FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • La fiera delle illusioni (Nightmare Alley): mentalismo e tunnel degli orrori a cura di Guillermo del Toro

    La fiera delle illusioni (Nightmare Alley): mentalismo e tunnel degli orrori a cura di Guillermo del Toro

    In un’intervista di qualche tempo fa Guillermo del Toro – classe 1964, guru cinematografico del fantasy a tinte dark – raccontava una storia singolare: nel 1998 il padre viene rapito in Messico. Per ritrovarlo, la famiglia decide ad affidarsi a dei medium: personaggi che truffarono, a detta dello stesso del Toro, i suoi familiari – sfruttando tecniche di manipolazione e contraffazione di vario tipo. Al regista erano rimasti impressi i “ganci” psicologici con cui i medium, in quei giorni angosciosi di prigionia, affermavano che il padre volesse parlare alla famiglia usandoli come tramite psichico, puntando sull’aspetto sentimentale e convincendo in particolare la madre del regista, molto propensa a credere a quelle storie. Ci volle un riscatto per farlo tornare a casa, convincendo la famiglia a trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti.

    Questo rappresenta uno dei leitmotiv da cui nasce la scelta di girare un film come La fiera delle illusioni, titolo evocativo quanto significativo in tal senso, che tratta una storia fictional di mentalisti che “evolvono” in medium per avidità, evidenziandone contraddizioni e trucchi psicologici utilizzati per avere la meglio su chi voleva credergli (gli stessi ganci di cui sopra in forma romanzata). La scelta del soggetto aderisce allo statuto virtualmente dichiarato in quell’intervista, e mostra un film idealmente perfetto, impeccabile come ritmo e recitazione, suggestivo, oscuro e pervaso di un costante, sarcastico humor nero. Non fosse per quel finale un po’ “telefonato”, quel contrappasso così prevedibile (del resto parliamo di un romanzo oggettivamente datato il cui spirito, evidentemente, non si poteva mutare) che non citiamo apertamente per evitare spiacevoli quanto evitabili spoiler, potremmo parlare senza indugio di uno dei dark horror più interessanti e originali degli ultimi anni.

    La storia

    La fiera delle illusioni (Nightmare Alley) è il lungometraggio numero undici di Guillermo Del Toro (mentre scriviamo è in post-produzione il numero dodici, che sarà – a quanto pare – un adattamento di Pinocchio di Carlo Collodi in stop motion). Il film trae il soggetto dal romanzo omonimo di William Lindsay Gresham: un romanzo che è vecchiotto di suo, come dicevamo, essendo dei primi del Novecento, ambientato durante la seconda guerra mondiale e sul quale l’effetto retrò poteva provocare un fastidioso effetto vintage, non apprezzabile da tutti. Cosa che per  fortuna non succede, tanto è abile la regia a modernizzarne la forma ed attualizzarla, nonostante il fatto che le riprese si sono dovute interrompere causa una delle prime ondate della pandemia di Covid-19.

    L’ispirazione

    Si tratta del secondo adattamento cinematografico tratto dal romanzo, dopo quello datato 1947 (firmato all’epoca dalla regia Edmund Goulding). Sembra assodato che Del Toro lo faccia partire dagli stessi presupposti di Freaks, il capolavoro oscuro e romanticheggiante di Tod Browning, senza disdegnare qualche trovata (la “donna elettrica”, ad esempio) che ad oggi fa parte dell’immaginario pop anche grazie a Freaks Out di Mainetti. I personaggi sono pochi quanto essenziali: il vecchio mentalista che non esercita più, per paura di perdere il controllo e abusare del proprio pubblico, la scaltra finta maga, la ragazza elettrica dal lato umano, l’antieroe Stan, i vari freak e personaggi da baraccone sfruttati e costretti a varie mostruosità pur di dare spettacolo (e, si dice apertamente durante il film, far sentire il pubblico migliore di loro). L’impianto scenico della regia è quello di sempre, come prevedibile dato il contesto, in bilico tra l’horror e la fiaba macabra, tanto da far pensare a più riprese alle trovate teatrali o circensi di Funhouse di Tobe Hooper o, per restare su film più recenti, le incursioni di pagliacci mostruosi modello Rob Zombi. Ma c’è anche una seconda metà del film in cui il tono si normalizza, il focus si sposta magicamente da un vecchio baraccone pieno di stranezze ad un lussuoso studio di consulenza psicologica, con una costante neve a fare da sottofondo.

    Le chiavi di lettura

    Si respira un’aria malsana, in effetti, tanto più che vediamo l’ambiguo personaggio di Stan (un Bradley Cooper monumentale, tanto da voler girare una scena di nudo senza controfigure per sua scelta) muoversi sulla scena senza presentare o far presagire nulla di sè: all’inizio, semplicemente, parla con qualcuno in un letto, poi da’ fuoco ad una casa. Che il suo personaggio sia un anti-eroe di quelli epocali è chiaro, e lo è fin da subito: con l’aria dell’uno qualunque, misterioso, col tempo si svela anche infido, arrivista e donnaiolo. Non fosse per quel look a cui manca solo la frusta per sembrare (involontariamente, s’intende) Indiana Jones ante litteram, avremmo avuto l’antieroe perfetto, ideale, immarcescibile.

    Un antieroe mentalista, peraltro, in grado di usare disivoltamente tecniche di lettura a freddo e manipolazione psicologica, facendosi passare per veggente (il libro Paranormale di Richard Wiseman, per inciso, descrive fedelmente alcuni dei trucchi che vengono svelati nel film: uno su tutti, la tecnica nota come black rainbow, che consiste nel profilare la persona a cui si sta “leggendo il futuro” attribuendogli descrizioni generiche o contraddittorie: cose che affascinano e valgono un po’ per tutti, insomma, tipo tendi ad essere socievole ma a volte preferisci stare per conto tuo). Gran parte della narrazione è incentrata sul dilemma etico di usare il mentalismo come innocuo intrattenimento oppure forzare la mano di quelle tecniche, fingersi autentici medium ed ingannare spudoratamente persone molto ricche (quanto propense alla creduloneria). Un horror drammatico che, in definitiva, è difficile da racchiudere nel genere classicamente inteso, e che è in grado di svelare i misteri e gli imbrogli da sempre utilizzati in certi ambiti. In un periodo come quello che viviamo, del resto, un’opera del genere esce con un tempismo perfetto, rischiando di diventare (quasi per forza di cose) addirittura un film politico. Il significato recondito nel film, qualora ve ne fosse solo uno, probabilmente risiede tutto in questo aspetto primario.

    Il dark mood

    I toni oscuri sono effettivamente relegati alla prima parte, perchè è la seconda ad essere sorprendente: l’apparizione della figura algida e sinistra figura della psichiatra senza scrupoli (una Cate Blanchett perfetta, mostruosamente sensuale – come già in Don’t look up – per troppo tempo associata meccanicamente ad un ruolo relativamente insipido ne Il signore degli anelli di Peter Jackson), la quale entra in combutta con il protagonista, al fine di raggirare pezzi sempre più grossi. Il tutto in nome dell’avidità, di una malintesa attrazione reciproca e in barba all’etica, il che non potrà che risolversi dentro quel giardino labirintico innevato, che non poteva che ricordare quello quasi esoterico del kubrickiano Shining. Con una perla ulteriore, peraltro: una imperdibile seduta psicologica – di scuola freudiana, presumibilmente, o comunque del periodo in cui la psicologia faceva uso fin troppo disinvolto dell’ipnosi – con cui Lilith Ritter (nomen omen) sbatte sul lettino psicoanalitico (in un’incalzante seduta, sessualmente allusiva quanto manipolativa)  il povero Stan, evidenziando le fragilità del personaggio e scoperchiando i suoi segreti. Su tutti, il suo autentico rapporto col padre, soprattutto, che sarà il vero e proprio twist del film.

    Curiosità. Nel film viene curiosamente usato il termine geek, non nel senso di “super nerd” informatico bensì dalla parola tedesca geck, ovvero letteralmente “sempliciotto” con riferimento specifico ai fenomeni da baraccone più selvaggi, sia uomini che donne. Si trattava realmente di cruenti spettacoli di freak in voga fino a inizio Novecento, che prevedevano ad esempio che staccassero sul serio la testa di animali vivi sulla scena, e che il pubblico pagasse per vederli.

  • Povere creature! di Lanthimos è il trionfo dell’Anti-Edipo

    “Povere Creature!” (titolo originale: Poor Things), è un romanzo di Alasdair Gray pubblicato nel 1992. Si tratta di una storia in stile gotico che combina elementi di satira sociale e politica con una narrazione surreale. Il libro è ambientato in una Glasgow vittoriana e segue la vicenda di Bella Baxter, una donna riportata in vita attraverso esperimenti scientifici. “Poor Things” è stato adattato in questo film del 2023 diretto da Yorgos Lanthimos, con Emma Stone nel ruolo della protagonista. La pellicola è stata molto apprezzata per la sua estetica unica e le tematiche profonde.

    Scrivere recensioni assomiglia a volte a uno sport bizzarro, nel quale non solo devi “sollevare i pesi” della tua esibizione interpretativa ma, come se non bastasse, sei costretto ad affannarti in derive letterarie improbabili, trovando rifugio tra i meandri di quello che hai provato, delle cose che hai letto e che forse c’entrano qualcosa, degli episodi che ti vengono in mente, le suggestioni che ricevi dallo schermo. Almeno per me è stato così, dopo aver visto Povere creature! in un cinema (purtroppo) mezzo vuoto, per quel che mi riguarda: e vale soprattutto quando assisti ad un lavoro del genere, semplice eppur complesso nel suo concepimento, incerto sull’attribuzione del genere, attualissimo – soprattutto – per le tematiche che scomoda. Un film che urla, letteralmente, la necessità di parlarne, di vederlo una prima o una seconda volta, per coglierne le numerose stratificazioni che lo caratterizzano.

    Cosa significa poor things

    Andrebbe come prima cosa sgombrato il campo sul titolo, e sulla pseudo-polemica legata alla traduzione: Poor things non significa povere cose (nè cose da nulla, come qualcuno ha maccheronicamente tradotto), ma andrebbe tradotto come poverini, poveracci, poveretti. In molti casi l’espressione vorrebbe esprimere disperazione e sofferenza, come in she just seemed more desperate, poor thing (sembrava disperata, poverina). Il sempre affidabile Urban Dictionary, peraltro, sottolinea come l’espressione poor thing finisca per denotare compassione per qualcuno, per una persona in questione a causa del dibattere su di essa. Da escludere, pertanto, l’idea che Povere creature! possieda una qualche componente exploitation (che è considerato il sottogenere che mostra violenza, sesso e derivati per il gusto di shockare o, al limite, per presunti scopi educativi o sociologici): l’attenzione sembra semmai posta sull’empatizzare con la vittima, impersonificandone la sofferenza e provando a mostrare come uscirne.

    Si è molto parlato di questo film negli ultimi tempi – la sua produzione risale al 2021 – e si tratta dell’ennesimo del prolifico Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro), il quale dirige l’ennesima storia simil-distopica dai tratti singolari. Una narrazione dotata di un approccio diretto e privo di fronzoli, costruito come un romanzo di formazione (è la storia di una fanciulla che rinasce, letteralmente, grazie ad una ardita forma di chirurgia) con numerosi echi al Von Trier di Nimphomaniac. Per il soggetto il regista greco va a pescare da un romanzo di Alasdair Gray del 1992, che racconta di questo singolare personaggio dai tratti freak che, per ribadirlo con l’espressione del film, finisce per essere “madre e figlia nello stesso corpo“.

    Noi nasciamo capaci d’imparare, ma non sapendo nulla, non conoscendo nulla – scriveva Rousseau nel suo celebre romanzo pedagogico Emilio del 1762. È curioso osservare che i presupposti di Povere creature! potrebbero collocarsi su questa falsariga. Qualche riga dopo, infatti, l’autore ipotizza per assurdo che se un fanciullo avesse alla sua nascita la statura e la forza di un adulto, quest’uomo bambino sarebbe un perfetto imbecille, un automa, una statua immobile e quasi insensibile. Serve a rimarcare il potere dell’educazione e l’importanza per ogni essere umano di imparare a conoscere  e capire il mondo (trovare l’a che serve per agire, per dirla alla Rousseau). Ed è come se l’autore del romanzo, ed il regista come diretta conseguenza, partissero dai presupposti posti per assurdo da questo celebre scritto, immaginando non un fanciullo ma una fanciulla bambina nel corpo di un adulto, che si comporta come tale assorbendo progressivamente il bene ed il male, suo malgrado, dal mondo che la circonda.

    La storia è quella di Bella Baxter, una giovane donna dal comportamento infantile, frutto del lavoro di un esperto chirurgo (Godwin Baxter, ovviamente nomen omen). Il medico è dedito ad esperimenti arditi – tra cui innestare teste e corpi di animali viventi diversi, come cani, gatti e maiali, al fine di creare nuove specie o, al limite, di mostrare i limiti oltre i quali la scienza non dovrebbe andare. Complicato effettuare operazioni del genere in una struttura sanitaria, del resto: per cui vediamo l’allestimento di una sala operatoria all’interno di una villa privata. Un ambiente che non può non evocare quello grottesco dell’isola del dottor Moreau, in cui un mad doctor supera i limiti dell’etica in onore dell’ossessione per la scienza. Ma il vero focus è  su Bella, il suo esperimento meglio riuscito: il personaggio non ha alcun ricordo, è infantile, libera e spensierata, oltre al fatto non indifferente di vivere senza saperlo nel corpo della madre morta suicida poco prima. Il corpo della madre di Bella è stato recuperato dal chirurgo in extremis, e si è deciso di impiantarle il cervello del feto che portava in grembo. Ogni conseguenza è imprevedibile, a questo punto, e la domanda pressante è: Bella scoprirà di vivere nel corpo della madre, oppure no? Cosa le comporterà saperlo, quando arriverà questo momento?

    Gli echi di Frankestein sono gli stessi del romanzo a cui il film si ispira, ma la dimensione horror classica è solo una condizione di partenza, non esclusiva, dalla quale si sviluppa un film totalmente surreale, imprevedibile e multisfaccettato, con numerosi echi erotici e vari significati psico-sociali. Sì, perchè il rito di iniziazione di Bella è la scoperta della sessualità, che la porta a fare sì che il suo Es scardini ogni convenzione e richieda, ad un certo punto, al proprio creatore di essere lasciata libera di scegliere. Un lavoro a cui Lanthimos conferisce una parvenza tra il vittoriano e lo steampunk, una sorta di mondo incantato in cui le funivie sovrastano il cielo delle città, i colori sono tanto saturi da sembrare fumetti, e in cui è ordinario che una giovane donna (interpretata da Emma Stone, che si muoverà meccanicamente per buona parte del film) vada a chiedere ad una attempata signora, appena conosciuta, se compensi con la masturbazione la mancanza di sesso che vive da più di vent’anni. La sua (ri)scoperta del sesso è un insight autentico, un’illuminazione, una rivelazione quasi mistica che la spinge a scoprire la logica del mondo e, come prevedibile, ad impattare in ogni suo aspetto.

    Povere creature è (anche) un film sulla degenerazione, sulla perdità di umanità, sul sesso come tabù e sulla sua valenza liberatoria, tanto orgasmatica quanto rivoluzionaria, che tanto si lega alle tematiche del desiderio e della repressione e che – soprattutto – rifiuta il familiarismo tipico delle pellicole più claustrofobiche di questo tipo: quelle per cui tutto nasce, vive e muore in famiglia, con la famiglia che diventa prigione, lettino dello psicoanalista e tomba. In questo film il focus sembra essere aprire noi stessi al mondo, che è probabilmente ciò che Lanthimos ci invita a fare – pena perdere la nostra umanità.

    Per questo è necessario, oggi e per sempre, non soffermarsi superficialmente sull’aspetto sessuale prompente che l’attivissima Bella ci propina, per quanto la regia insista su di esso senza tabù sfruttando frequenti primi piani facciali, nonchè una rassegna di pratiche erotiche che vengono quantomeno citate se non mostrate (masturbazione, coito in qualsiasi posizione, rimming, cunnilingus, sado-masochismo). Il punto, semmai, è il significato simbolico di queste pratiche, che da un lato vogliono dire emancipazione sessuale (femminile, soprattutto), dall’altro fanno diventare la trama diventa una riflessione spassionata e coinvolgente sui perchè dell’essere umano, dal punto di vista di un cervello non completamente sviluppato o “immaturo” come quello di Bella, che appare, grottescamente, più ragionevole e sensato di quello di un uomo adulto, viziato da rabbia e gelosie irrazionali, senso di possesso, patriarcato e via delirando.

    Il cervello della protagonista recepisce il mondo in modo sostanzialmente innocente, scopre da sola la propria sessualità, poi scopre le relazioni, le imposizioni, i tabù, fino a scoperchiare il dolore del mondo (la sequenza annessa è dotata di un’intensità rara, quasi commovente). Poi inizia a leggere libri e romanzi, scopre il socialismo a Parigi e alcuni lavori “proibiti” per mantenersi, inizia a studiare medicina per poi costruirsi il proprio mondo poli-amoroso da manuale.

    L’idea di Godwin, del resto – un dio che ha vinto, letteralmente – era quella di dimostrare scientificamente che Bella è un autentico reset biologico, una donna creata al di fuori dell’evoluzione proprio perchè in grado di liberararsi completamente dall’influenza dei genitori. Anti-Edipo, insomma. Mamma e papà non erano al lavoro mentre studiavi e avevi il primo fidanzatino: semplicemente non c’erano, non ci sono mai stati, perchè sei nata ed hai aperto gli occhi su un tavolo operatorio, con un corpo di madre che solo incidentalmente si trovava lì.

    Ecco perchè Lanthimos (e Gray, di riflesso) uccidono la madre, metaforicamente, e costringendo lo spettatore a superare qualsiasi triangolazione edipica, a buttarsi nella mischia, a conoscere il mondo (che riserva ovunque anfratti di amore e libertà, nonostante le minacce e le brutture), in nome della bellezza dell’esperienza, dell’apertura verso il mondo, della (ri)scoperta e dei piaceri che ciò può provocare. Non è la rappresentazione del sesso in sè a essere tabù, in fondo: è l’idea di Bella a sconvolgerne il bieco conformismo, se si pensa che era stata lei, ingenuamente, a chiedersi perchè la gente non trascorresse interamente le proprie giornate a fare qualcosa di meraviglioso come il sesso.

    Il personaggio è incredibilmente potente, al punto da risultare spaventoso o destabilizzante per qualche spettatore, e diventa sempre più tale col progredire di una trama variabile e dai tratti a volte nostrani, altri esotici. Inizialmente il comportamento di una bambina dispettosa diventa un’adolescente in tempesta ormonale, poi viene promessa in sposa all’assistente del chirurgo (che se ne innamora) fino a diventare una donna e scoprire il mondo, le sue perversioni, le sue brutture, la sua bellezza, la sua speranza. Un viaggio tra Lisbona, Parigi, Alessandria, alla scoperta del proprio sè, a contatto con un mondo ben più cinico di quanto la sua innocente empatia suggeriva, probabilmente, fino a tornare nella Londra vittoriana in cui era inizialmente ambientato il film. Rinascere, anche qui, ancora una volta.

    È in discussione la narrazione più classica, del resto: se è vero si inizia con la tipica triangolazione di personaggi tra Io (il giovane medico che ascolta, come noi, la storia), SuperIo (il chirurgo creatore onnipotente) ed Es (Bella, in progressiva preda dei propri desideri, il film prende una piega inaspettata proprio perchè il personaggio femminile rifiuta deliberatamente di ridurre tutto a mamma e papà (per usare l’espressione antiedipica forse più usata da Deleuze e Guattari), ma soprattutto accetta, con coraggio e audacia, di affacciarsi nel mondo, di relazionarsi nel proprio singolare modo, a proprio rischio e pericolo. È una donna, ed è libera, accarezza idee socialiste e – naturalmente – è minacciata non solo dal patriarcato del mite spasimante ma anche da quello di molti uomini con cui avrà una relazione. E poi il sesso che la entusiasma candidamente non potrà essere accettato dal perbenismo imperante, per cui conoscerà il dolore della repressione; la sincerità che la contraddistingue non sempre sarà motivo di successo, anzi la renderà vittima di sopraffazione e bieco patriarcato; il suo viaggio nella sessualità a 360° la porterà ad aprirsi a nuovi mondi, a nuove sensazioni, fino a spalancare le porte ad una relazione poliamorosa che sembra, di fatto, chiudere uno dei migliori film mai girati da Lanthimos.

    Povere creature è un film complesso, senza dubbio, che va interpretato alla luce delle tematiche non banali che abbiamo elencato. Ma è anche un film che fa della chiarezza narrativa il suo più importante pregio, per quanto l’ambientazione fantascientifica dirompente lasci il pubblico privo di un vero e proprio punto di riferimento. Poco importa: perchè guardi Bella, guardi i personaggi attorno a lei, ti capaciti che il tuo mondo non era poi così diverso e pensi che, tutto sommato, potresti provare ad aprirti anche tu. Magari da lunedì prossimo, nel giorno da incubo per eccellenza, accettando di attraversare la nostra formazione, di accelerare il processo, di spingersi oltre a nostro consapevole rischio e pericolo. Per vivere come uomini – ma soprattutto come donne – sempre più autenticamente liberi e libere.

    La spiegazione di “Povere creature!”

    Spiegazione di Povere Creature!: un viaggio tra cinema, letteratura e filosofia

    Povere Creature!” (titolo originale Poor Things) è un’opera che affonda le sue radici nel romanzo gotico e nella satira sociale, diventando un fenomeno culturale capace di affascinare lettori e spettatori. Il romanzo di Alasdair Gray, pubblicato nel 1992, ha ispirato l’omonimo film diretto da Yorgos Lanthimos nel 2023, con Emma Stone nel ruolo della protagonista Bella Baxter. Quest’articolo esplora la trama, le tematiche principali e il significato simbolico dell’opera, mettendo in luce perché sia diventata un punto di riferimento nel panorama culturale.


    Trama

    Il romanzo e il film seguono la storia di Bella Baxter, una giovane donna riportata in vita da Godwin Baxter, un chirurgo geniale e controverso. Bella è il risultato di un esperimento radicale: il suo corpo appartiene a sua madre, deceduta, mentre il cervello proviene dal feto che portava in grembo. Questo “reset biologico” crea un personaggio unico, che esplora il mondo con un misto di innocenza infantile e curiosità adulta.

    Ambientata in una Glasgow vittoriana che richiama atmosfere steampunk, la narrazione mescola elementi gotici con riflessioni filosofiche, creando un’esperienza profondamente stratificata.


    Il titolo: “Poor Things” e il suo significato

    Una delle prime curiosità riguarda il titolo originale: Poor Things. La traduzione “Povere Creature!” è appropriata, ma il termine “poor things” porta con sé sfumature di compassione e empatia verso chi soffre. Non si tratta di una semplice espressione di pietà, ma di una riflessione sull’umanità e le sue contraddizioni.

    Il titolo anticipa la chiave di lettura dell’opera: non uno spettacolo di sfruttamento o violenza, ma una narrazione che invita a empatizzare con i personaggi, esplorando temi come la libertà, la sessualità, e l’identità.


    Tematiche principali

    1. Educazione e libertà
      Bella rappresenta un “foglio bianco” che si riempie lentamente attraverso le esperienze. Questo richiama le teorie di Rousseau in Emilio, dove l’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’individuo.
    2. Sessualità e autodeterminazione
      Un aspetto centrale del film è la scoperta della sessualità di Bella. Questa non è presentata come semplice tabù, ma come un mezzo di emancipazione personale e sociale. Le sue esperienze erotiche simboleggiano la libertà dai vincoli imposti dal patriarcato e dalla morale vittoriana.
    3. Scienza ed etica
      Godwin Baxter incarna il classico “mad doctor” che spinge la scienza oltre i limiti morali. Tuttavia, il focus non è sull’orrore delle sue azioni, ma sulle implicazioni filosofiche: cosa significa essere umani? Fino a dove può spingersi la scienza senza perdere di vista l’etica?

    Estetica e regia di Yorgos Lanthimos

    Lanthimos porta sullo schermo un mondo visivamente sorprendente, unendo atmosfere vittoriane a dettagli steampunk. I colori saturi e le scenografie oniriche contribuiscono a creare un’esperienza cinematografica unica. Emma Stone offre un’interpretazione magnetica, incarnando la dualità di Bella: innocenza e saggezza, fragilità e forza.


    Perché vedere Povere Creature!?

    Povere Creature! è più di un semplice film o romanzo: è una riflessione profonda sull’umanità, la libertà e il progresso. Che siate attratti dalla narrazione surreale, dalle tematiche filosofiche o dall’estetica unica, quest’opera offre spunti per riflettere e discutere. In definitiva il film ci invita probabilmente a esplorare cosa significa essere vivi, imparando a conoscere il mondo e noi stessi, un passo alla volta.

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  • Terrifier – L’inizio (All Hallows’ Eve) segna la prima apparizione di Art The Clown

    La storia è questa: All Hallows’ Eve (distribuito in Italia col titolo Terrifier – L’inizio) si presenta in veste antologica (e almeno in parte meta-filmica) presentando una serie di corti horror a cui assiste la baby sitter protagonista, giusto durante la notte di Halloween. La videocassetta di cui viene in possesso presenta apparentemente le gesta di Art the Clown, un brutale killer che sarebbe diventato iconico nella popolare serie di horror Terrifier.

    Siamo all’esordio registico di Damien Leone (che cura personalmente gli effetti speciali), anno 2013, ed il film viene girato per l’home video o direct-to-video, qualche anno prima che lo streaming diventasse popolare per la diffusione di serie TV e film. Nelle intenzioni registiche All Hallows’ Eve (letteralmente “La vigilia di Ognissanti”) non era pensato come antologia e serviva esclusivamente a far conoscere il personaggio al grande pubblico.

    Di fatto, questa primordiale versione di Terrifier rientra negli horror low budget ad ogni latitudine, mostrando discreti effetti speciali, una storia molto essenziale quanto canonica per il genere e interpretazioni attoriali nella media. Le reazioni della critica sono state divisive, tra chi ha parlato di un sincero tributo al genere a chi ha stroncato l’operazione senza appello per la sua eccessiva amatorialità. All Hallows’ Eve ha un suo perchè, per quel che vale saperlo: per quanto rientri nell’affollato novero dei film ispirati ad Halloween (31, Halloween, e la lista potrebbe continuare) è un horror compatto, incisivo e coinvolgente, soprattutto per i fan degli “horror pseudo-amatoriali” che si ispirano allo stile POV (Point Of View).

    Siamo al numero 237 (lo stesso citato in Shining) di una casa americana, dove si trovano due ragazzini con la baby sitter. È notte, è Halloween. All hallows’ Eve esordisce con l’orrore atavico e cristallizzato de La notte dei morti viventi, citato nelle prime sequenze (anche perchè di pubblico dominio, peraltro), sottolineando il disinteresse per lo stesso da parte dei personaggi (mentre il film è in proiezione la ragazzina vestita da strega trova più interessante il proprio cellulare). Come a dire: non basta più girare horror sociologici, siamo troppo disillusi per comprenderli, troppo de-sensibilizzati a qualsiasi tema, e quello che sembra scuoterci non può che essere l’intruso, l’estraneo che aggredisce senza movente, il pagliaccio assassino (sulla falsariga di Pennywise) pronto ad intrufolarsi in casa mentre viviamo un tranquillo momento domestico, che uccide senza una ragione nè uno straccio di storytelling sulle motivazioni, mentre ostenta davanti alla camera l’orrore prodotto.

    Immagini tratte da imdb.com

    I ragazzi protagonisti, affidati ad una baby sitter, trovano nel cesto dei dolci di cui hanno fatto incetta il nastro di una VHS senza etichetta; dopo una breve trattativa in cui l’adulto è ovviamente contrario a far vedere ai ragazzi il contenuto, per quanto sembri segretamente attratto dalla prospettiva. In seguito alla considerazione che “non potrà essere peggio di quello che si vede di solito su internet“, il trio decide di guardare la videocassetta.

    Si tratta ovviamente di un escamotage perchè il pubblico possa visionare un film diviso in tre episodi: The 9th Circle, Something in the Dark e Terrifier. Il tema centrale è, naturalmente, legato all’idea della videocassetta maledetta, del nastro che evoca orrori occulti dopo averlo visto, che già aveva caratterizzato un cult come Ring di Hideo Nakata, noto perlopiù per il remake del 2002 interpretato da Naomi Watts. I tre episodi che compongono il film sono ovviamente collegati alla trama principale, ma si tratta di un horror antologico “ibridato” da una narrazione unificata, sulla falsariga della tradizione inaugurata da Ai confini della realtà e, forse soprattutto, I racconti di zio Tibia (Uncle Creepy). Il piano meta-narrativo esce fuori, ovviamente, nel momento in cui dubitiamo di aver assistito ad un fatto di cronaca e non ad una fiction, simboleggiato da Art The Clown che sembra scalpitare per fuoriuscire dallo schermo.

    Nell’ordine The 9th Circle racconta di una ragazza che viene rapita in una stazione da Art the Clown, figura grottesca e dall’aria ambigua – prima la distrae ridacchiando e offrendole un fiore, poi la rapisce dopo averla narcotizzata. In questi istanti siamo consapevoli di “stare guardando un film”, perchè assistiamo periodicamente alle reazioni dei tre personaggi che abbiamo visto all’inizio, che guardano la videocassetta assieme a noi con tre mood molto diversi. Se in questa fase i “convenevoli” sono tipici del genere – in particolare dei sottogeneri exploitation e torture porncolpisce l’essenzialità del girato, la rapidità del divenire, i dialoghi essenziali quanto efficaci, la capacità di rigenerare il tema – nonostante sia abusato e piuttosto sfruttato dal cinema.

    E poi naturalmente c’è Art The Clown, un villain crudele che sbuca da ogni angolo, emulando gli sketch di un pagliaccio ma che uccide senza scrupoli e senza giustificazioni, rendendo la morte quasi preferibile a continuare una prigionia atroce, una surreale assurda detenzione, un macabro incedere di torture irraccontàbili che, per inciso, non potevano che riguardare vittime femminili e dei cattivi maschili. La conclusione dell’episodio, solo accennata quanto piuttosto chiara, ricorda ancora oggi l’attualità del male satanico o lovecraftiano insito nel pianeta e, a vederla così, anche quello del patriarcato e dello sfruttamento del corpo femminile.

    Sembra una parentesi chiusa e limitata alla televisione della VHS, che assume in questa sede un ruolo simile al puzzle cubico ( ) di Hellraiser, mediante il quale è possibile accedere ad una dimensione di sofferenza e dolore – e, naturalmente, invertire il flusso, per consentire agli orrori di spalancarsi nel mondo reale. Dopo aver mandato a letto i ragazzi, la baby sitter avverte qualcosa di sinistro, solo accennato, che poi si traduce in un uovo lanciato contro la finestra da alcuni ragazzini di passaggio. La ragazzina nel frattempo fissa per qualche istante l’anta socchiusa dell’armadio, con una suspance interminabile e magistrale come solo un horror ben realizzato riesce a sostenere (senza peraltro mostrare nulla di esplicito). Resta impressa l’espressione compiaciuta con cui il ragazzino ha guardato l’intero cortometraggio di cui sopra, nonchè una sorta di singolare “attaccamento” alla VHS che esplicita alla baby sitter prima di andare a dormire.

    È la volta del secondo episodio: Something in the Dark mostra una protagonista che ha da poco traslocato in una nuova casa, quando un tonfo ed un blackout fermano le sue attività. Veniamo subito a conoscenza di un dettaglio importante: la donna è la compagna di un pittore che, senza ricordare come e quando l’abbia fatto, ha dipinto un ritratto di Art the Clown. Il blackout costringe la protagonista ad un duplice impegno mentale: l’introspezione su come dovrà agire per sopravvivere (come le vittime del corto precedente, appare come una domanda vuota, nichilista, retorica, priva di significato), a cui si aggiunge la constatazione disperata che il buio si sia propagato “per vicinanza”, o che sia stato colpa di un meteorite (il riferimento è ai fatti della meteora di Celjabinsks di inizio 2013, che causarono danni per via delle schegge prodotte dall’impatto). Nel frattempo, come tradizione impone, la macchina della donna non parte – come accadeva anche in Brivido di Stephen King (un meteorite produceva l’effetto di disattivare automobili, bancomat e quant’altro), e sarà l’inizio della fine.

    Si potrà anche contestare il formato video dell’opera e l’aura di amatorialità che avvolge All Hallows’ Eve, ma non si può affermare che si tratti di un horror privo di crisma, spessore e riferimenti al genere. Il tema dell’artista visionario in grado di scrutare nelle profondità dell’abisso, del resto, presenta riferimenti negli horror classici ispirati a Lovecraft e Poe (su tutti L’aldilà fulciano e La casa dalle finestre che ridono), e finisce in questa sede per delineare l’origine del villain ed il fatto che, naturalmente, qualcuno o qualcosa verrà a reclamare quel dipinto. La sceneggiatura suggerisce peraltro che l’origine di Art possa essere extraterrestre. L’episodio è forse il più debole dei tre, soprattutto perchè l’alieno che viene mostrato è piuttosto posticcio, mentre il legame con Art the clown rimane indefinibile quanto sostanziale. Come nell’episodio precedente, le figure maschili non sono d’aiuto per la protagonista, nè sono presenti attivamente nella storia.

    Terrifier chiude la carovana di orrore mostrando ancora una volta una protagonista femminile, questa volta una costumista alle prese con un viaggio notturno in cui si ferma a fare rifornimento nei pressi dell’unico distributore disponibile. È qui che ricompare Art the clown nella sua veste “ordinaria”: un pagliaccio che si esprime a gesti e mimica facciale, senza dire una parola, che evoca apparentemente un emarginato un po’ strambo o antisociale. È appena andato via dalla stazione di servizio, cacciato malamente dal proprietario, mentre la protagonista dell’episodio si appresta a proseguire il viaggio. Cosa che non potrà, ovviamente, fare.

    In questa sede non è tanto l’efferatezza del killer a farla da padrone, quanto la sua ubiquità, la capacità di apparire in posti fisicamente distanti tra loro – a dispetto di qualsiasi plausibilità materiale. Non solo: gli ultimi minuti del film sono puro orrore distillato, nei quali si gioca sul senso di falso sollievo indotto sulla vittima, mentre il killer ricompare incessante e instancabile citando peraltro una delle scene più famose di Non aprite quella porta. Inutile raccontare come il film sia avviato alla conclusione, a questo punto, poichè si tratta di un ulteriore concentrato di orrore inenarrabile che trasgredisce, peraltro, una delle regole implicite del genere mainstream – per cui i protagonisti giovani in genere si salvano, o al più assistono all’orrore con valenza traumatizzante o catartica.

    Tutto questo è All hallows’ eve, se preferite Terrifier – L’inizio, senza mezzi termini uno degli horror più evocativi mai girati negli ultimi anni, da non perdere per qualsiasi appassionato del genere.

  • La casa dei 1000 corpi: horror alla Tobe Hooper, revisited

    Quattro ragazzi si avventurano nella provincia americana alla ricerca di stranezze locali da raccontare in un libro: conoscere il bizzarro Capitano Spaulding, a quel punto, sarà solo l’inizio…

    In breve. La casa dei 1000 corpi è “Non aprite quella porta” + “exploitation alla Wes Craven” diviso due: anzi, diviso sadicamente in tanti piccoli pezzetti. Niente male come lavoro, da segnalare per lo stile di ripresa frenetico di Zombi, per lo stile visionario tipicamente anni 70/80 (tra lo splatter e la psichedelia) e per l’esasperato citazionismo che lo pervade.

    La casa dei 1000 corpi è un horror sanguinolento, movimentatissimo ed al fulmicotone, girato quasi come un videoclip metal ad opera di Rob Zombie, leader dei seminali White Zombie e diventato famoso, ad oggi, sia come musicista solista che come regista di genere (suoi anche 31 e Le streghe di Salem). Massacrato da parte della critica americana come una scopiazzatura malriuscita di b-movie di culto, fu inaspettatamente ben accolto in Italia, sia dai futuri fan del regista-musicista e sia, ad es., dal Morandini. In effetti questo film possiede una grande importanza rispetto al periodo in cui uscì, soprattutto per il suo spirito di omaggio alla tradizione di genere e, al tempo stesso, di innovazione creativa. Questo è il primo film di Rob Zombi da regista (che come nella tradizione carpenteriana, in questa sede, ha curato anche le musiche), importante per il genere perchè delinea una propria, netta tendenza stilistica: un horror esplicito e sanguinolento, che insiste sui primi piani e sui dettagli, non risparmia efferatezze ed alterna momenti psichedelici quasi arthouse. Se la narrazione in sè potrebbe considerarsi banale, non bisogna dimenticare che ai vari dettagli spaventosi si alternano maschere demoniache, immerse in rituali cruenti (e realistici, ispirati ad esempio alle efferatezze di Ed Gein) e calati in un contesto di frammenti sconnessi, santoni che delirano di fronte alla telecamera, uso di effetti video e cromatici quanto basta, vittime vestite da conigli ed un feeling tipicamente settantiano. Insomma, non è solo lo splatter sconclusionato che potrebbe sembrare: l’horror di Rob Zombi vive una propria, codificata teatralità.

    La storia è quanto di più classico possiate mai aver visto in uno slasher movie: un gruppo di ragazzi perbene (ed un po’ nerd) si imbatte in un curioso clown (il Capitano Spaulding) che li conduce a visitare un tunnel dell’orrore (una citazione implicita del film di Hooper) a cui i quattro vorrebbero dedicare parte del proprio libro. Si assisterà non solo all’ovvia degenerazione della storia, ma anche a numerosi cenni a ritualità oscure legate ad Halloween, e a qualche elemento dell’horror sovrannaturale (il morto vivente che compare anche sulla locandina). Tanto per ribadire da quale attitudine sia guidato, Zombie ambienta il suo film nel Texas, anno 1977, alla vigilia di Halloween (anche il più recente 31 si svolge nella stessa data). Da segnalare Baby Firefly, la consorte del regista Sheri Moon Zombi in un’interpretazione convincente e spaventosa, nonostante fosse all’esordio. Menzione speciale per “l’allegra famiglia” composta da Mother Firefly, Tiny, Rufus, Otis e nonno Hugo: il riferimento è a Non aprite quella porta (1974), di cui La casa dei 1000 corpi può considerarsi un validissimo rehash (poco prima era uscito il più modesto Skinned Deep, sempre sulla stessa falsariga).

    La casa dei 1000 corpi andrebbe peraltro rivalutato per via delle doti registiche visionarie di Zombi, a cominciare da alcune sequenze del film girate in prima persona da membri del cast sfruttando una camera manuale a 16mm (chi ha pensato a mockumentary non ha sbagliato). Molte altre, invece (con un notevole anticipo su una tendenze che sarebbe diventata una moda degli horror realistici più recenti) sono presentate come se fossero snuff movie (filmati amatoriali in cui verrebbe rappresentata una morte reale). Tutti piccoli dettagli che, al di là di una trama forse già sentita, compongono un’opera decisamente originale – soprattutto negli ultimi venti minuti da incubo. Film che è stato anche dalla gestazione complessa, in quanto finito di girare nel 2000 ma distribuito solo nel 2003, grazie alla coraggiosa Lions Gate Films ed in seguito al disinteresse della Universal pictures (per via delle eccessive scene splatter), che avrebbero sostanzialmente imposto un divieto ai minori di 17 anni. Per questo motivo è ormai noto che Zombi abbia girato doppia versione delle scene più gore: una più leggera ed una più esplicita, sfruttando alternativamente un’illuminazione bianca o rossa. Scelte di un regista già all’epoca con le idee piuttosto chiare, se si pensa che fu il suo debutto nel mondo del cinema.

    La casa dei 1000 corpi è ad oggi uno dei film più famosi del regista americano, ricco di rimandi al cinema horror/exploitation anni ’70 ed altrettanto carico di dettagli splatter anche piuttosto originali (una delle vittime ibridate con un pesce, per non parlare del Dottor Satana), che scorre rapido sullo schermo come un perfetto grindhouse, e la sua conclusione è un crescendo di paura e violenza. Si delinea uno stile che Zombi porterà coraggiosamente avanti negli anni a venire, ovvero un modus operandi registico estremamente frammentato e veloce, tanto da evocare un videoclip ed in contrapposizione, se vogliamo, all’incedere monolico, compiaciuto e rallentato di molti altri horror (moderni e non). I personaggi, pur essendo ispirati ad una letteratura cinematografica di serie B piuttosto circoscritta (la ragazza provocante ed ambigua, il clown grottesco, la famiglia psicopatica…), vivono una propria autonomia, e riescono a divertire l’appassionato del genere senza mai sconfinare nella monotonìa o nelle banalità. Ovviamente nel film non manca la componente cruenta, per cui si tratta di un qualcosa che – in linea di massima – non piacerà al grande pubblico.

    House of 1000 corpses“, in italiano “La casa dei 1000 corpi” (che sembrerebbe una traduzione maccheronica, visto che corpse significa “cadavere” e “La casa dei 1000 cadaveri” suonava meglio, se non altro) vive di un’originalità invidiabile, in bilico tra orrore puro e appariscente grottesco (quel grottesco che diventerà un tratto distintivo del cinema di Zombi), a tratti davvero sorprendente anche perchè il filone non offriva, di per sè, tutta questa flessibilità. Un lugubre agglomerato di paura, sevizie, torture inimmaginabili, violenza esplicita sia pur con la nichilistica scomparsa della componente essenziale del revenge movie puro (il riferimento a Le colline hanno gli occhi è doveroso). L’orrore qui si vive sulla propria pelle, e non da’ speranza fino all’ultimo, inesorabile fotogramma.

  • L’Armata delle Tenebre: Cult e Splatter anni ’80

    Chi poteva immaginare che Ash sarebbe finito proiettato nel passato? Nel precedente episodio della saga (il riferimento è “La casa” di Raimi, per chi non lo sapesse) Ash in due episodi sostanzialmente molto simili finiva per avere a che fare con dei demoni, risvegliati dalla lettura di alcune strane formule registrate su un magnetofono, aggeggio finito nelle mani degli amici sprovveduti del protagonista. Dopo una lotta surreale contro le strane creature, la saga si sposta nel tempo, cose che “solo negli anni 80” (anche se il film è del 92). Da qui svariati film copieranno questa struttura di fondo: è quello che succede nelle infinite produzioni americane nelle quali un protagonista, infelice ed incompreso all’interno del mondo moderno, si ritrova nel mondo medievale (ad esempio) e diventa lentamente un eroe per la gente del posto. Tutta la storia è incentrata sul fatto che Ash comprenda che l’unico modo con il quale può tornare nel suo presente consiste nel ritrovare proprio il Necronomicon.

    “Mi chiamo Ash: reparto ferramenta”

    Tra le scene di culto, i piccolo Ash che fuoriescono dai frammenti di uno specchio, il “gemello cattivo” fatto fuori a colpi di “bastone di tuono” (il fucile), la rocambolesca lotta contro streghe e demoni, l’alleanza con un Mago che decide di aiutarlo: sarebbe sostanzialmente un film fantasy, in cui la componente fumettistica è osannata all’ennesima potenza (non a caso Raimi dirigerà uno Spider Man). Un film che potrebbero vedere anche coloro i quali avevano gli occhi tappati durante la visione dei primi due episodi, e di cui vale la pena raccontare che esiste un doppio finale: la versione ufficiale – imposta dalla produzione, ed un po’ “tamarra” secondo me – è edulcorata, prevedibilmente ottimistica ma anche piuttosto divertente:  si scopre che Ash fa il commesso in un supermercato, e salva eroicamente una collega da un demone che sbuca fuori nel negozio. La director’s cut, invece, è più fedele allo spirito della saga, e prevede che Ash riesca a tornare nel futuro, ma per errore finisca in uno post-atomico, disperandosi perchè non potrà più tornare indietro.

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