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  • Ro.Go.Pa.G.: Frammenti di Desiderio e Decadenza

    Ro.Go.Pa.G.: Frammenti di Desiderio e Decadenza

    Film diviso in quattro episodi a se stanti, ognuno diretto da un diverso regista: Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti.

    In breve. Un classico che rientra nella consolidata tradizione dei film a più registi e a episodi, dalla confermata attitudine socio-politico-satirica.

    4 cortometraggi incentrati su quattro argomenti diversi: sessualità, separazione, fame e consumismo.  A ben vedere, due coppie di opposti che finiscono per creare un immediato gioco di contrasti, tra la gioia apparente del sesso alla frustrazione per la conquista fino al dramma della gelosia e della separazione. E naturalmente le psicosi moderne, da quelle indotte dal consumismo a quelle di natura sociale. Se ci mettiamo la società del boom economico allora nascente (il film è del 1963), il contesto diventa fondamentale per inquadrare l’importanza del lavoro, esattamente così come viene presentato.

    Lavoro che, per inciso, nasce da un’idea dei produttori Angelo Rizzoli, Alfredo Bini e Alberto Barsanti che decidono di chiamare il progetto Ro.Go.Pa.G. dalle iniziali dei quattro registi coinvolti, dando ad ognuno massima libertà espressiva. In questi casi i risultati tendono ad essere altalenanti, proprio perchè manca un filo conduttore, cosa che in questo caso non succede anche perchè è relativamente agevole identificarne almeno uno (quello nichilistico, su tutti). Quattro storie contemporanee, moderne per l’epoca in cui uscirono, incentrate su una tematica sociale o politica precisa, e caratterizzate da un artista ormai rassegnato – e nichilisticamente sconfitto – dal conformismo imperante.

    Illibatezza (Rossellini)

    L’episodio di Rossellini è forse il più immediato dei quattro pur mostrando, per la verità, una tematica impegnativa: il celebre complesso di Edipo proposto da Sigmund Freud, qui concretizzato nella storia di un americano alcolizzato, che durante un viaggio di lavoro si invaghisce di una hostess italiana, iniziando a seguirla ovunque e comportandosi grottescamente come un bambino che reclama la figura materna. Sarà l’intervento di uno psichiatra a lenire le pene della ragazza, grazie alla brillante proposta di passare da un personaggio di mora dall’aria affidabile a femme fatale bionda, riconquistando il fidanzato geloso (un calabrese stereotipato che tende, tuttavia, a parlare in siciliano) e respingendo così definitivamente le asfissianti avance dell’americano. Un micro-episodio d’epoca su un boomer ante litteram, che inizia a stalkerare (diremmo oggi) la bella e giovane hostess Anna Maria, arrivando a raggiungerla nella sua stanza d’hotel di soppiatto, ed inscenando patetiche sceneggiate pur non farsi cacciare. L’effetto grottesco è garantito, soprattutto per la determinazione insospettabile della donna.

    È evidente la tematica dei tempi che stanno cambiando, delle persone radicate nella tradizione che avranno maggiori imbarazzi ad accettare il cambiamento di valori del prossima a venire Sessantotto, di una esplosiva emancipazione femminile e dell’avvento, nella società italiana, delle più classiche teorie psichiatriche e psicologiche, destinate – di lì a breve – a pervadere qualsiasi ambito.

    Il nuovo Mondo (Godard)

    Il corto di Godard è probabilmente il più filosofico e basato su sottintesi, e non è proprio immediato comprenderne il senso: lo stile narrativo si ispira alla più classica Nuovelle vague (la nuova onda del cinema francese, quella nata nel 1957), ma probabilmente c’è qualcosa anche da L’amante di Harold Pinter, una piece teatrale dell’assurdo uscita appena un anno prima (1962), nota quest’ultima per l’incipit che è passato allo storia: un marito chiede amorevolmente alla moglie “Viene il tuo amante, oggi?“, la moglie annuisce, la coppia discute l’evento come se fosse una cosa qualunque.

    Nulla di troppo diverso, in effetti, da ciò che succede tra il protagonista (di cui non sappiamo il nome) e Alexandra, una giovane donna innamorata e ricambiata dall’uomo. Viene poi mostrata la prima pagina di un quotidiano, che annuncia vari esperimenti atomici a 120.000 metri sotto la città: non erano trascorsi nemmeno venti anni dalla tragedia di Hiroshima e Nagasaki, per cui l’evento dovrebbe fare scalpore, provocare preoccupazione. Il problema è che sembra passare indifferente alla popolazione, nessuno ne parla: questo per quanto l’evento sembri aver innescato (mediante modalità non esplicitate) una mutazione profonda, non nei corpi ma nel comportamento umano.

    È il protagonista ad rendersene conto: da’ appuntamento ad Alexandra che, presumibilmente per la prima volta, non si presenta. Informatosi presso un vicino, va a trovarla in piscina, e la vede baciare e abbracciare una persona (che poi svelerà di non conoscere affatto). Alexandra diventa così scostante, illogica, sembra smarrirsi in un vaneggiamento perenne senza capo nè coda, da’ risposte contraddittorie ed afferma più volte al compagno “io ti ex-amo“, pur accettando di rimanere a dormire da lui quella sera.

    Convintosi di un collegamento indiretto con l’esperimento nucleare (e dell’annessa disumanizzazione), l’uomo scrivere le proprie memorie, nella speranza che qualcuno dei posteri possa capirne il senso. Il film termina dopo aver mostrato la penna del protagonista prendere appunti, non prima di aver mostrato a più riprese vari parigini che attraversano la scena ingerendo delle pillole.

    Le musiche sono i quartetti per archi di Ludwig van Beethoven (n. 7, 9, 10, 14 e 15), e l’apocalisse è servita.

    La ricotta (Pasolini)

    Una troupe sta girando, diretta da un regista dai modi caustici (interpretato da Orson Welles), una riedizione della Passione di Cristo in chiave artistico-concettuale. Ci troviamo nella campagna romana, ed emerge da subito la figura di Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono nella scena della crocifissione. Pasolini rappresenta questo personaggio in modo simile allo Zanni portato sulle scene (e reso celebre) da Dario Fo: legato alla terra, dalle movenze grottesche, dedito ai travestimenti per avere doppia razione di cibo e, naturalmente, perennemente affamato. Dopo che il cane di una vanitosa attrice gli ha sottratto il cibo da lui gelosamente nascosto e accumulato, decide di venderlo all’insaputa della donna ad un giornalista di passaggio. C’è tempo per uno splendido siparietto tra il mediocre giornalista e il colto regista, con il primo che cerca di intervistarlo mediante domande banalotte ed il secondo che afferma la propria natura marxista, legge una poesia tratta da Mamma Roma (libro proprio di Pasolini, che l’uomo ovviamente non capisce), lo sminuisce e lo insulta con eleganza. E si arriva poi al clou della storia: Stracci viene scoperto nella grotta in cui sta accumulando il cibo, viene deriso dalla troupe ed invitato a mangiare pantagruelicamente. Col risultato che avrà un malore proprio mentre impersona il ladrone e si trova sulla croce, impossibilitato a pronunciare la battuta finale mentre il regista ne constata gelidamente la morte.

    È difficile discutere ogni singolo aspetto di questo piccolo capolavoro di Pier Paolo Pasolini, intellettuale a tutto tondo che subì un vero e proprio boicottaggio, per questo corto, e si arrivò ad una condanna censoria per vilipendio alla religione. Si ebbe poi un’amnistia, ma nel frattempo il regista aveva già fatto delle modifiche definitive all’audio e alle scena. Aveva, ad esempio, dovuto cambiare la frase finale da “crepare… è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” a un più innocuo (e forse non meno significativo, in un certo senso) “non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo“, e certe sequenze considerate inopportune vennero tagliate (la versione su Amazon Video del film sembra essere, in teoria, quella senza tagli).

    La ragione della censura, del resto, sembra oggi difficilmente riconducibile a vilipendio, anche perchè se si fosse applicato questo criterio uniformemente, più della metà degli horror successivi non sarebbero mai circolati in Italia. Il problema de La ricotta è probabilmente nella sua valenza politica diretta e senza filtri, nel suo saper usare la Satira portando il sacro a livello del profano (la maschera tragicomica di Stracci, lo spogliarello dell’attrice che interpreta la Maddalena), nelle pose plastiche degli attori sotto la croce per cui sbagliano a mandare la musica e, come se non bastasse, scoppiano tutti a ridere durante le riprese, nella sua brutale constatazione inerenti divisioni sociali sempre più nette, nel dialogo (mai abbastanza citato) tra i due attori che interpretano i ladroni, in cui quello che afferma di essere tentato di bestemmiare viene frenato dall’altro, che poi lo biasima per essere un “morto di fame” che resta, nonostante tutto, dalla parte dei padroni.

    La questione è complessa da affrontare, e ci limiteremo a scrivere che c’è una questione di irrisolti politici da sempre, a riguardo, oltre a molteplici imbarazzi e lacune che sono culminate, purtroppo, con la morte prematura del regista (nel 1975) e miriadi di teorie, ipotesi più o meno credibili e presunti complotti su come siano andate realmente le cose.

    Il pollo ruspante (Gregoretti)

    Da un lato, un sociologo ospita un convegno assieme a vari “pezzi grossi” della società (ingegneri, dirigenti, presidenti, politici), usando un laringofono per parlare – il che gli conferisce un’inquietante voce robotica. Racconta delle ultime scoperte in ambito psicologico e sociologico sull’induzione all’acquisto da parte dei consumatori. Dall’altro, vediamo un padre che firma più di venti cambiali pur di avere una TV di ultima generazione: i suoi figli sanno le pubblicità a memoria e la moglie è perennemente frustrata. I due coniugi inseguono affannosamente il Consumo: valutano di comprare un terreno che già sanno di non potersi permettere, vogliono già cambiare la televisione dopo averne comprata un’altra di recente, acquistano miriadi di prodotti inutili in autogrill, si conformano ai modi dei fast food millantando di conoscere (da cui il titolo) la differenza tra polli di allevamento e polli ruspanti. Finalmente si distaccano da quel modello malsano di finto benessere, in una doccia fredda di consapevolezza, e pensano di poter vivere diversamente. Ma è troppo tardi: Togni si distrae alla guida ripensando ai terreni perduti e muore, presumibilmente con tutta la famiglia, in un frontale.

    Si tratta dell’episodio forse più politico e sovversivo in assoluto, con un Ugo Tognazzi sempre in splendida forma, per un cortometraggio sulla perfetta falsariga di quelli visti ne I mostri oppure in Signore, signori, buonanotte.

  • Control: il film di Anton Corbjin su Ian Curtis

    Control è un biopic musicale, girato almeno un decennio prima che partisse il trend dei tempi più recenti (Lord of chaos, The dirt, Bohemian Rhapsody), in cui il titolo fa riferimento a She’s lost control, il brano dei Joy Division con cui Ian Curtis racconta della crisi epilettica di una sua conoscente, prefigurando il male esistenziale che lo avrebbe attanagliato di lì a breve.

    Control è un biopic sui Joy Division ma è soprattutto incentrato sulla figura di Curtis, figura di culto della scena dark e anima tormentata per eccellenza: diviso tra mille contraddizioni, dedito con abnegazione alla band che amava, colto, amante del  cinema e del punk, lacerato tra due amori che sembrano egualmente impossibili. Ne viene fuori un ritratto da anti-eroe sublime quanto sofferto. Un personaggio nel quale, soprattutto da fan della band, sarà impossibile non identificarsi,  e che trasmette un convulso flusso di coscienza (affidato al suo personaggio che, in molti casi, scrive i propri pensieri), intervallato tra stati depressivi ed epilettici che lo accompagnarono per tutta la vita. La perdita del controllo sarà anche ciò che ne determinerà la prematura scomparsa, per suicidio, a soli ventitrè anni. Secondo il film Curtis concluse la propria esistenza guardando La ballata di Stroszek di Werner Herzog e ascoltando l’album The Idiot di Iggy Pop.

    Concepito inizialmente come una trama da sviluppare in flashback, si stabilì  durante le riprese di seguire linearmente la vita del cantante dei Joy Division, dalle origini fino alla caduta. Scelta saggia, perchè in questa veste il film assume quasi il tono di un documentario romanzato, senza cedere alla tentazione di introdurre elementi falsificati o teatraleggianti tipici di certi biopic, così come dettagli autoindulgenti o trasgressione fine a se stessa. Una scelta saggia, che restituisce l’immagine di uno degi musicisti più influenti di tutti i tempi – che avrebbe meritato più spazio e copertura mediatica fin dall’inizio (e lo scriviamo convintamente e senza retorica). Un film che ci lascia con una sequenza da brividi, quella finale, che racconta la fine della vita di Curtis con la stessa grazia, disperazione ed introversione che lo caratterizzarono (oltre che sulle note della splendida Atmosphere).

    Control è il sorprendente debutto alla regia di Anton Corbjin, fotografo e regista olandese divenuto celebre per questo film e molto noto, peraltro, come regista di videoclip (Metallica, Nirvana, Depeche Mode tra gli altri). Girato inizialmente a colori e poi virato sul bianco e nero per conferirgli un tono più cupo, che il regista paragonò a quello ottenibile con il Super-8 in 35mm. Riley, scelto come protagonista nei panni di Ian Curtis, non era nuovo alle esperienze prettamente musicali, essendo stato leader dei 10.000 Things (con cui pubblicò anche un album, etichetta Polydor, nel 2005). Stando all’attrice che interpreta la moglie di Curtis (Samantha Morton), per fare questo film il regista si indebitò fino all’osso, arrivando a mettere in pegno la propria casa. Scommessa vinta, a quanto sembra,dato che il film incassò 8.9 milioni di dollari al botteghino.

    La poesia che viene recitata nel film prima del primo live dei Joy Division, per la cronaca, è di John Cooper Clarke, poeta inglese molto connesso con la scena punk dell’epoca. Per interpretare la parte del chitarrista della band Bernard Sumner, inoltre, James Anthony Pearson imparò realmente a suonare la chitarra in circa due mesi.

    Il film è interessante per lo sviluppo lineare, mai inutilmente appesantito a livello narrativo (e anzi condito da una vaga forma di humour sarcastico, quanto imprevedibile, in alcuni passaggi), e per la scelta di ricostruire episodi realmente avvenuti nella biografia della band: la prima apparizione con Tony Wilson, ad esempio, nel programma Granada Reports, che viene riprodotta piuttosto fedelmente rispetto all’originale, per quanto il brano eseguito nel programma sia Transmission mentre quello suonato nel film sia, invece, Shadowplay.

    Grande importanza è giustamente relegata, inoltre, alla figura di Annik Honoré, la giornalista belga in relazione sentimentale con Curtis, storicamente molto legata alla sua fama e scomparsa nel 2014. Il brano Love Will Tear Us Apart nel film, peraltro, viene associato al dolore di Curtis perchè sente di non amare più la moglie, ma sembra è altrettanto plausibile che sia stata ispirata alla Honorè.

  • Frenzy di Hitchcock: mostra subito il volto del killer, ed è un capolavoro del genere

    Un assassino seriale uccide varie donne a Londra strangolandole con una cravatta: per una serie di circostanze casuali, la polizia sospetta dell’uomo sbagliato…

    In breve: un buon film, il penultimo, del maestro del brivido, caratterizzato da un perfetto equilibro tra componenti violente (esplicite come non mai per il regista), virtuosismi di camera, elementi di puro intrattenimento e quel tocco di immancabile humor nero. Da vedere senza esitazione.

    Primo film girato nel Regno Unito dai tempi de L’uomo che sapeva troppo (1956), e filmato nei pressi di Covent Garden a Londra, è noto per essere uno dei lavori più spaventosi ed estremizzati del regista inglese: è un film incentrato interamente sull’operato di un serial killer, che peraltro si vede subito in volto ed i cui dettagli raramente vengono risparmiati. A rendere accattivante la trama vi è una serie di equivoci, di circostanze casuali che porteranno le autorità – tra il serio e l’ironico – a sospettare ostinatamente di un innocente.

    Si racconta che la figlia del regista, Patricia, impedì di vedere Frenzy ai propri figli per diversi anni: rispetto alla media dei film del padre, in effetti, qui si osa molto di più che in passato. E forse sta in questo il suo reale valore aggiunto: del resto, pur rimanendo ancorato agli elementi stilistici che caratterizzano le sue precedenti opere (Frenzy è il suo penultimo film), è pur sempre l’unico lavoro di Hitchcock vietato ai minori di 18 anni nel paese d’origine – lo stesso paese che, per inciso, fece stilare la lista dei video nasty negli anni 80.

    Nonostante non sia il capolavoro del regista, è un film dotato di notevole forza espressiva, ed in cui sembra notarsi apertamente l’entusiasmo del buon Alfred nel poter filmare liberamente, nel dare massimo sfogo alla propria creatività e nell’arricchire il film di virtuosismi visivi, inquadrature inattese e personaggi praticamente perfetti. Non mancano le scene di nudo, per la cronaca, cosa decisamente inusuale per il suo stile relativamente sobrio, e questo a dispetto della mancanza delle solite dive dei film precedenti: mostrano le proprie grazie la Leigh-Hunt (la sequenza della sua morte è un mix delirante di sesso, violenza e tensione: praticamente perfetta), la Massey (non appena si alza dal letto) e la povera ultima vittima del killer. La capacità di contestualizzare queste sequenze – senza farle sembrare gratuite, rischio elevatissimo in questi casi – da parte del maestro è sublime: nessuna scena è fuori posto, ogni personaggio viene dipinto come se fosse un quadro e, forse soprattutto, sono i movimenti di camera a sottolineare il senso di molte scene. Basti pensare al lungo piano-sequenza con la camera che si allontana all’improvviso dalla scena del delitto – facendolo solo intuire, oppure alla camera che ruota sopra il protagonista che sappiamo essere innocente dopo che, ingiustamente, è stato messo in cella.

    Da un punto di vista prettamente narrativo, “Frenzy” (che significa “delirio”) è tratto dal libro Goodbye Piccadilly, Farewell Leicester Square di Arthur La Bern (non facilissimo da reperire, almeno da quanto ho visto), ed è stato caratterizzato da numerosi espedienti di interesse: su tutti, il focus di certe sequenze sull’alimentazione, dalla frutta di ogni tipo alla cucina francese, quest’ultima molto elegantemente sbeffeggiata.

    Tra le curiosità, il trailer di Frenzy viene presentato dal regista nel consueto stile, composto ed inconfondibile, mentre il suo corpo galleggia, impassibile, nello stesso fiume in cui sarà trovata la prima vittima.

  • Strade Perdute: Topologia del Desiderio e Dissoluzione del Sé

    La doppia storia di un jazzista e di un giovane meccanico, esplicata in dinamiche da incubo e collegamenti anomali tra i due personaggi. Il tutto ruota attorna ad una storia di gelosia ed ambigui personaggi…

    In breve: uno dei capolavori di David Lynch, l’essenza della sua poetica più oscura. Lugubre, enigmatico e ricco di spunti psicologici di spessore.

    “Ti voglio… ti voglio, Alice…” – “Tu non mi avrai … MAI!”

    Piccola premessa: un luogo comune abusatissimo in parecchie recensioni dei film di Lynch è legato allo stereotipo secondo cui bisognerebbe lasciarsi trasportare puramente dalle emozioni, seguire le immagini e non preoccuparsi troppo della trama. Fermo restando che Lynch non usa dare “spiegazioni” per i suoi film, secondo me questo luogo comune è una semplificazione un po’ eccessiva, che serve molto spesso ad assolvere il recensore da qualsiasi responsabilità per averla, eventualmente, “sparata grossa”. Data l’evidente enormità di cui Lynch riesce ad avvolgere anche i suoi film più piatti, infatti, sarebbe anche lecito farlo: figuriamoci quelli inequivocabilmente validi ed intriganti come questo. Dunque mi pare opportuno cercare di seguire più del solito quanto concretamente rappresentato sulla pellicola (l’ho finito di fare qualche minuto fa), senza sconfinare nelle solite improbabili metafore da acido lisergico.

    Dick Laurent è morto” è la misteriosa frase con cui si apre e si chiude uno dei migliori film diretti da David Lynch, sceneggiato da lui stesso e da Barry Gifford; si tratta di una storia dalle forti tinte noir con un enorme “buco” narrativo all’interno, ovvero l’inspiegabile mutazione fisica del musicista Fred nel meccanico Pete. Dal punto di vista interpretativo sono state scomodate complesse strutture matematiche (il nastro di Moebius, da parte di Enrico Ghezzi), idea forse efficace ma che possiede il difetto di spiegare una cosa già intricata con una altrettanto difficile.

    I DOPPI RUOLI DEL FILM. In primis bisogna inquadrare ovviamente Renee Madison / Alice Wakefield, sempre interpretati dalla Arquette: la prima è la conturbante consorte del musicista, la seconda è l’ambigua compagna del gangster Mr. Eddy, che possiede a sua volta un doppio di nome Dick Laurent. Il film è incentrato su un rapporto di coppia, peraltro, che sembra non trovare equilibrio in nessun caso, come a dire due estremità attratte l’una dell’altra che non combaciano.

    DOPPIA NARRAZIONE. A quanto si vede è possibile individuare due livelli di narrazione, che riguardano essenzialmente lo stesso protagonista che – come vuole il surrealismo, cioè in modo libero dalla coerenza prettamente logica e basandosi esclusivamente su un flusso onirico – è come se cambiasse internamente in modo così pesante da risentirne nell’aspetto fisico.Vi sono due narrazioni innestate, il cui inizio e fine non coincidono (da qui il paragone con il nastro di Mobius proposto da Ghezzi), anche se molto probabilmente riguardano la stessa persona dal punto di vista della storia reale (uxoricidio) e di quella che il protagonista sogna (e vorrebbe) fosse accaduto (la moglie che lo cerca nuovamente): il contatto con la realtà ritorna solo quando sta per morire sul serio.

    DOPPIA PERSONALITA’. Qualcuno ha parlato di un assassino dalla doppia personalità: puo’ anche darsi, tuttavia a mio avviso si tratta di suddividere il realismo della prima metà con una storia che il protagonista immagina di aver vissuto, fino alla conclusione che è comunque per lui fatale. La distinzione, ovviamente, è tutt’altro che netta, anzi possiede margini molto sfocati. In altri termini il cambiamento dall’insicuro jazzista Fred nel meccanico Pete (Balthazar Getty) prefigura una mutazione del protagonista, che pero’ è impossibile che sia avvenuta sul serio (e siccome si tratta di surrealismo, la cosa passa addirittura in secondo piano). Fred dichiara apertamente, all’inizio del film, di non amare le videocamere perchè “preferisco ricordare le cose a modo mio“, e questo è un po’ il manifesto delle successive sue intenzioni.

    PARALLELISMO TRA FRED E PETE. Si tratta della stessa persona? Sia Fred che Pete soffrono di un’amnesia, nessuno dei due ricorda dove abbiano conosciuto l’Uomo Misterioso (che pero’ sembra conoscerli entrambi, addirittura recandosi a casa di ognuno). Fred appare invecchiato e depresso per il tradimento da parte della moglie, Pete invece è giovane e molto sicuro di sè; la strana allucinazione che segna lo “stacco” tra i due personaggi, ovvero i genitori e la ragazza di Pete che urlano qualcosa al ragazzo sulla porta è come come una “porta” tra realtà e sogno.  Pete afferma di odiare il jazz, mentre Fred è un musicista proprio di quel genere, il quale pero’ tende a ricollegare le proprie esibizioni al fatto che la moglie se ne disinteressasse completamente. I due soffrono di forti mal di testa, e sembrano destinati ad incontrare rispettivamente l’ambigua Renee/Alice (Patricia Arquette), con la quale instaurano un rapporto passionale, ma piuttosto “soffocato” per via di una terza persona (il viscido Andy per una, ed il cinico e potente Eddy per l’altra). In aggiunta a questo, sia Renee che Alice parlano con il rispettivo compagno di un “lavoro” non specificato, ma l’allusione alla natura sessuale della cosa sembra, in entrambi i casi, piuttosto evidente. Neanche a dirlo, infine, i due personaggi, pur partendo da presupposti abbastanza diversi, subiscono una sorte avversa che li spinge progressivamente verso il baratro (poco importa se per mano di un gangster o per mezzo di una sedia elettrica: il movente è per entrambi di natura passionale). Come notato giustamente dal blog “Il proiezionista”, inoltre, le convulsioni che ha Pete mentre fugge dalla polizia dopo essere “mutato” per la seconda volta sono quasi certamente quelle dovute alla sua esecuzione, che nel frattempo sta avvenendo.

    L’ UBIQUITA’ DELL’ UOMO MISTERIOSO. Scena cult (ne scelgo una, ce ne sarebbero davvero parecchie): l’Uomo Misterioso parla con Fred alla festa, ed afferma di trovarsi davanti a lui e a casa sua contemporaneamente. Come prova di quanto dice, lo invita a fare il proprio numero e risponde effettivamente la stessa voce per telefono. Senza dare altre spiegazioni, l’uomo sorride e se ne va. Questo essere in due posti contemporaneamente, a mio parere, rinsalda il tema del doppio che ossessiona Lynch in questa pellicola, ed alimenta il senso di paranoia che l’Uomo Misterioso – il ricettatore e killer assoldato da Fred stesso, in sostanza – evidentemente gli infonde.

    LA COPPIA CHE NON REGGE. Altra scena molto significativa: per sottolineare la freddezza di Renee e la passione che, nonostante tutto, ancora avvolge Fred, viene mostrato un amplesso con i primi piani dei protagonisti, al termine del quale la donna sorride con indifferenza e da’ una pacca sulla spalla del compagno dicendo, in modo quasi beffardo: “Non ti preoccupare, non è nulla“. Questo è in aperta contrapposizione con quello che invece è Pete: sicuro di sè e del suo lavoro, e con una vita sessuale molto attiva (con la fidanzata Sheila, intepretata da Natasha Gregson Wagner, che con la donna di Eddy).

    Tra le note finali, una splendida colonna sonora di Rammstein, David Bowie, Trent Reznor, Marylin Manson, Angelo Badalamenti, Lou Reed ed altri ancora), e la partecipazione in un piccolo cameo sia di Manson che di Henry Rollins.

  • L’Armata delle Tenebre: Cult e Splatter anni ’80

    Chi poteva immaginare che Ash sarebbe finito proiettato nel passato? Nel precedente episodio della saga (il riferimento è “La casa” di Raimi, per chi non lo sapesse) Ash in due episodi sostanzialmente molto simili finiva per avere a che fare con dei demoni, risvegliati dalla lettura di alcune strane formule registrate su un magnetofono, aggeggio finito nelle mani degli amici sprovveduti del protagonista. Dopo una lotta surreale contro le strane creature, la saga si sposta nel tempo, cose che “solo negli anni 80” (anche se il film è del 92). Da qui svariati film copieranno questa struttura di fondo: è quello che succede nelle infinite produzioni americane nelle quali un protagonista, infelice ed incompreso all’interno del mondo moderno, si ritrova nel mondo medievale (ad esempio) e diventa lentamente un eroe per la gente del posto. Tutta la storia è incentrata sul fatto che Ash comprenda che l’unico modo con il quale può tornare nel suo presente consiste nel ritrovare proprio il Necronomicon.

    “Mi chiamo Ash: reparto ferramenta”

    Tra le scene di culto, i piccolo Ash che fuoriescono dai frammenti di uno specchio, il “gemello cattivo” fatto fuori a colpi di “bastone di tuono” (il fucile), la rocambolesca lotta contro streghe e demoni, l’alleanza con un Mago che decide di aiutarlo: sarebbe sostanzialmente un film fantasy, in cui la componente fumettistica è osannata all’ennesima potenza (non a caso Raimi dirigerà uno Spider Man). Un film che potrebbero vedere anche coloro i quali avevano gli occhi tappati durante la visione dei primi due episodi, e di cui vale la pena raccontare che esiste un doppio finale: la versione ufficiale – imposta dalla produzione, ed un po’ “tamarra” secondo me – è edulcorata, prevedibilmente ottimistica ma anche piuttosto divertente:  si scopre che Ash fa il commesso in un supermercato, e salva eroicamente una collega da un demone che sbuca fuori nel negozio. La director’s cut, invece, è più fedele allo spirito della saga, e prevede che Ash riesca a tornare nel futuro, ma per errore finisca in uno post-atomico, disperandosi perchè non potrà più tornare indietro.

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