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  • Malice: sinossi, cast, trama, produzione e spiegazione finale

    Malice: sinossi, cast, trama, produzione e spiegazione finale

    Malice – Il sospetto” è un film del 1993 diretto da Harold Becker. Si tratta di un thriller psicologico con un cast stellare, tra cui Alec Baldwin, Nicole Kidman (in uno dei suoi primi ruoli da protagonista) e Bill Pullman. Di seguito troverai informazioni sulla produzione, la sinossi, alcune curiosità e una spiegazione finale del film (con spoiler):

    Cast

    • Alec Baldwin nel ruolo del Dr. Jed Hill
    • Nicole Kidman nel ruolo di Tracy Kennsinger
    • Bill Pullman nel ruolo del Dr. Andy Safian
    • Bebe Neuwirth nel ruolo di Dana Kennsinger
    • George C. Scott nel ruolo del Dr. Martin Kessler
    • Anne Bancroft nel ruolo di Mrs. Kennsinger

    Il film è stato prodotto da Aaron Spelling e Alan Greisman. La sceneggiatura è stata scritta da Aaron Sorkin insieme a Scott Frank.

    Sinossi

    Il film ruota attorno a un giovane medico di nome Andy Safian (interpretato da Bill Pullman) e alla sua moglie Tracy (interpretata da Nicole Kidman). La coppia si trasferisce in una piccola cittadina dove Andy trova lavoro in un ospedale locale. Tuttavia, quando una serie di eventi misteriosi e sospetti inizia a verificarsi, tra cui una serie di violenze sessuali, la coppia si trova coinvolta in una trama oscura che coinvolge anche il loro vicino, il dottor Jed Hill (interpretato da Alec Baldwin). L’indagine sulle violenze sessuali e sui crimini collegati porta alla scoperta di verità sconvolgenti e segreti nascosti.

    Curiosità:

    • Il film è noto per le sue torbide dinamiche di potere e per le rivelazioni inaspettate che si svelano man mano che la trama si dipana.
    • La performance di Alec Baldwin è stata particolarmente elogiata per la sua abilità nel creare un personaggio ambiguo e inquietante.

    Spiegazione finale (avviso Spoiler)

    Alla fine del film si scopre che il dottor Jed Hill è il colpevole dietro i crimini commessi. Si rivela che Jed è un abile chirurgo e un sociopatico che ha perpetrato gli atti violenti e ha orchestrato una serie di eventi per far sembrare che il dottor Andy Safian fosse il colpevole. Aveva manipolato Tracy, la moglie di Andy, per convincerla che era incinta di lui, inducendo così Andy a compiere azioni in nome della sua famiglia. Alla fine, Andy riesce a smascherare le azioni di Jed e a salvare la sua famiglia.

    In sostanza, il film gioca con le tematiche della fiducia, della manipolazione e dell’identità, creando una trama complessa che sfida le aspettative dello spettatore fino alla rivelazione finale.

    Di screenshot catturato da Utente:Valerio79 – video, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3877887

  • Profondo rosso: recensione in 1099 parole (con foto dei luoghi)

    Profondo rosso: recensione in 1099 parole (con foto dei luoghi)

    Il capolavoro di Dario Argento, forse la migliore sintesi di tutti i suoi ingredienti orrorifici e di suspance.

    In breve: il capolavoro del giallo-horror, la sua espressione più nota al grande pubblico. Un successo internazionale che consacra Argento come mago dell’orrore e della suspance.

    Magia. Il solo modo per definire oggi “Profondo rosso“, pur rischiando di sconfinare nella più stereotipata e vuota retorica: un capolavoro senza tempo, la summa della perfezione del cinema thriller, che si contamina con l’horror senza dimenticare, come invece accade oggi, le sue radici puramente giallistiche. Ancora adesso osannato dai fan del genere (e non solo) e da parte della critica cosiddetta seria, ivi compresi gli spettatori più smaliziati che ogni volta si divertono ad evidenziare le incongruenze e le ingenuità dei cosiddetti b-movie. Profondo rosso, pur essendo assimilato ad un certo sottogenere horror che non faceva dei budget elevati il proprio punto di forza, non dovrebbe nemmeno rientrare nella categoria essendo, per sua definizione, forma e sostanza, fuori norma.

    Ma qui non si puo’ scomodare la serie B per nessuno motivo: si rischia di fare un torto enorme a quello che diventerà, da questo momento in poi, il guru del cinema “di paura” nostrano. Ancora devo conoscere una persona che osi – è proprio il caso di dirlo – trovare un aspetto discutibile o fatto male in questo autentico masterpiece del terrore: il fiore all’occhiello di Dario Argento, senza dubbio la sua opera più amata e più ricca di sequenza indimenticabili.

    Da un lato viene rappresentata la normale ordinarietà di un musicista jazz (Marcus/Hammings), di una giornalista attratta da lui (Gianna/Daria Nicolodi), di un commissario di polizia che indaga su una morte misteriosa e di qualche altro personaggio apparentemente qualsiasi: dall’altra la sofferenza del debole musicista Carlo, l’identità di un assassino crudele (uno dei più inquietanti mai realizzati nel cinema, a mio modesto parere), l’incontro casuale con il Male della medium (Helga/Macha Merìl) che lo identifica e ne rimane traumatizzata (oltre che uccisa). Altri marchi di fabbri caratterizzanti il giallo: personaggi che pervengono alla verità componendo frammenti di ricordi. Vittime che vengono colpite a morte spaccando, tipicamente, infissi delle finestre.

    Tra le scene di culto: la rassegna di armi del maniaco in primissimo piano su una stoffa rossa, la morte attraverso le schegge di una finestra, la decapitazione con una collana impigliata nell’ascensore, i denti di una vittima sfracellati sullo spigolo di un camino, un pupazzo a molla che preannuncia l’arrivo del maniaco, i sadici colpi di machete sul corpo di una donna, l’ustione con successivo annegamento nella vasca da bagno. Un campionario dell’orrore che culmina con la lucertola trafitta da uno spillo, il disegno murato nella “casa del bambino urlante“, lo specchio “rivelatore” della verità (anche in chiave psicoanalitica: per scoprire la verità dobbiamo guardare dentro noi stessi, anche a costo di rivelazioni dolorose o sgradevoli), una testa spappolata sotto la ruota di una Lancia Beta Cupè, un corpo trascinato da un autocarro Fiat 643: in altre parole il film in toto, nel suo incedere chirurgico, crudele ed incalzante, per la bellezza di due ore di incredibile Cinema.

    Profondo rosso” si sviluppa come una spira velenosa, un serpente affascinante e pauroso al tempo stesso, che avvolge lo spettatore da più parti facendo scattare un gioco di sospetti, di parole non dette, di confessioni mancate, di insospettabili complici intervallati da esecuzioni macabre, violentissime e mai come adesso “artistiche”. Il killer protagonista conduce i personaggi, in parte consapevoli ma comunque schiavi di un Male subdolo ed incosciente, come un mastro burattinaio, creando i presupposti per uno dei più geniali doppi finali mai concepiti dal regista romano. E questi ultimi, fino ad oggi, sono il suo marchio di fabbrica, il motivo per cui Argento è  da considerarsi anche solo di poco superiore, quantomeno in passato, a tutti i suoi diretti concorrenti (Fulci e Lenzi in primis, ma ovviamente si tratta di confronti solo “di facciata” che non vogliono sminuire nessuno).

    Se avete vissuto sulla Luna fino ad oggi e non avete mai visto Profondo rosso (che mi guardo bene dallo spoilerare, nonostante ci sia un’edizione in DVD che brucia il finale addirittura sulla foto di copertina), basta una capatina nel più vicino negozio o videoteca per rimediare e redimervi dal peccato. Se invece avete già visto Profondo Rosso, adesso vi sembrerà di sentire la colonna sonora dei Goblin: la, la, la, lalala…

    10 curiosità sul film

    Esterni girati a Torino

    Nonostante la storia sia ambientata formalmente a Roma, gran parte degli esterni furono girati a Torino. La scena iniziale nel teatro avvenne presso il sss, mentre gli esterni poco prima del primo omicidio sono nell’attuale piazza CLN, Comitato di Liberazione Nazionale (che all’epoca non aveva un nome, e fu sede delle SS durante la seconda guerra mondiale).

    Eccovi alcune foto recenti di piazza CLN (TO).

    Guanti e primi piani

    I primi piani sono all’ordine del giorno in questo film, tanto da risultare come marchio di fabbrica della regia. Le mani dell’assassino mentre indossa dei guanti sono state eseguite da Dario Argento in persona.

    La sequenza a piazza CLN

    Nella scena ambientata nell’attuale piazza CLN a Torino il personaggio interpretato da David Hemmings esce da un bar di notte per incontrare l’amico pianista: il bar è stato realizzato sulla base del famoso dipinto I nottambuli di Edward Hopper.

    Scene tagliate (e recuperate)

    Dopo gli 11 secondi di restauro effettuati nel 1993 per conto della Redemption, il DVD Platinum ha ripristinato la breve scena del combattimento tra due cani precedentemente scomparsa. La famosa scena della lucertola trafitta da uno spillo è tagliata malamente in alcune versioni. Nella maggioranza delle versioni internazionali le scene sono presenti (immagini tratte da movie-censorship.com)

    Ispirazione

    Stando a quanto dichiarato dallo sceneggiatore Bernardino Zapponi l’ispirazione per la realizzazione degli omicidi è stata guidata dal concepire le maniere più dolorose per procurarsi delle ferite. Il presupposto era che il dolore dovuto ad un urto accidentale con un mobile o una scottatura da acqua bollente fosse più familiare con il pubblico rispetto al classico colpo di arma da fuoco.

    …Suspiria 2

    A causa del grande successo in Giappone di Suspiria del 1977, Profondo rosso uscì col titolo Suspiria 2, per quanto tra i due film non ci sia alcun collegamento.

    I brividi di angoscia

    In Francia il film è uscito col titolo “Les Frissons de l’angoisse”, letteralmente “I brividi d’angoscia”.

    Lo store di Profondo rosso

    In via dei Gracchi a Roma (fermata metro più vicina: Lepanto) esiste il Profondo Rosso Store, il negozio ufficiale di Dario Argento (eccolo su Google Maps). Il regista vi organizza a volte eventi in loco e incontri con i fan.

  • The human centipede è una cruda metafora socio-politica (forse)

    The human centipede è una cruda metafora socio-politica (forse)

    Uno scienziato pazzo rapisce turisti allo scopo di tentare un singolare esperimento: un centipede umano.

    In breve: difficile dare una valutazione assoluta, tanto il film è in bilico tra un registro indigesto (e fine a se stesso) ed uno, tutto sommato, a suo modo originale.

    Due ragazze americane si perdono in un bosco della Germania, ed incontrano casualmente, invece del principe azzurro, un vecchio chirurgo misantropo di nome Josef (ogni riferimento a personaggi famosi del passato dovrebbe essere tutt’altro che incidentale). Questi narcotizza le due ragazze e le assicura a dei lettini da ospedale, il tutto allo scopo di tentare un incredibile esperimento di chirurgia: realizzare un centipede umano, un gigantesco insetto-umano che coinvolge anche un terzo ragazzo. Non è difficile immaginare come abbia intenzione di collegare i tre sventurati, visto che il suo “sogno” è che la creature disponga di un’unico apparato digerente. L’operazione viene dettagliatamente descritta mediante appositi lucidi alle tre vittime, che tentano ripetutamente la fuga e dovranno alla fine sottoporsi a questa tortura, di cui il lato strettamente chirurgico, descritto con dovizia di particolare, è espressione grottesca e delirante di un destino quasi peggiore della morte.

    Quello di The human centipede è – potremmo dire, senza timore di blasfemia – un sostanziale body-horror, privato della vena filosofica cronenberghiana ed avvolto in una spirale di cinismo e disgusto senza limite: Six riporta la carne alla carne, riduce dei corpi nudi a bestiame da macello e senza, per questo, voler intendere alcun sottotesto sociale (almeno in apparenza, come invece ha fatto A serbian film). Se si volesse parlare di originalità, si potrebbe tranquillamente farlo: il problema è che emergono un po’ di limiti, più che altro concettuali: ok, va bene il disgusto, l’orrore esplicito, la perversione feticista come metafora di sopraffazione, ma serve dell’altro – altrimenti il rischio noia è dietro l’angolo. Anche perchè, pur non volendo fare un horror prettamente politico, resta un dubbio sostanziale ad affliggere le nostre provate menti di cinefili: se è vero che sono esistiti vari mad doctor che praticano chirurgia sadica, lo facevano sempre per raggiungere un obiettivo (per quanto folle o irrealistico potesse essere). In altri termini, a cosa servirà mai un centipede umano se non a fare un film del genere che è diventato anche, negli anni, una saga? Uno dei tanti film che,  in altri termini, dice tutto senza, alla fine, dire nulla, confinandosi in un limbo comunicativo che ti farà chiedere “ma che cazzo ho visto?”.

    Il film scorre inesorabile, con alcune sequenza assurdamente indigeste e si attende la fine del film, con ansia, come una sorta di liberazione. Tom Six non possiede nulla dell’eleganza di Cronenberg, s’intende, tantomeno credo che aspiri a nulla di tipico del canadese, ma qui il problema di fondo è che la storia è totalmente monca, pointless nella sua narrazione e troppo concentrata ad esibire sadismo. “Il centipede umano” non riesce, nonostante tutto, ad essere un film pessimo, e nemmeno a diventare un cult tra qualche decennio (…o magari lo diventerà, chissà). Ripeto, non è un film da scansare come la peste, ammesso pero’ che abbiate lo stomaco di ferro e siate amanti dell’horror più estremo.

    The human centipede è realismo allo stato puro, non ha nulla di favolistico: ci tiene ad essere disgustoso nella sua maniacale descrizione medico-chirurgica, e da’ per scontato (non sappiamo sulla base di quale argomentazione) che la coprolalìa sia una componente fondante della paura. Il regista, peraltro, ha avuto un vero chirurgo come consulente: questo fa molto Cronenberg, ma ripeto: non è un film da cineforum, e basta leggere una mitica intervista al regista che afferma candidamente it’s for fun per capirlo.

    Se poi volete fare gli intellettuali fuori corso all’università, ve ne basti una: due vittime sono americane, una è giapponese mentre il cattivo è tedesco, il che si presa ad una rilettura in chiave storica, precisamente seconda guerra mondiale, il nazismo. Ma poi stop, quando hanno finito di spiegarvi queste cose eravate assenti, in un certo senso: piazzare dei fondali luminescenti, risaltare il camice del medico in un’atmosfera chirurgica e piazzare un’aquila nazista nella sua casa è un po’ pochino per urlare alla metafora simbolista del secolo. È chiaro, quindi, che siamo quasi esattamente sulle stesse sponde che ha voluto toccare un film analogo, per certi versi, quale Grotesque.

    Josef – il medico folle, non spiega perchè agisca in quel modo; sappiamo che è affetto da varie forme di perversioni, di cui quella sadico-feticistica gioca un ruolo da padrone, ma il discorso finisce lì. Nessuna spiegazione ulteriore, nessun flashback o approfondimento. Il centipede spiazza, nella sua semplice e diretta brutalità, e pure parecchio. Il film procede con un’insistenza – quasi compiaciuta – nel mostrare la continua ed interminabile sofferenza delle tre vittime, senza  neanche provare delineare lo spessore dei personaggi coinvolti. Cosa stanno espiando le vittime? Dentro film cruenti come Saw abbiamo il piacere di saperlo, alla fine, qui no: e ci manca solo una bella pernacchia conclusiva, tipo Alvaro Vitali dei bei tempi.

    Il senso di liberazione provato nel finale credo che sia qualcosa di universale, così come il notevole twist che si verificherà poco dopo (il finale merita, ed è il solo motivo per cui non mi sento di bocciare questo film). Così, mentre lo spettatore più sensibile si ritrova con lo stomaco rivoltato, e magari neanche riuscirà a finire di vederlo, quello più propenso all’intellettualismo non troverà pane per i suoi denti. Senso di indefinito, quindi, che poi si materializza nel fatto che siamo lontanissimi dai canoni della black-comedy: c’è poco o nulla da ridere, insomma, a confronto il sadismo di Funny Games è quasi demenziale, e l’unico richiamo che possa venirmi in mente, a parte le citazioni da horror di cassetta anni 70/80, è quello del genere nazi-sexploitation.

    Il centipede umano” è orrore puro, “divertimento” diretto e crudele, che emana la cattiveria del protagonista: perfetto, inumano, detestabile dal pubblico fin dal primo istante, proprio perchè praticamente privo di debolezze ed empatia. Al tempo stesso rimane in una sorta di purgatorio, per cui non si riesce a capire chi si abbia di fronte, e che reazione si possa avere: se si debba ridere, vomitare, urlare al capolavoro, scappare o piangere.

    Nella serie South Park il film è stato parodiato come HUMANCENTiPAD. Nel loro caso, la colpa da pagare è quella di aver cliccato “Accetto” sulle rinnovate condizioni d’uso di Apple. Se non altro, Trey Parker e Matt Stone hanno dato una motivazione.

    Il film horror sul millepiedi umano si presta ad un’analisi sociologica non da poco. Forse

    Nel 2009, il regista Tom Six ha pubblicato The Human Centipede: First Sequence che è stato un appello per i fan del genere solo per il suo concetto. Apparentemente, il film era basato su un’affermazione ironicamente feroce secondo cui ogni molestatore di bambini dovrebbe essere punito in questo modo. La trama ruota attorno a uno scienziato tedesco pazzo che vuole costruire un millepiedi umano unendo diverse persone insieme dalla bocca al fondoschiena.

    Il tutto è stato pubblicizzato con lo slogan “100% medicalmente accurato” che è stato (presumibilmente) confermato da un chirurgo che era presente durante le riprese del film. Ciò che è stato davvero sorprendente è stato il fatto che il Dr. Heiter si comporta in modo così serio e che il film non è poi così spettacolare – il valore dello shock deriva dal perturbante, a nostro parere (la storia è talmente assurda che potrebbe essere vera, anche se poi ovviamente non lo è) dalla recitazione psicotica di Dieter Laser. È un pezzo di cinema disgustoso relativamente intelligente che è stato in grado di schivare, almeno per gran parte, qualsiasi accusa di horror pornografia o, come andava di moda scrivere anni fa, “torture porn”.

    La storia

    All’inizio ci sono le due classiche studente americane in cerca di avventure, ridono e parlano spensieratamente, e non sanno quello che le aspetta. Incontrano così l’orco di turno, Josef (nomen omen), che prevedibilmente le narcotizza per poi legarle ad un letto d’ospedale. Ma non è il sesso, ciò che vuole Josef: vuole creare un singolare esperimento bio-tecnologico in cui le ragazze saranno parte integrante. Un centipede umano sarebbe come un millepiedi composto da almeno tre persone, legate tra di loro con punti chirurgici e in corrispondenza del didietro e della bocca. Non riusciamo a dirlo meglio di così: è una metafora. Di quelle potenti, qualcuno dirà è un po’ trash, certo che lo è, ma è una metafora trash in effetti. La metafora del mondo trash in cui ci tocca vivere, in fin dei conti.

    Lo scopo di Josef – cattivo raggelante nonchè, ci passiate l’azzardo, unico nel suo genere – non è tanto quello di costringere i malcapitati a praticare la coprofagia l’uno dell’altro: è quello di creare nuova vita, come un novello dottor Frankenstein. Con un feticismo così particolare, del resto, non è impossibile pensare ad un’interpretazione socio-psicologica del mondo in cui viviamo. Un mondo in cui un inquietante Grande Altro ha finito per legarci l’uno a l’alto, rendendoci interdipendenti e costringendoci a collaborare tra di noi. Ma nel mondo in cui viviamo è difficile collaborare, per cui il nostro Io si trova costretto a collaborare alla meno peggio.

    Ci convince, e vorremmo lasciare questa suggestione a chiunque abbia visto il film, comunque ne sia rimasto: disgustato, offeso, raccapricciato, colpito e via dicendo.

    Il film è stato presentato in anteprima al London FrightFest Film Festival il 30 agosto 2009. Ha ricevuto un’uscita nelle sale limitata negli Stati Uniti il 30 aprile 2010. Nonostante un’accoglienza di critica mista, il film ha vinto numerosi riconoscimenti ai festival cinematografici internazionali. Due sequel anch’essi scritti e diretti da Six, Full Sequence e Final Sequence, sono stati rilasciati rispettivamente nel 2011 e nel 2015. L’intera trilogia è stata combinata in un unico film nel 2016, intitolato Complete Sequence, che Six ha descritto come un “millepiedi del film” a causa del fatto che ogni sequenza porta al suo successore mentre lavorava contemporaneamente come film autonomo separato.

  • Dillinger è morto: tra sociologia, autorialità e politica

    Dillinger è morto: tra sociologia, autorialità e politica

    Un uomo torna a casa ed inizia a prepararsi la cena: cercando gli ingredienti trova una vecchia pistola arrugginita, che inizia a ripulire e rimontare con cura.

    In breve. Sintetico, enigmatico, semplice nell’impianto quanto ricco di simbolismi e metafore. Una delle espressioni forse più significative di cinema d’autore italiano, in cui succede molto meno di quanto la durata suggerisca ed in cui, soprattutto, ci si concentra sui messaggi socio-politici da lanciare allo spettatore.

    Distribuito per la prima volta al Modern Museum of Art di New York nel 1970, Dillinger è morto è un’opera complessa da analizzare quando semplice nel suo svolgimento: si racconta la serata-tipo di un designer industriale – elegante raffinato ed amante dell’arte – e del suo rapporto con le donne. Un rapporto che, dopo aver visto il film, sembra vivere di pura contemplazione e di assenza quasi totale di contatto fisico con le stesse. All’epoca si parlò di vera e propria political art, visto che l’intero film sembra essere una metafora della società moderna, della schiavitù e del senso di oppressione che induce sugli individui. All’inizio, infatti, vengono apertamente citate le teorie di Herbert Marcuse, a cui il protagonista sembra essere interessato (le maschere antigas come filtro dell’individuo dai veleni moderni, le quali pero’ inducono, come effetto collaterale, ad una macabra omologazione).

    Durante il film, in momenti imprecisabili, sembra avvenire una vera e propria regressione infantile di Glauco, che inizia a giocare con i piccoli dettagli della sua casa (gli oggetti che trova nel cassetto, i pezzi della pistola trattati come fossero ingredienti della sua cena, le immagini proiettate delle donne con cui presumibilmente ha avuto una relazione): il tutto mentre la compagna sussurra pochissime parole, per poi cadere in un sonno profondo. Non finisce qui: arriva anche la domestica di Glauco, con cui sembrerebbe avere una relazione fredda e formale – che poi, inaspettatamente, si consuma in un gioco erotico voyeuristico quanto fiacco (la sequenza con il miele spalmato sul corpo della donna). Nel mentre, Glauco prepara meticolosamente la propria cena e, cercando gli ingredienti, si imbatte in una vecchia pistola incartata in un quotidiano che annuncia in prima pagina la morte del gangster Dillinger.

    Ad una prima analisi, trattandosi di un lavoro complesso (per non dire enigmatico), si potrebbe affermare che Dillinger è morto fu un film disposto più ai pareri favorevoli della critica che ai gusti del pubblico. Critica che, ad oggi, a differenza al passato, probabilmente finirebbe per stroncarlo senza appello, data la pesante presenza di metafore di natura artistico e letteraria, quasi sempre difficili da decifrare quanto emblematiche (ad esempio il protagonista ammicca ad un quadro futurista poco prima di sparare alla moglie).

    Del resto Ferreri (noto soprattutto per la regia del cult La grande abbuffata) possedeva questa natura provocatoria, intellettuale e controcorrente, che lo rendevano non propenso a farsi amare incondizionatamente da chiunque. Il tutto grazie alle sue trame claustrofobiche, rallentate e fortemente teatrali (si indugia sui gesti degli attori molto più di quanto avverrebbe nel cinema espressionista, per intenderci) ed in cui è facile, ancora oggi, smarrire il focus durante la visione. Nonostante questo, il film presenta un aspetto pregevole ed è recitato con grande intensità – soprattutto da Piccoli, abile nel rendere il proprio personaggio indecifrabile, affascinante ma anche inquietante.

    Se si volesse trovare un difetto nel film, osannato come capolavoro un po’ da chiunque (col sospetto che questi ultimi abbiano semplicemente la presunzione di averlo capito), diremmo che certi passaggi rischiano di essere poco comprensibili – per non parlare di una potenziale autoindulgenza del regista (un rischio inevitabile, per resto, quando si girano film sperimentali). Questo avviene soprattutto del finale, in cui il protagonista salpa per Haiti facendosi accettare come cuoco dalla proprietaria dello yacht (Carole André): probabilmente a simbolo di un’avvenuta fuga dalla gabbia in cui si trovava.

    Come in un saggio filosofico o sociologico, il regista (autore anche di soggetto e sceneggiatura, in questa sede) firma un’opera in cui volutamente non succede quasi nulla, per mostrare la decadenza e l’impotenza di un borghese medio che si ritrova, suo malgrado, perso in mille giochi futili: una preparazione interminabile della cena, l’osservazione passiva di corpi femminili con i quali non sa, non può o non riesce ad interagire più di tanto, il montaggio ossessivo e paziente di una vecchia pistola (una Bodeo modello 1889 di tipo A), la visione compulsiva di filmini amatoriali (forse delle proprie vacanze in Spagna) e di bizzarri giochi mimici con le mani (curati dall’artista dell’animazione Maria Perego, nota per aver inventato assieme al marito Federico Caldura il personaggio di Topo Gigio).

    Da notare, poi, l’insistenza delle riprese sul colore rosso: il protagonista indossa un camice da cucina di questo colore, la corrida a cui assiste nel filmino è nota per il telo rosso, c’è anche il rosso su cui virano i fotogrammi nel finale, senza dimenticare l’onnipresente pistola che viene colorata con vernice rossa a pois bianchi. Del resto, nella vera storia del gangster Dillinger, la donna che contribuì a farlo trovare (Ana Cumpănaș) fu nota come Woman in red, un nome scelto dalla polizia americana perchè fosse facile da distinguere grazie al colore del vestito. È facile immaginare che, per la critica dell’epoca, questa ossessiva ripetizione cromatica si prestasse ad interpretazioni prettamente politiche quanto prevedibili (il film è uscito un anno dopo il ’68), e sulle quali il pubblico trovasse (si spera!) spunti di riflessione.
    La moglie di Glauco è interpretata dall’ex groupie dei Rolling Stones Anita Pallenberg, interprete di molti altri film del periodo e nota soprattutto per la sua relazione con Keith Richards. Il film è disponibile in DVD Criterion e in streaming su RaiPlay.
  • Abducted in Plain Sight racconta di un insospettabile vicino di casa che rapisce una ragazzina

    Abducted in Plain Sight racconta di un insospettabile vicino di casa che rapisce una ragazzina

    La vera storia della famiglia Brobergs, una famiglia dell’Idaho che per anni non si accorse di aver dato fiducia e fatto avvicinare alle figlie un insospettabile sociopatico con tendenze pedofile.

    In breve. Un documentario inquietante su una delle storie più incredibili capitate negli USA anni ’70: il duplice rapimento dell’attrice Joan Broberg Felt, all’epoca ragazzina, da parte di un insospettabile vicino di casa. La vittima viene anche intervistata assieme ai genitori, che forniscono dettagli reali (ed incredibili) sulla vicenda.

    Il peggior incubo di qualsiasi genitore è la tagline che accompagna il documentario Netflix, girato con stile vivido da true crime e tratto da fatti realmente accaduti. La storia, in effetti, ha dell’incredibile: si parla del duplice rapimento, a 12 e 14 anni, dell’attrice americana Jan Broberg Felt da parte dell’amico di famiglia Robert Berchtold, vicino di casa e membro della medesima comunità locale  della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni.

    Abducted in Plain Sight è uscito nel 2017 ed è appena arrivato su Netflix anche per l’Italia: con un titolo che evoca la exploitation anni ’70 (ed il paragone è tutt’altro che gratuito, dati gli argomenti trattati), il regista Borgman costruisce una storia dai tratti realistici ed inquietanti, con una disinvoltura considerevole nel rendere dettagli e per una storia, per quanto surreale, che sembra tratta dalle vite di chiunque. Che non implica solo abusi e rapimento di una minorenne, ma racconta soprattutto le successive conseguenze sulla vita della ragazza in seguito. In seguito al brainwash subito, Jan cresce traumatizzata ma difendendo il proprio aguzzino, arrivando a farsi rapire una seconda volta, questa volta sotto falso nome e raccontando che Berchtold fosse un agente della CIA.

    La voce proveniva da un piccolo interfono, ero legata al letto… pensavo di essere stata rapita dagli alieni.

    In effetti all’inizio non si capisce se si tratti di vere immagini di repertorio o di ricostruzioni, cosa che diventa più chiara nel seguito (in realtà è un mix delle due cose): ma poco importa, perchè l’attenzione dello spettatore è catturata, seppur con la lentezza tipica di questo genere di documentari, che hanno la tendenza ad allungare un po’ troppo le fasi del racconto, in alcuni momenti. Questo comunque aiuta a creare un effetto da mockumentary, con la differenza considerevole che la storia è reale – e soprattutto che le vere vittime vengono intervistate durante lo svolgimento della stessa. Soprattutto, se si volesse evidenziare un difetto del film, bisognerebbe notare che alcuni dettagli non sembrino troppo consequenziali, nonostante la storia sia narrata con dovizia di particolari e scatenando l’effetto traumatico di pellicole analoghe su questi argomenti, come ad esempio Mysterious Skin (in cui gli UFO sono analogamente simbolo di un trauma regresso) oppure (in tema di abusi da persone vicine a noi) Strange Circus.

    Vittime che, per inciso, non risparmiano dettagli terrificanti: gli abusi da parte del rapitore pedofilo, che per arrivare alla piccola Jan, prima ne seduce la madre e poi abusa sessualmente del padre di lei, senza che la cosa induca un minimo sospetto in seguito, almeno fino alle indagini affidate all’FBI. È anche presente più di una dichiarazione dell’ufficiale di polizia che seguì il caso, che all’epoca non aveva neanche la corretta percezione del fenomeno – perchè probabilmente, nella piccola provincia USA dell’Idaho, non era pensabile che potesse succedere un fatto del genere.

    Per ben due volte, peraltro, e passando per personaggi ambigui ed inquietanti quali finti psicologi, e ne fuoriesce un’immagine del crudele protagonista subdola, manipolatrice, perversa e attento ai minimi dettagli, oltre decisamente scaltra ed in grado, ogni volta, di farsi ridurre la pena (morì suicida per non scontare la terza condanna). In grado di architettare, fin dall’inizio, un modo pazzesco per darsi credito: far credere alla giovane vittima di essere stati rapiti dagli alieni, e di doversi unire a lui come unica possibilità per salvarsi.

    L’ingenuità della ragazzina, derivante anche dall’educazione ricevuta in famiglia e dall’ambiente di provincia, non le permise tragicamente di sospettare nulla, almeno all’epoca dei fatti, fino alla liberazione da parte della polizia messicana e dopo un secondo rapimento, questa volta degno di una spy story. Senza timore di cadere negli stereotipi, a questo punto, potremmo dire che nel caso di Rapita alla luce del sole la realtà aveva abbattuto qualsiasi imprevedibile trama da fiction.

    Un ritratto forse impietoso dell’America dell’epoca, senza dubbio, che restituisce un’immagine ingenua delle vittime che fa scalpore, probabilmente più come effetto indiretto che come autentico sensazionalismo. Sicuramente da vedere.