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  • Train de vie: un treno per vivere la memoria

    Train de vie: un treno per vivere la memoria

    Anni ’40. Shlomo preavvisa gli abitanti del suo villaggio shtetl, in Europa dell’Est, che i soldati nazisti stanno arrivando. Per salvare tutti il protagonista lancia l’idea di costruirsi un treno, fingere di auto-deportarsi e fuggire in Palestina. Metà degli abitanti si travestirà da soldato tedesco e l’altra metà da deportato…

    In breve. Uno dei migliori film mai realizzati sull’ olocausto, in un perfetto equilibrio tra tragico e comico: da non perdere.

    Si può trattare in modo ironico o satirico l’olocausto, senza retorica o cattivo gusto, e senza scadere o degenerare? A guardare “Train de vie” del regista rumeno Radu Mihăileanu, sembrerebbe proprio di sì: questo film gioca un ruolo essenziale nella cinematografia del genere, solitamente propensa a presentare solo storie tragiche (come è giusto che sia, in fondo), ma focalizzando la visuale sull’ottica di un protagonista (una vittima o, più raramente, un carnefice). Ed è davvero incredibile come anche oggi, nella giornata della memoria, questo piccolo gioiello non venga quasi mai citato.

    Molti film sull’Olocausto, al di là di eccezioni molto specifiche, possiedono come difetto la capacità involontaria di sminuire o alleggerire i fatti, presi come sono da un meccanismo di “voler sembrare” in un certo modo (ad esempio il film di Benigni La vita è bella lascia più il segno di un tragedia personale piuttosto che collettiva, mentre La settima stanza di Márta Mészáros si focalizza sul contraddittorio misticismo della protagonista, tralasciando deliberatamente da parte, per dire, la tragedia in atto ed il rapporto ambiguo tra chiesa e nazismo). Si ammette infatti, di voler concentrare l’attenzione esclusivamente sul protagonista e i suoi drammi personali, per restituire la massima empatia con il pubblico: ma ciò, di fatto, finisce troppo spesso per mettere in secondo piano lo scenario che, nel caso del nazismo, è invece fondamentale. Train de vie non solo fa questo, ma lo rende oggetto di satira (il che non implica, ricordiamo, che la cosa debba fare ridere: semmai, alla fine, provoca l’effetto contrario).

    C’è una mentalità che degenera, un modo malato da rappresentare: e pochi film lo sanno fare come “Train de vie“. Si sa ironizzare su una tragedia senza sminuirne la portata, giocando su un equilibrio delicatissimo e, soprattutto, facendolo in modo credibile: e nel frattempo uno dei protagonisti si chiede quanto potrà mai costare un biglietto per la Palestina, oppure “se deportarsi da soli ti sembri da sani di mente”.

    Train de vie è una successione incalzante di eventi, che alternano tradizioni yiddish (una parodia del tedesco con dentro l’umorismo, si dice all’inizio, ed è un po’ questa la chiave di lettura più vere dell’opera) ad imperdibili siparietti parodistici: i personaggi che si dividono in fazioni politiche o religiose, del resto, è degno di un film dei Monty Python.  il finale, poi, è un’autentica sorpresa, che solo la visione completa del film potrà far gustare appieno.

    Train de vie può essere considerato, senza mezzi termini, un capolavoro del genere, proprio perchè mostra uno scenario verosimile, possiede una visione globale della cultura e della società dell’epoca, con la capacità di fare satira efficace in chiave anti-nazista, ma rifiutando al tempo stesso qualsiasi collocazione aprioristica in una religione o un’ideologia. Buona, ed incalzante, colonna sonora di Goran Bregovic.

    Io fuggivo, credendo che si potesse fuggire da ciò che si è già visto… troppo visto.

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  • La lunga notte dell’orrore: voodoo e morti viventi pre-Romero

    Un medico londinese si reca assieme alla figlia presso un suo brillante ex-studente: arrivati nel suggestivo paesino, strani morti sembrano verificarsi in modo del tutto inspiegabile…

    In breve. Due anni prima di Romero John Gilling mette in scena una buona storia di morti viventi, legata strettamente alla tradizione voodoo. Elegante nella forma e piuttosto fluido nella trama – per quanto non proprio strabiliante visivamente – si tratta di uno dei film più inquietanti e meglio realizzati del periodo.

    Ho sognato morti che resuscitavano… e tutte le tombe erano vuote

    La lunga notte dell’orrore” è una produzione diretta da John Gilling per la Hammer, anno di grazia 1966: essa si sviluppa come un tipico horror gotico “all’inglese” riportando alcuni punti di contatto con l’omologo – di 22 anni prima – Ho camminato con uno zombie, per quanto in questa nuova circostanza si leghi la dimensione “morti viventi” non alla residenza su un’isola esotica bensì all’importazione da parte di un ambiguo nobile locale. Lo zombie assume quindi, in questo film, la valenza di una sorta di instancabile “manovale” che il villain, come vedremo, sfrutta ferocemente all’interno della propria miniera. Per farlo egli ha imparato il voodoo presso qualche oscura località esotica, ed il suo essere infido ma apparentemente ineccepibile lo rende senza dubbio un personaggio molto affascinante (raffinatezza ed efferatezza estrema, del resto, sono tratti caratteristici a cui si richiamerà il moderno Ubaldo Terzani).

    Il medico Sir James Forbes, dal canto proprio, nell’eleganza classica da un lord inglese lucido e razionalista, verrà progressivamente travolto dalla dimensione ed inquietante mistica del voodoo, per quanto all’inizio la relegasse a banali superstizioni del posto; di fatto, è un trionfo della dimensione orrorifica in una pellicola di culto, gradevole da riscoprire ancora oggi, semplicemente irrinunciabile per gli appassionati del genere e che non risente troppo dell’età che ha. Ovviamente non c’è da aspettarsi un delirio di splatter e gore, per quanto i morti viventi siano piuttosto ben realizzati ed assumano, forse per una delle prima volte nella storia, il colorito violaceo, l’andamento barcollante e gli occhi bianchi che impareremo a conoscere negli anni successivi. Gli effetti speciali di questo film non sono certamente eccezionali, anzi vivono di quell’orgogliosa artigianalità di cui non tutti vanno fieri; nonostante questo la storia si regge in piedi molto dignitosamente, e conferma uno dei maggiori picchi di idee e buoni script di quel periodo. Questo è riscontrabile anche nei dialoghi molto curati che, come sappiamo, non sono tipicamente un punto di forza di questo tipo di film.

    Per quanto privo della carica rivoluzionaria ed ultra-gore delle opere di Romero, in definitiva, The plague of the zombies è senza dubbio uno dei migliori horror sui morti viventi mai realizzati.

  • Il mostro della strada di campagna: vi spaventerà senza mostrare una sola goccia di sangue

    Due ragazze inglesi, Jane e Cathy, si trovano in vacanza in Francia a bordo delle proprie bici, fin quando non succede un imprevisto…

    In due parole. Se esistesse un genere “pre-slasher” non ci sono dubbi che “And soon the darkness” potrebbe essere uno dei suoi migliori rappresentanti: nonostante il sottotesto subdolamente violento, nel film non viene sparsa una sola goccia di sangue, e si delinea abilmente, in un gioco di sospettati accennato con cura, un modello di assassino scoperto solo nel finale. Delinea lo scenario di apparente normalità/terrificante realtà a cui Wes Craven, Dario Argento, Aldo Lado, Mario Bava e molti altri finiranno per rifarsi. Di culto.

    Partendo da presupposti apparentemente banali (due giovani ragazze ed un “orco” che sembra perseguitarle) Robert Fuest – che l’anno successivò dirigerà L’abominevole dottor Phibes – sviluppa un intreccio diretto, semplice e coinvolgente, avendo cura di inserire pochi personaggi e focalizzando l’ambientazione, in gran parte, all’interno di un scenario archetipico (un bosco). Appare da subito piuttosto chiaro che si tratti di un film con un orrore di fondo nascosto, subdolo e sempre accennato, che inizia a decollare sul serio solo dopo la prima mezz’ora, inchiodando inesorabilmente, a quel punto, lo spettatore alla poltrona.

    I presupposti sono i soliti, quelli tipici del cinema di genere dell’epoca, e sembrano dipingere lo scenario in cui saranno ambientati almeno altre due celebri (e controverse) pellicole: L’ultima casa a sinistra di Wes Craven (1972) e I spit on your grave di Zarchi (1978). Pellicole in cui l’orrore esce fuori dall’isolamento di individui giovani di sesso femminile, e che deriva in buona parte dalla loro innata ingenuità – oltre che, naturalmente, dalla violenza subdola e repressa di un mondo ipocrita o perbenista. Nonostante in questa sede – è bene specificare – non siano presenti le note estremizzazioni ultra-violente dei due citati, si nota da subito come iniziasse a “bollire in pentola” un certo spirito, un’attitudine – che di lì a poco sarebbe diventata in parte slasher, in parte revenge movie.

    Nonostante “Il mostro della strada di campagna” non possieda questo tipo di caratteristiche, ma sia soltanto una sorta di compendio essenziale del genere – per questa regione accessibile anche dal pubblico più impressionabile – risulta essenziale dal punto di vista storico, perchè delinea lo scenario classico (e non è poco), ma fa anche di più: suggerisce stilemi, drammatizzazioni e caratteri dei personaggi a cui fin troppi registi faranno riferimento nel seguito. Il gioco del “tutti-sospettati”, del resto, è realizzato con enorme cura: tanta da evocare i clamorosi “giochi di prestigio visuali” a cui Dario argento, tanto per citare uno dei più famosi, ha sempre cosparso le proprie pellicole. Chi sarà l’assassino? Forse il marito della barista? L’uomo con la vespa? Che non sia l’insegnante di inglese dall’aspetto pacato?

    Il tutto senza alcun eccesso visivo o concettuale, ma narrando la storia con una sorta di “pacatezza” che la rende, in fin dei conti, ancora più spaventosa. “Il mostro della strada di campagna“, orrendo titolo italiano corrispondente ad un più suggestivo “And soon the darkeness“, definisce un intreccio che, visto oggi, appare di natura quasi ordinaria, neanche troppo esaltante. Uno svolgimento obiettivamente accattivante, minato da qualche banalità di troppo nella fase inizale che poi si delinea come un crescendo di tensione, fino ad un clamoroso finale a sorpresa: una sorpresa che non appare troppo inattesa, che forse molti potranno indovinare prima del tempo ma che è di natura archetipica, e ce ne accorgiamo contestualizzando al periodo di uscita (1970).

    Ancora di più in ragione di questo anticipo clamoroso rispetto a molti altri epigoni usciti fuori nel seguito: le tante “variazioni sul tema” che i cinefili più appassionati amano ancora oggi. I volti candidi di Michele Dotrice e Pamela Franklin, di fatto, finiscono per rappresentare l’innocenza di una generazione allergica agli stereotipi, ed alla riscoperta di una libertà perduta sulla strada (Easy rider, uscito un anno prima), valori sviliti da un mondo incomprensibile, indifferente, retrogrado e per certi versi a loro avverso.

    In questo il film getta le basi per pellicole come il claustrofobico L’ultimo treno della notte (che uscì cinque anni dopo): in definitiva ciò finisce per rendere And soon the darkness” una vera pietra miliare del genere. Un genere che si trova ancora in uno stato embrionalmente slasher (Reazione a catena di Mario Bava uscì solo l’anno successivo), e che quindi è prematuro definire tale per quanto esso, nel lungo periodo, seguirà molte di queste direttive cinematografiche.

  • Espressionismo, simbolismo e follia dentro “Il gabinetto del Dottor Caligari”

    Follia contro ragione, fantasia contro realtà: uno dei più celebri masterpiece dell’orrore mai realizzati.

    In breve. Film stra-cult perchè ha inventato molti consolidati stereotipi thriller, e per la meravigliosa forma espressionistica, a tratti impensabile per l’epoca. Contiene un interessante doppio finale “involontario” davvero clamoroso.

    Davvero singolare questo esempio di cinema muto risalente alla Germania del 1920, contato tra i primissimi horror della storia (Nosferatu di Murnau uscirà solo due anni dopo, così come Freaks di Browning). Girato secondo i canoni dell’espressionismo, si presenta come un film seminale adatto, oggi, probabilmente solo agli appassionati di cinema “assoluti” o, al limite, agli hacker di pellicole alla ricerca di immagini insolite. Com’è ovvio non esiste parlato a livello di suono, ma solo una lunga ed alienante colonna sonora curata da Giuseppe Becce.

    La storia è quella di un ipnotista che usa come un fenomeno da baraccone Cesare, un sonnambulo con la capacità singolare di predire il futuro delle persone. Dopo due misteriose morti avvenute in zona, una delle quali realizza esattamente la “profezia”, esce fuori che l’inquietante ipnotista avrebbe trovato un modo per controllare la volontà del giovane e costringerlo, durante il sonno, a compiere omicidi. Inoltre l’uomo si sarebbe immedesimato nella figura del Dottor Caligari, che aveva compiuto secoli prima delle approfondite ricerche sull’argomento ipnosi: come rivelazione definitiva si scopre che egli è, di fatto, il direttore di un manicomio che ha perso, neanche a dirlo, i lumi della ragione (i richiami al celebre “Dottor Catrame e Professor Piuma” di E. A. Poe sembrano sostanziali).

    Finita qui? Non proprio: non è infatti possibile discutere de “Il gabinetto del Dottor Caligari” senza considerare la parte iniziale e finale, inserite per imposizione del governo dell’epoca allo scopo di cambiarne il significato, letto addirittura come sovversivo. E così la versione definitiva del film viene farcita con un “panino” esterno, capace di stravolgere il messaggio di fondo e facendo apparire  il tutto come l’allucinazione di un pazzo, che avrebbe inventato quella storia avendo in odio il direttore del manicomio in cui è rinchiuso. Col senno di poi, una volta tanto potremmo dire che la censura è riuscita a fare qualcosa di buono, anche se così facendo 1) il sottotesto del film viene annullato del tutto e 2) si è indotti a fare considerazioni piuttosto brutali contro il cinema stesso e, come ha scritto molto giustamente Exxagon, far apparire che “la visione espressionista sia quella di una folle, ovvero l’arte moderna non ha senso ed è pura pazzia“. Ad ogni modo questo particolarissimo espediente narrativo del doppio finale “innestato” diventerà un classico di un certo thriller moderno, nel quale la demolizione delle apparenze è condizione necessaria per svelarà la cruda realtà dei fatti.

    La trama non è troppo lineare, il film rimane comunque interessante mentre, a onor del vero, gli elementi bizzarri de “Il gabinetto del Dottor Caligari” non sono pochi, anzi occupano parte preponderante della pellicola: tuttavia, considerando l’epoca ed i mezzi annessi, l’opera è di livello davvero notevole e finirà per piacere anche a chi non ama particolarmente certi virtuosismi. Molto degni di nota gli effetti visivi globalmente presenti, mentre la sequenzialità della storia è resa in modo ottimale dalla successiva colorazione della pellicola (avvenuta nel 1996) che scandisce, ad esempio, i notturni in azzurro.  Tra le curiosità più prettamente cinematografiche, infine, vi è l’interpretazione data da alcuni riguardo al misterioso Cesare, che – per via del comportamento e del suo dormire in una cassa di legno – sembrerebbe una specie di proto-zombie, il che smentirebbe White Zombi del 1932 come primo film di questo tipo. L’ipotesi è indubbiamente affascinante ma, di fatto, non mi pare nè smentibile nè confermabile sulla base a quello che vediamo.

  • Cospirators of pleasure: il surrealismo di Svankmajer alla sua massima espressione

    Sei individui insospettabili (tre uomini e tre donne) hanno delle forme di feticismo molto particolari, che coltivano segretamente.

    In breve. Un capolovoro di cinema surrealista, vero marchio di fabbrica di Švankmajer.

    La Praga dei giorni nostri (siamo a metà anni ’90, periodo di uscita della pellicola) è l’ambientazione di questo particolare film di Švankmajer, successivo a Lekce Faust ed incentrato, questa volta, sulle ossessioni sessuali e sui feticci di sei personaggi apparentemente comuni e senz’anima.

    Conspirators of Pleasure (Spiklenci slasti, in Italia Cospiratori del piacere) assume spesso e volentieri i toni della commedia grottesca alla Monty Python, dove le situazioni assurde sono non soltanto all’ordine del giorno, ma lo sono a tal punto da risultare disorientanti per lo spettatore. Che potrebbe strizzare gli occhi a più riprese, incredulo o in presa ad un riso isterico, chiedendosi cosa stia realmente guardando – ed è già un’ottima notizia, visto che una trama sostanzialmente non esiste e si sfrutta, se vogliamo, un meccanismo narrativo abbastanza sulla falsariga di Slacker (la pura prossimità ambientale per sequenziare le scene, personaggi presi sostanzialmente dalla strada, la casualità degli avvenimenti).

    Presentato per la prima volta al Festival di Locarno nel 1996, Cospirators of pleasure si apre con immagini fortemente allusive (sesso con animali, masturbazione e varie forme di coito, inclusa una carriola con tanto di ruota) ma poi, a dispetto delle premesse, non contiene nulla di realmente esplicito. I sei personaggi sostanzialmente non si conoscono, se non per sguardi che vorrebbero dire tutto senza dire nulla, e poi scoprono avere qualcosa in comune: tre sono attratti dai rimanenti in modo segreto, a volte ricambiando a volte no, sempre con la costante di non vivere alcun rapporto fisico.

    Così assistiamo alla giornalista televisiva che ama farsi succhiare gli alluci dai pesci che nasconde nella camera, il marito coi baffi che si gode il proprio feticismo tattile per spazzole, chiodi e pennelli da barba, l’edicolante che sogna sessualmente la giornalista e si costruisce un complesso macchinario per farsi masturbare mentre la guarda in TV, l’uomo camuffato da gallo che sogna un rapporto sadico o voodoo con la propria vicina (senza sapere che quest’ultima si sta costruendo un suo feticcio ripieno di paglia, con lo scopo di torturarlo), la postina che modella pazientemente palline di pane che infila nel naso e nelle orecchie prima di andare a dormire. Ci sarebbero alcuni parallelismi con il Cronenberg più estremo e fetish (Crash, naturalmente, ma anche Videodrome: impossibile non pensarci mentre vediamo l’edicolante leccare lo schermo), ma Svankmajer basta a se stesso e soddisfa la visione appieno: l’unico patto da rispettare, da parte dello spettatore, è quello di avere presente cosa sia il surrealismo. Altrimenti il doppio livello di realtà e surrealtà, di avvenimenti sarebbero impossibili da comprendere, e si frammenterebbero in una storia fine a se stessa (ammesso che quest’ultima sia davvero delineabile senza “surrealtà”); il tutto, a formare un caleindoscopio emotivo di quelli difficili da dimenticare.

    Nel film, peraltro, non esiste alcun dialogo, gli effetti sonori sono volutamente esasperati e la musica classica accompagna quasi la totalità del film. Il messaggio di fondo, in effetti, è disperato quanto grottesco: ogni personaggio finisce per soddisfare un desiderio sessuale inappagato costruendosi accuratamente degli oggetti per soddisfarlo o, al limite, collezionando qualcosa che possa “riempirli” (le briciole di pane) o soddisfarli quantomeno a livello tattile (le spazzole, le mani meccaniche).

    Neanche fossero cuochi ispirati quanto esigenti, si inventano – con l’aiuto della gamma più incredibile di oggetti, animali, dispositivi che siano – il proprio “piatto” preferito, unico modo per anelare ad un orgasmo totale. Non c’è altro modo per descrivere Cospiratori del piacere che non quello di ricorrere a simili analogie o sinestesie, piaccia o meno. Una postina, un negoziante, un presentatore televisivo, un detective e due coinquilini scovano gli oggetti di cui hanno bisogno ricorrendo agli espedienti più fantasiosi: ed è tutto qui, o quasi. In fondo la vita non è che il background sul quale costruire esperienze sessuali stimolanti, sembra suggerire il regista: ma l’erotismo di Svankmajer è poco esplicito, ed è prima di tutto anticonvenzionale (il collage di riviste erotiche utilizzato per costruire il gallo di cartapesta).

    Con questo film qualcuno ha scomodato Sade, moltissimi Freud, ma rimane una semplice considerazione di fondo: questa è avanguardia, prima di tutto, e come espressione tale si affida esclusivamente alla suggestione, all’inconscio, agli istinti repressi che accomunano i personaggi e che (suggerisce la storia) sono destinati a non risolversi, mai. La stop-motion inserita nella pellicola è il tocco di genio determinante, poi, per definire questo film uno dei capolavori surrealisti contemporanei.

    Per molti, probabilmente non per tutti.

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