (c’è una citazione abbastanza clamorosa durante la fuga di Chris: dentro l’auto che sta usando per scappare, infatti, trova un misterioso elmo medievale che, a quanto suggerisce IMDB, si ricondurrebbe alla frangia dei White Knights of the Ku Klux Klan). Peele dirige un gran film ricorrendo ad uno dei genere più flessibili e controversi per lanciare un messaggio del genere (l’horror), con buone idee, grande cultura cinematografica e una trama disseminata di twist sconvolgenti.

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