FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Secret Window: l’indimenticabile horror psicologico di D. Koepp

    Secret Window: l’indimenticabile horror psicologico di D. Koepp

    Uno scrittore horror (Mort Rainey) divorzia dalla consorte, e si chiude in una baita sperduta assieme al proprio cane: immerso in una vita disordinata e caotica, è incapace di riempire una sola pagina e passa le sue giornate nella depressione più acuta. Una mattina si presenta alla sua porta il singolare John Shooter, villano del Mississipi, che sostiene energicamente di essere stato vittima di plagio da parte di Mort. Incredibilmente lo scritto che gli viene consegnato somiglia ad un racconto pubblicato dallo scrittore diversi anni prima…

    In due parole. Buon film, dai toni misteriosi e molto psicologici, che forse ricorderà agli spettatori qualcosa di già visto o già letto altrove (ad esempio il racconto di King da cui è tratto). La dinamica funziona alla grande, ed il film si difende dignitosamente con buone interpretazioni e ottima regia. Da vedere anche adesso, perchè prodotto attuale e molto focalizzato sul tema: in altre parole adatto a chi voglia vedere un buon thriller senza dover per forza “scavare” negli anni settanta/ottanta, e senza scomodare eccessiva violenza.

    Qualcuno insiste che le storie di King siano sempre la stessa solfa da trent’anni, e – per quanto consideri miope questa visione – resta il fatto che 1) si tratta di uno degli scrittori fantastici più prolifici in assoluto (assieme, credo, al “collega” Clive Barker) 2) abbiamo di fronte uno degli autori più “filmabili”, tanto che mostri sacri come Kubrick, De Palma e Cronenberg si sono cimentati nella rappresentazione dei suoi libri o racconti. Secret Window è tratto dalla raccolta di racconti “Quattro dopo mezzanotte”, precisamente “Finestra segreta, giardino segreto”, e mette in scena un thriller dai toni ambigui ambientato in una cittadina apparentemente tranquilla. Efficacissimo, a mio parere, il contrasto tra la solitudine delirante e disordinata di Mort (Johnny Depp) e la vita cittadina e ordinaria di Amy (Maria Bello), capace di sfociare in una trama dalle circostanze, in qualche modo, del tutto inaspettate. Non dico di più per evitare irritanti anticipazioni di troppo: guardate questo film anche se non siete propensi per l’horror perchè, nei limiti, dovrebbe rispondere a varie fasce di pubblico e di preferenze.

    King, per la verità, non è mai stato troppo d’accordo sulla rappresentazione selvaggia delle sue opere, e proprio per questo un confronto letterario-cinematografico (come ho scritto già per Lovecraft, del resto) rischia di perdere qualsiasi senso: cosa che, peraltro, sono impossibilitato a fare dato che non ho presente “Quattro dopo mezzanotte“, che per puro caso non ha (ancora) un posto nella mia libreria. Resta il fatto che Koepp ci ha saputo fare ed ha confezionato un thriller forse fin troppo classico, piuttosto simile stilisticamente a Nascosto nel buio, con qualche piccola licenza “poetica” e molto godibile. Fate inoltre attenzione alla frase che trascina l’intero film, quella incentrata sul senso di ogni storia che si racchiude, come ho sempre pensato anch’io, nel finale della stessa: quello di “Secret Window” è, a mio parere, tra i meglio riusciti degli ultimi anni.

  • L’horror girato come uno snuff: August Underground’s Mordum

    August underground’s Mordum è il secondo capitolo della serie di August underground e secondo alcuni è considerato il più inquietante della saga. Sì, perchè esiste una saga horror USA (distribuita dalla Toetag Pictures) di nome August underground che magnifica le gesta di un killer (interpretato dal regista Fred Vogel) di nome Peter, ponendo le basi ideali dal punto di vista narrativo per film successivi (altrettanto controversi) come The last horror movie, S&Man e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

    Si presenta come un filmato amatoriale a tutti gli effetti, girato dai (finti) serial killer Peter Mountain, la fidanzata Crusty e il fratello Maggot. Sono i presupposti della famiglia perversa su cui si basa anche Non aprite quella porta, in effetti, e parte di quel mood sporco quanto amatoriale viene a ritrovarsi in questa sede. La prima sequenza è già emblematica: Peter si imbatte in Crusty che lo tradisce con Maggot, e scoppia una lite feroce. In seguito inizierà un delirio di omicidi e sadiche torture che non potrà che concludersi con una nichilistica conclusione.

    La visione composta è volutamente compromessa da una telecamera traballante (si tratta di un finto snuff a tutti gli effetti, e anche uno dei più famosi e citati), dal fatto che il protagonista urla ossessivamente la parola fuck, ma è ancora più interessante notare come, visto oggi, un film del genere possa evocare un reality show di oggi particolarmente infimo e pieno di protagonisti isterici e/o urlanti, tanto da conferire al film (mai considerato esattamente nell’olimpo dei capolavori del genere, ovviamente) quantomeno dei tratti sociologicamente coerenti o più grotteschi di quando il film uscì.

    Contestualizzando, era uno di quei film rivolti ad un certo pubblico “adulto e vaccinato”, che aveva visto almeno Cannibal Holocaust, e che cercava singolari strane emozioni da un horror, con lo spirito con cui (mi viene da scrivere) si fanno le ricerche più strane ogni notte su Pornhub. Un horror che si sforzava ad essere massimamente realistico, mostrando, senza filtro e senza evitare alcun dettaglio, protagonisti fuori di testa. Di più: August Underground Modrum era uno di quei film a cui devi credere per forza, nonostante sapessi del finto snuff, questo per dare un senso alla visione, e che rappresenta forse una delle esperienze più spaventose mai ingenerate da un film (almeno per l’epoca, siamo nel 2003).

    Tra killer omofobi, atti autolesionisti e feticistiche perversioni sessuali di ogni genere, August Underground Modrum è un unicum che forse, oggi, non dovrebbe più vedere nessuno (non si avverte realmente la necessità di farlo, a ben vedere), e che dovrebbe rimanere lì, nascosto, nella collezione segreta dei filmati non raccontabili che in molti custodiscono su dischi rigidi criptati con su scritto (magari) “Backup vari”.

    Ecco alcuni video correlati al film.

  • The Green Inferno: l’horror più politico di Eli Roth

    Un gruppo di attivisti parte per il Perù, al fine di fermare le ruspe di una società che vuole radere al suolo parte della foresta e proteggere la tribù del posto: l’azione sembra riuscire, ma l’imprevisto è in agguato…

    In breve. Horror ispirato e di buona fattura. Da Eli Roth normalmente escono fuori film che si apprezzano di più se si conoscono le fonti di ispirazione classiche: diversamente, passa un’idea di “cosa” poco conto, ed in questo particolare contesto, dato il richiamo ad un sottogenere come quello cannibalico, non può che essere così. The Green Inferno merita appieno la visione, e non è banale nel suo concepimento nonostante qualche apparenza contraria, e soprattutto per il finale.

    The Green Inferno di Eli Roth ha segnato il ritorno al cinema del regista americano, noto ai più per il primo Hostel (2005), un fake trailer di Grindhouse (2007) ed il meno noto (ma non trascurabile) Cabin Fever (2002). The Green Inferno è uscito nelle sale due anni dopo la sua uscita, per inciso, per via di vari problemi distribuitivi.

    The Green Inferno è un horror, più precisamente appartiene ad un sottogenere molto ben delineato negli anni ’70: la tradizione cannibal (Deodato ne fu un po’ il padre fondatore), e Roth modernizza e rielabora quegli stessi canoni, sia a livello narrativo che concettuale, al netto di qualche “licenza poetica” niente male. Di fatto, la violenza dei cannibal è vivida, realistica, fuori norma rispetto a quello che si vede anche nell’horror più truce e scorretto: in certi momenti, qui, sembra di assistere ad un documentario in HD per quanto è esplicito, per quanto manchino gli eccessi snuff (sugli animali) che hanno reso celebre, nel bene o nel male, altre pellicole del genere in passato.

    Nonostante questi presupposti inquietanti, The Green Inferno riesce a non essere troppo pesante, tantomeno fuori luogo (il rischio era altissimo, data la particolare venatura del sottogenere di riferimento) o privo di ritmo (come a volte accadeva anche nei cult del passato). Lo sbadiglio è prevenuto dal nuovo, onnipresente, colpo di scena, e questo è già importante di suo. Roth non delude, Lorenza Izzo (Justine) fornisce una buona interpretazione, c’è in generale un’accattivante (per quanto vagamente stereotipata) caratterizzazione dei personaggi. Non manca un certo tocco grottesco (che molti hanno frainteso come trash) che caratterizza tutta la filmografia del regista di Hostel. Intuizione molto attuale, ed in linea con l’oggi, peraltro, il riferimento drammatico alla pratica dell’infibulazione, e la presenza di una vegana dichiarata tra gli attivisti, il che creerà un bel po’ di “dilemmi morali” (dato che si parla di cannibalismo).

    Roth sembra avere le idee chiare sul tipo di film da girare, mostrando di conoscerne appieno i canoni; parte da Cannibal Holocaust (1980) e lo ristruttura con elementi politici (la critica alla politica militante in certe accezioni è sostanziale), ambientandolo ai giorni d’oggi e inserendo idee fresche e innovative.

    Per farlo, ha avuto bisogno di recarsi nella foresta amazzonica, e non solo: per risolvere il problema di far recitare degli indigeni che non avevano idea di cosa volesse dire farlo – e prima che venga un colpo a qualcuno, è bene specificare che non esiste alcuna tribù cannibale da quelle parti – gli ha proposto (suggerisce IMDB) la visione proprio della celebre pellicola di Deodato, in modo che avessero idea di che cosa avrebbero dovuto fare. Un modo originale che è risultato tremendamente efficace, soprattutto per i due “capi” (l’indigeno truccato della copertina, e naturalmente l’inquietante sciamana), mentre in più occasioni l’orda cannibale sembra evocare quella dei feroci non-morti di Romero e compagnia (vi risparmio i parallelismi ovvi del caso). Tra l’altro, un curioso aneddoto racconta della tribù che vive realmente da quelle parti, la quale a fine riprese avrebbe offerto un bambino di due anni come “regalo d’addio” alla troupe, se servisse dirlo, non accettato.

    Del resto – e questo è sfuggito clamorosamente, secondo me, a molti recensori – Roth non vuole osannare banalmente la tribù come espressione del “buono” e l’uomo occidentale come “cattivo”: anzi, si guarda bene dal farlo. Forse sarebbe bene liberarsi delle contrapposizioni da social network, o da analoghe polarizzazioni, perchè The Green Inferno è ricco di sfumature non scontate e poco marketizzabili. Mescola le carte proprio per togliere qualsiasi punto di riferimento, al fine di esprimere la medesima disillusione che guidò Deodato nel suo film misto 16/32 mm, circa 35 anni fa. Al posto dei giornalisti a caccia di scoop facili, stavolta, c’è la pluri-osannata informazione del “popolo del web”, il citizien journalism (forse più in voga negli USA che da noi), il totem del pensiero progressista; ma anche strumento improprio, il web, con cui si diffondono messe in scena e bufale da parte di personaggi senza scrupoli.

    Gli attivisti che usano cellulari connessi ad internet come “armi”, suggerisce il regista (che ha anche scritto il soggetto), finiscono per specchiare tristemente una propria auto-referenziale vanità, con la quale si limitano a lavarsi la coscienza mediante slogan politici o indossando magliette del proprio guru. Il ritratto degli attivisti, volutamente imbarazzante per certi versi, serve a mostrare allo spettatore da dove arrivino le vittime, al fine di massimizzare il contrasto con la seconda parte del film.

    Da un alto, quindi, abbiamo degli attivisti intenzionati a fermare la devastazione delle ruspe, animati da ottime intenzioni (che saranno in massima parte deluse): dall’altro i cannibali, che mostrano poca o nessuna comprensione per i propri “liberatori” i quali, a quel punto, non avranno modo di far capire la propria buonafede. Eli Roth ci tiene a mostrare le massime efferatezze, lo fa con lo stile e la credibilità visiva che conosciamo, e realizza essenzialmente un film molto politico (alla Romero o Carpenter, per intenderci), più politico anche di Cannibal Holocaust (che certo non scherzava, per l’epoca), in cui – mutatis mutandis  – ne fuoriescono disillusione e nichilismo.

    Gli indigeni, ripresi per la prima volta in una pellicola, ben figurano in un film del genere, ed in numerose sequenze sono suggestivi e spaventosi come poche volte (o da troppo tempo) si era visto al cinema. Molte sequenze sembrano prese pari-pari da Cannibal Ferox e dal pluri-citato Cannibal Holocaust, addirittura la fisionomia e le azioni di certi attori evocano quelle dei precedenti interpreti e situazioni.

    Si vorrebbe quindi far passare una certa critica ai movimenti no global, accusati di scarsa efficacia, di fare politica solo per capriccio o senso di colpa, e di accettare un idealismo cieco, quando non del tutto opportunista (le figure dell’indecisa Justine e dell’ambiguo Alejandro, paragonabile all’idolatrato Cuervo Jones di Fuga da Los Angeles, la dicono lunga in merito). Le medesime figure di attivisti, il cui “capo” mostrerà solo in seguito la propria natura, saranno vittime designate della tribù, in una sorta di vendetta rituale vera e propria. Il messaggio è quasi ovvio: devastiamo il mondo con la presunta civiltà, ci affidiamo a parti politiche ipocrite ed anticonformiste solo di facciata, la natura ce la farà pagare.

    Dipende dallo spettatore, a quel punto: se apprezzate escursioni ideologiche del genere, tanto di cappello – amerete quasi certamente The Green Inferno, criticandone al più una certa estetica che non è vintage e, a confronto col passato, non sempre spaventa come dovrebbe (è molto relativo, mi rendo conto: per parecchi di noi, l’idea dei cannibali è da relegare alle vignette dei giornalini). Se non digerite questo tipo di horror brutali con tanto concetto dietro, vi conviene restare lontani, lontanissimi dalle sale (e dai DVD che usciranno), perchè alla fine prevarrebbero le solite critiche di “pesantezza”, nonchè la discussione eterna se un horror abbia o meno gli strumenti semantici (parolone) per mandare messaggi del genere (risposta breve: li ha sempre avuti, ma questo mi permetto di pensarlo personalmente).

    Non abbiamo bisogno di parlare di questo, in fondo: abbiamo bisogno di buoni horror, e secondo me Roth ne ha fatto uno niente male.

  • Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

    La vacanza di una famiglia americana viene bruscamente interrotta dalla presenza di alcuni estranei: sembrerebbe la più classica home invasion, ma si tratta di veri e propri “gemelli cattivi“.

    In breve. Horror diretto e coinvolgente, privo degli eccessi che – in questi casi – li caratterizzano, interpretato e diretto con grande stile. Alla base del soggetto varie suggestioni tratte dal meglio del genere horror e slasher.

    Scritto e diretto da Jordan Peele (noto per l’esordio Scappa – Get Out, un horror satirico ispirato al primo Romero), Noi è un film dalle svariate suggestioni, dotato anche di una buona dose di equilibrio: a differenza della media dei casi, infatti, riesce a bilanciare diverse componenti, senza mai appesantire la visione. Si prende spunto dagli stereotipi classici da thriller/horror, che poi vengono declinate con modalità slasher (o multi-slasher, dato che ogni personaggio ha il proprio antagonista). Tanto che, prima di iniziare le riprese, Peele distribuì una lista di undici horror al cast, in modo da disporre di un linguaggio condiviso ed una serie di punti comuni di riferimento. Un focus che nel film si evidenzia con una certa lucidità, e che attraversa Gli uccelli, Lo squalo, Shining, Babadook, passando per It Follows, Martyrs, Il sesto senso, Lasciami entrare e così via.

    Il film è, come nella tradizione carpenteriana, ripreso da continui ed insistenti simbolismi, spesso di natura biblica (Geremia 11:11: Perciò, così parla il SIGNORE: “Ecco, io faccio venir su di loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”) ma anche spudoratamente cinefila: Jason, ad esempio, è uno dei giovani protagonisti ed è un chiaro riferimento al cult Venerdì 13 (molte scene sono girate su un lago), e anche la continua comparsa della t-shirt di Thriller di Michael Jackson sembra avere più di una motivazione simbolica.

    Se all’inizio Noi non evoca suggestioni coinvolgenti – e anzi rischia di sembrare stereotipato o “già visto” – basta attendere i primi twist della pellicola per cambiare radicalmente idea: l’horror di Peele non solo è ben realizzato, ma è anche caratterizzato da una gradevole venatura di humour nero (il regista è anche un comico ed un produttore, per inciso, e la sequenza dell’aggressione a due personaggi con dispositivo simil-Alexa a supporto è, in ogni senso, magistrale). Il sarcasmo, del resto, aiuta a superare un problema (o almeno, ciò che potrebbe rivelarsi tale per alcuni spettatori) che affligge questo sottogenere fin dalle prime uscite, ovvero l’abuso del senso di sospensione (il piano sequenza disperato, drammatico e interminabile in Funny Games) e la facile degenerazione in sequenze inutilmente exploitation o torture porn (una tentazione a cui pochi registi, trattando questo genere, hanno saputo resistere). Peele fa la differenza: non solo ribalta l’assunto narrativo, mostrando dei protagonisti afro-americani e relegando agli attori bianchi un ruolo secondario, ma riesce a bilanciare ogni componente dell’intreccio, senza abusare del comico (il che avrebbe reso ridicolo o poco credibile il risultato) nè eccedere nella violenza (che in Us ovviamente c’è, ma è sempre funzionale alla storia).

    Dopo averci suggestionato con una sequenza chiave, quasi onirica –  che sembra citare Il tunnel dell’orrore, siamo proiettati in una dimensione nuova: una famigliola in vacanza in preda ai consueti alti e bassi (Adelaide, la madre, è la ragazzina dell’episodio visto all’inizio, ed è tormentata da un trauma infantile: si era persa in un labirinto di specchi deformanti, ha smesso di parlare ed è convinta di aver incontrario una propria gemella). Il tormento viene brutalmente interrotto da un problema nuovo: quattro estranei, sinistri e perfettamente immobili, si sono posizionati di notte all’esterno della loro casa, minacciando di entrarvi. Qui il riferimento più evidente sembra essere a film come You’re the next, ma bisognerebbe citare, come minimo, anche l’attitudine dei ragazzi di Funny Games. L’atmosfera diventa più rarefatta e sinistra, l’aggressività degli estranei sembra poco giustificabile ma, soprattutto, notiamo una particolare ritualità nei loro gesti. Proprio in questa teatralità mimica, in effetti, che caratterizzerà i villain con una particolarissima forma di coreografia, risiede uno dei punti di forza del film di Peele, unita alla particolare forma di disfonia di cui soffre il “doppio” del personaggio interpretato da Lupita Nyong.

    Una famiglia contro i rispettivi “gemelli cattivi”: un’idea semplice, funzionale quanto originale nelle conseguenze. Se l’impianto generale potrebbe essere tratto da un episodio de Ai confini della realtà (e in effetti esiste un episodio di una serie di fantascienza anni ’60, Lost in Space, dal nome The anti matter man, il quale racconta del viaggio dei due protagonisti in un mondo parallelo, in cui dovranno fronteggiare i rispettivi doppelgänger), concettualmente Peele si ispira anche all’horror alla Romero, in un modo che diventerà particolarmente evidente nella seconda metà del film. E se la sua conoscenza del genere (e relativa attitudine) è autentica, originale e più che degna di nota, bisognerebbe citare almeno un ulteriore film che potrebbe averlo ispirato, ovvero il cult Doppia immagine nello spazio – Doppelganger.

    Se il film riprende e rielabora i più classici stereotipi del genere, quindi, va anche specificato che lo svolgimento della trama si basa anche sul mito della caverna, di cui scrisse Platone nell’opera filosofica La repubblica. Insomma quello di Peele è un horror autoriale, compatto e credibile, sostanzialmente privo di difetti e con tanto di doppio finale: una piccola perla di cui il genere, ad oggi, sembra avere un bisogno vitale.

  • Road to L.: il mockumentary sul presunto viaggio in Italia dello scrittore di Providence H. P. Lovecraft

    1999: un giornalista trova un antico manoscritto su una bancarella a Montecatini, luogo in cui visse Alfred Galpin, storico amico e corrispondente di H. P. Lovecraft. All’interno di quello che si svela un diario viene descritto un viaggio in Italia del celebre autore americano: che avrebbe visitato Venezia e molti altri luoghi non immediati da decifrare, tra cui la misteriosa L. (nota solo per l’iniziale del nome, come molti altri riferimenti a luoghi e persone).

    In breve. Un falso documentario che indaga sul potere della suggestione, mescolando tesi alternative con presenza di alieni. Interessante soprattutto per i fan dello scrittore, al netto di un finale dal climax leggermente fiacco.

    Road to L. è ambientato nel 2004 e teorizza la possibilità di un viaggio di H. P. Lovecraft in Italia: aspetto che smentirebbe ciò che sappiamo ad oggi sullo scrittore, che ufficialmente non avrebbe mai avuto i mezzi per permetterselo e non si sarebbe mai mosso dagli Stati Uniti. Il film (vincitore di un Méliès d’argento al Fantafestival 2005) viene presentato come fosse il backstage di un corto, presentato al Festival di Venezia nel 2004, dal titolo H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia. Per completezza documentale li ho appena (ri)visti entrambi, anche perchè i dettagli da raccontare sono tanti, e volevo compensare il senso di sostanziale incompiutezza, quello che ricordavo di aver avuto dopo averlo già visto qualche tempo fa.

    Andiamo, pertanto, per ordine.

    H.P. Lovecraft – Ipotesi di un viaggio in Italia

    Sul corto diciamo subito che è una specie di “seminario” del lungometraggio in questione: si trova anche su Youtube, e racconta in meno di mezz’ora, con stile documentaristico ed alcune interviste, del ritrovamento di un manoscritto inedito che potrebbe essere stato concepito dalla mano dell’autore. Un documento dall’immenso valore che, di fatto, cambierebbe non solo la prospettiva, ma anche la biografia dell’autore: Lovecraft sarebbe stato in visita in Italia, passando prima per la Biblioteca Marciana di Venezia, per poi avventurarsi in zona Delta del Po. Cercava ispirazione per i racconti che avrebbe scritto di lì a poco (in realtà questa affermazione è in parte inconsistente, dato che alcune cose le aveva già concepite rispetto al 1926, anno chiave per la narrazione), e il documentario prova ad immaginare cosa sarebbe successo, soprattutto che cosa abbia visto il solitario di Providence.

    Ovviamente – è il caso di specificarlo – le ipotesi in questione sono pura fiction, perchè il falso documentario fa sostanzialmente questo – pur cercando la verosimiglianza, ed è altrettanto vero che in questi casi produzione e regia giocano sulla più classica sospensione dell’incredulità. Questo corto di neanche mezz’ora fa proprio questo: imporre una narrativa “alternativa”, provare a seminare dubbi, lanciare “sassolini” relativi a circostanze (forse) ambigue. Così facendo l’effetto immediato è di lasciare lo spettatore, specie quello non troppo informato, “affamato” di ulteriori dettagli (ecco perchè ho usato la parola seminario).

    Tutto sommato un discreto finto documentario che, peraltro, strizza continuamente l’occhio all’Altro (inteso come l’oscura congettura), e si avvale della furbesca “consulenza” tra gli altri di Fusco e De Turris, tra i maggiori e più documentati esperti italiani sullo scrittore.

    Contestualizzare Lovecraft (in Italia)

    Sarà stato scritto milioni di volte, ma lo ribadiamo: Lovecraft è stato un punto di riferimento assoluto per letteratura e cinema del terrore (cinema che, stando a quello che sappiamo, non avrebbe neanche amato più di tanto). Lo ha fatto con quello stile unico, fatto di allusioni e uso sapiente di circonlocuzioni orrorifiche, uno stile ricercato e a suo modo altamente innovativo – per quanto certi suoi lavori siano considerati ostici da leggere, e ciò derivi anche, per inciso, da certe traduzioni italiane un po’ grossolane (ne ho una del Miraggio dello sconosciuto di Kadath, di circa 20 anni fa, che è quasi incomprensibile – per usare un eufemismo).

    Lo scrittore di Providence, la città in cui crebbe e passò gran parte della sua vita, fu personaggio schivo e singolarissimo, quanto controverso sia socialmente che politicamente, e fu anche in grado di inventare un genere nuovo, a cavallo tra horror e fantascienza, elevandolo a Letteratura riconosciuta da chiunque. Lovecraft influenzò Stephen King (tra gli altri) ed è anche il “non filmabile” per eccellenza, come il caso di Reanimator ha lasciato ai posteri (non che Yuzna abbia diretto un brutto lavoro: è proprio che c’entra poco con Lovecraft). Per fortuna non mancano le eccezioni a questa – fin troppo citata – “legge” non scritta.

    Anche solo a livello cinematografico, per chi proprio non fosse amante della lettura, film tratti dalle sue opere sono considerati imprescindibili per il genere: penso a Il colore venuto dallo spazio (a chi sarebbe mai venuto in mente di creare un villain immateriale di quel tipo?) o La vergine di Dunvich (orrore epico e tenebroso, che ha fatto scuola), che trasudano paura in senso modernissimo e accattivante, senza contare la trilogia del terrore di Fulci, in particolare Paura nella città dei morti viventi – che è lovecraftiano, per quello che vale, quasi a pieno titolo.

    Un mockumentary del genere, per quanto non sia probabilmente nemmeno l’unico caso al mondo, è comunque un azzardo, anche perchè rischia ciò che tutti temono: che quelle circonlocuzioni tenebrose e allusive diventino iper-splatter oppure, banalmente, non-detto, depotenziandone l’effetto in entrambi i casi. Cosa che in Road to L. non succede, almeno per larga parte, nonostante non tutto il film sia ritmato in modo uniforme, mentre i punti di tensione autentica siano, al massimo, tre in tutto.

    Road to L.

    Già il titolo è piuttosto intrigante, evidentemente concepito per un mercato internazionale: peraltro con un minaccioso gioco di parole all’interno (Road to L suona esattamente come Road to hell, la strada per l’inferno). Calembour a parte, come ogni mockumentary che si rispetti, la storia si basa su un racconto filmato on the road: vediamo in sostanza quello che dovrebbe essere il “dietro le quinte” della realizzazione del cortometraggio di cui sopra, con tanto di tecnici, sceneggiatori e registi all’opera e letteralmente sulle tracce di H. P. Lovecraft. Rileggendo il manoscritto man mano, tecnici e regista ripercorrono le strade che avrebbe fatto l’autore nel suo ipotetico (e mai confermato) viaggio in Italia, utilizzando la tecnica dello pseudobiblion che ha fatto la fortuna, per inciso, del celebre Necronomicon.

    Road to L. risulta sostanzialmente un meta film sull’autore di Providence, dall’ambientazione sinistra nelle più oscure tenebre padane, proposto in forma di mockumentary e rientrante, per questo, in una tradizione controversa di suo. Lo sappiamo bene, ad oggi, che questo genere di lavori è più facile odiarli che amarli: sono film quasi sempre difficili da giudicare per una varietà di ragioni.

    La sua carriera fu la realizzazione dei suoi incubi da bambino.

    Da un lato perchè appaiono troppo scarni, in media, a livello di trama o sceneggiatura, tanto da sembrare improvvisati alla meno peggio (non è questo il caso, peraltro). Dall’altro difficilmente coinvolgono cast di livello, tendono a ricorrere a stilemi fotocopia (il non-detto di cui sopra, un’arma a doppio taglio tra il genio e la noia), mostrano quasi sempre poco o nulla (chi ha visto Blair Witch Project lo sa) e danno la sensazione al pubblico di essersi persi qualcosa per strada (cosa che qui in realtà succede, sia pur parzialmente). A dircela tutta, senza filtro da fan, sono davver pochi i falsi documentari ben realizzati, se si pensa che sono passati quasi sessanta anni dal seminale The war game e che, ad oggi, il genere è consolidato in fin troppe opere dubbie, dal background quasi sempre complottistico / sensazionalista. Road to L. rimane sostanzialmente promosso, come vedremo, con l’unica pecca del finale, che ho trovato confuso, più che ambiguo come voleva sembrare.

    La storia inizia a fine anni ’90, con la storia di uno studente di folklore locale – sì, Road to L. è anche un protofolk horror, molto prima che diventasse di moda parlarne sulla falsariga di The Vvitch: si chiama Andrea, e sta scrivendo una tesi molto suggestiva. Tratta la possibilità che H. P. Lovecraft possa aver preso ispirazione, per i suoi racconti, dai racconti popolari più macabri narrati oralmente sul Delta del Po. Che l’horror possa o debba prendere spunto dal folklore è, del resto, un fatto assodato: basterebbe leggere L’almanacco dell’orrore popolare per capacitarsene. Nel film, pero’, il giovane Andrea è scomparso: sia la madre che la fidanzata non hanno idea di dove possa trovarsi, o se sia vivo o morto. L’unico indizio è la sua auto, trovata aperta nel pressi delle zone di cui parlerebbe Lovecraft nel fantomatico manoscritto, e anche il suo cadavere non si trova da nessuna parte. Questi sono i presupposti, narrati in modo anti-casuale, da cui tra vediamo la troupe del film partire per iniziare a girare il documentario, recandosi prima nella Biblioteca Marciana a Venezia (una delle biblioteche più fornite d’Europa, ci viene detto) e poi, sulle tracce del manoscritto, fino ai più isolati paesini o villaggi sul Delta del Po.

    Il manoscritto di cui si parla è, a ben vedere, una specie di libro proibito, che nessuno dovrebbe leggere, e su cui nessuno dovrebbe tantomeno indagare: sfruttando un classico topos lovecraftiano, la troupe viene accolta con diffidenza dagli abitanti del posto, diffidenza che in alcuni casi diventa vera e propria ostilità. Si narra poi di un antico culto diffuso nella zona del Polesine (nei pressi di Rovigo) in cui alcuni frati (osteggiati al tempo dalla chiesa cattolica) porterebbero avanti un culto segreto: i Fradei (fratelli) di Loreo. È qui che la L. del titolo assume il significato di Loreo, la località del Polesine in cui i protagonisti si recano. L’affermazione del regista “we’re in L.” non andrebbe semplicisticamente tradotta come “siamo a Loreo“, peraltro, bensì a livello inconscio come “siamo all’inferno“. Il culto è segreto, non si può raccontare e – se si prova ad insistere – succederà qualcosa di molto brutto.

    Tra i racconti popolari – un mix di tradizione e paura diffusi, peraltro, praticamente in qualsiasi regione d’Italia – vengono citati i racconti di Filò, narrati di notte attorno al fuoco e a cui la troupe ha il privilegio di poter assistere, accompagnati da una guida del posto. Ma la situazione non può durare: l’equilibrio tra i protagonisti e l’ambiente si spezzerà, saranno respinti da tutti, il documentario rimarrà impatanato sul non detto e, soprattutto, molti elementi diventeranno di vera e proprio minaccia nei loro confronti. C’è tempo anche per una digressione ufologica, peraltro, in cui viene intervistato un esperto in materia che racconta di avvistamenti dell’homo saurus (una via di mezzo aliena tra uomo e anfibio, dagli occhi che sbattono in verticale) in zona, in grado di immergersi nelle acque del Po e avvistato da alcuni abitanti della zona. L’idea non sarebbe male, di per sè, se non fosse che questa narrativa è stata fin troppo annacquata da avvistamenti fake e figuranti vari nella storia dell’ufologia, senza dimenticare figure come quelle di Bob Lazar. Da un certo punto di vista è un twist narrativo non da poco, ma l’effetto generale rischia di risultare fiacco, proprio perchè si fa appello ad una narrativa poco credibile da troppi punti di vista (considerando che la suggestione del film fa decisamente appello alla sospensione di credulità dello spettatore).

    Il finale di Road to L.

    Qui arriva forse la nota dolente definitiva, ovvero il finale del film, costruito su un climax di tensione in cui la fidanzata di Andrea consegna l’ultima videocassetta in cui si vede il suo ragazzo ancora vivo: durante la narrazione di una di quelle storie ancestrali e tenebrose, infatti, una presenza esterna si avvicina al casolare, e quasi certamente il ragazzo ne rimane vittima. Che si tratti di un homo saurus emerso dal fiume è più una suggestione che una certezza, anche perchè il finale è abbastanza povero di dettagli, mostra poco (e male, a dirla tutta) quello che succede, lasciando qualche punto interrogativo non tanto su cosa succederà alla troupe (che quasi certamente seguirà lo stesso destino fatale) quanto su come sia morto il ragazzo, lo stesso di cui si è parlato per la precedente ora e mezza. Questo climax “mancato” aleggia su ciò che temevamo accadesse in un film del genere, ovvero che il famigerato non detto prenda il sopravvento, che poi è la stessa critica che facciamo da sempre ogni volta che rivediamo mockumentary di ogni tipo. L’effetto è un po’ troppo straniante, in effetti, lascia un po’ disorientati ma è anche l’unico vero difetto di Road to L., che comunque si avvale di una storia coinvolgente, di una discreta recitazione e di un paio di picchi di tensione non da poco (sfido chiunque a restare indifferenti durante le perlustrazioni dei sottorranei, con quella presenza misteriosa appena inquadrata – un umanoide, probabilmente – oppure nella visita alla casa abbandonata, giusto mentre la ragazza del regista rimane nel camper a vedere l’inquietante videocassetta).

    Il manoscritto è autentico o no?

    Sulla veridicità del manoscritto, suggestiva per non dire clamorosa (perchè costringerebbe di fatto a riscrivere la biografia dell’autore, e a rileggere la sua produzione in chiave eventualmente rinnovata) non dovremmo neanche discutere, dato che si tratta di un mockumentary, falso per definizione. Il punto è che ad alcuni piace comunque credere cose non dimostrabili, tanto è vero che molta gente continua a cercare il “vero” Necromonicon nelle librerie e nelle biblioteche. Del resto in un mondo in cui un mockumentary sul falso allunaggio (manipolato sul web, ma tant’è) è riuscito a cementificare ipotesi di complotto che tocca smentire o discutere ancora oggi, vale la pena dare uno sguardo all’articolo A ottant’anni dalla morte di H. P. Lovecraft, scritto nel 2017 da Wu Ming 1 con la consueta lucidità. Un articolo ricco di dettagli sulla vita e le opere dello scrittore, oltre che sulla genesi del film e le ulteriori derivazioni della storia (tra cui un fumetto di Martin Mystere).

    Quell’articolo, del resto, sgombra il campo dalle ambiguità sul razzismo dell’autore (che è reale, piaccia o meno, e basta leggerlo con attenzione per farci caso), da improbabili revisionismi ammorbidenti da parte di alcuni fan in merito (fare benaltrismo e dire che erano tutti razzisti, ad esempio, non sembra nè vero nè una scusante valida) e dal fatto che l’ipotesi della veridicità del manoscritto è stata discussa (!) solo in certi circoli culturali nostrani. All’estero non c’è traccia di chi ci abbia anche lontanamente creduto (se è un dichiaratamente un mockumentary, del resto…).

    Il discorso a questo punto convergerebbe su numerosi ambiti sui quali, per brevità, non ci soffermiamo: basta comunque considerare che tantissima para-letteratura (ovvero esperti che parlano di opere) è spesso da rivalutare con occhio critico (leggasi: tanto vale leggere e vedere gli originali), per lo stesso motivo per cui le stroncature di film di 60 anni non implicano che quei film siano davvero così scadenti. In questo caso vale un po’ il contrario: Road to L. è un buon mockumentary con tanti pregi rispetto alla media, ma non è il capolavoro elogiato da tanti in modo sperticato, anche perchè lascia un senso di vuoto e di insoddisfazione, l’incompiutezza di cui parlavo all’inizio.

    La regia è di Federico Greco e Roberto Leggio. Road to L. è disponibile (gratuitamente e legalmente, dopo aver visto un po’ di pubblicità nel mentre) su Vvvvid.it. Vale la pena dargli una possibilità, se amate i racconti dello scrittore e se ancora non l’avete visto.

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