FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Berberian Sound Studio: meta-horror concreto e accattivante

    Berberian Sound Studio: meta-horror concreto e accattivante

    Gilderoy è un fonico inglese inviato a Roma per lavorare ad un film. Una volta sul posto, si rende conto che qualcosa non va: l’atmosfera è tesa, il rimborso del suo viaggio tarda ad arrivare e la pellicola non è ciò che si aspettava.

    In breve. Meta-horror semplice ed originale, relegato ad una dimensione surrealista. Un terrore che si trova ad essere, atipicamente, di parola: difficile da raccontare quanto affascinante.

    Il curioso titolo del film fa riferimento al mezzosoprano Cathy Berberian, cantante lirica virtuosa e moglie del musicista (pioniere dell’elettronica sperimentale) Luciano Berio. Quest’ultimo pare abbia molto influenzato lo stile di Strickland, che racconta la storia mediante una sequenza minimalista (e dai tratti surreali) di scene. In esse è facile seguire la storia ma è difficile, al tempo stesso, cogliere il senso della condizione kafkiana del protagonista. Ad ogni modo Berberian Sound Studio non compare mai nei titoli di testa: all’inizio vediamo infatti il nome del film oggetto della storia, Il vortice equestre che sembra essere, fin dall’inizio, una storia di stregoneria. Non viene volutamente chiarita la cosa, a questo punto, ed il film nel frattempo prosegue con quest’aura di mistero e di curiosità indotta.

    Strickland dirige, atipicamente, un thriller visto da “dietro le quinte”, in particolare dall’ipotetico studio di doppiaggio di un horror italiano anni ’70: luogo in cui, in modo impeccabile, vengono mostrati (ed omaggiati) i trucchi del mestiere degli effettisti dell’epoca. Il tutto assume quasi la parvenza di un rituale religioso, un rispetto omaggio ai maestri del genere (da Mario Bava in poi) e, per assurdo, quasi a discapito dell’intreccio, il quale assume un’importanza molto contenuta (quanto giustificata, tutto sommato). Le scene gore e splatter, ad esempio, vengono fatte sentire (e non mostrate!) in modo quasi documentaristico; delle urla delle streghe torturate nel fake horror Il vortice equestre vediamo solo le smorfie di dolore delle doppiatrici. E per qualche straniante motivo, inducono tensione e fanno paura lo stesso. Il senso dell’ambizioso progetto di Strickland rimane criptico per molti minuti: il tutto fino alla rivelazione che, probabilmente, ogni personaggio si stava già rivedendo nel film stesso.

    Berberian Sound Studio (…o forse Il vortice equestre!) viene diretto con classe e conoscenza del genere dal regista, grazie all’uso abbondante di dettagli e primi piani, ironizzando sui modi composti del protagonista contrapposti a quelli burberi di tutti gli altri. Dal punto di vista degli appassionati del genere, poi, viene mostrato l’ingegnoso riutilizzo di martelli, padelle e coltelli, qui usati per distruggere ortofrutta di ogni tipo (ovviamente per simulare il suono delle scene più macabre: cadute rovinose, capelli strappati, torture con ferri roventi e via dicendo).

    È tutto finto, lo sappiamo bene, ma è difficile non farsi percorrere da un brivido lungo la schiena mentre vediamo Gilderoy attraversare questo mondo che non conosceva, e soprattutto (scena molto emblematica) trafiggere con malcelato gusto un cavolo, mentre sonorizza una delle scene più complesse (e mentre, forse, il confine tra la sua follia e lucidità sembra essere stato smarrito per sempre).

    Nel mentre, vengono evidenziati i rapporti esclusivamente conflittuali tra i personaggi (basati quasi sempre su rapporti di potere, soldi, sesso e prepotenza), personaggi che sono quasi tutti sulfurei e misteriosi oppure, al contrario, cinici e zoticoni. Dell’horror incluso nella trama, Il vortice equestre (che a più riprese e per varie assonanze richiama Suspiria) non scorgiamo ancora nulla. Vediamo solo un gruppo di produttori, tecnici o registi privi di scrupoli, abili solo a procacciare nuove doppiatrici (non certo per meriti artistici), e cercare nervosamente di finire il doppiaggio di un film che degrada, lentamente, in una spirale mostruosa, della quale è impossibile scorgere l’inizio e la fine. Quasi un nastro di Moebius, a questo punto, nel quale anche il mite Gilderoy sembra destinato a smarrirsi per sempre.

    Un meta-horror, quindi, perchè racconta la storia del genere usando le situazioni e gli strumenti dello stesso, doppiato pazientemente scena dopo scena, di cui all’inizio non vedevamo nulla – salvo improvvisamente accorgerci che lo stavamo già guardando.

    E qui l’omaggio, oltre ai maestri dell’horror nostrano come Argento e Fulci (senza dimenticare Angoscia di Bigas Luna ed il Lamberto Bava di Demoni), si deve a John Carpenter ed alle sue intuizioni meta-cinematografiche, ovvero Il seme della follia, film che viene omaggiato abbastanza chiaramente in una sequenza: quella in cui Gilderoy vede se stesso aggredito dal killer, e da allora inizierà a non parlare più in inglese. Ulteriore peculiarità di Berberian Sound Studio, infatti, è che si tratta di un horror di parola nel senso stretto del termine – e viene in mente l’analogo Pontypool, a questo punto – che viene anche recitato in due lingue: italiano ed inglese, che ogni personaggio parla più o meno fluentemente (per necessità di trama, ovviamente, non per vezzo). Un dettaglio, quest’ultimo, molto interessante ed originale, che se da un lato ha contribuito a rendere unico questo film, dall’altro, probabilmente, ha frenato un po’ la sua fama, soprattutto rispetto al pubblico che (senza doppiaggio e/o sottotitoli in italiano) non vuole saperne di vedere film.

    Reazione curiosa, tutto sommato, per un film che racconta una storia ambientata proprio in una cabina di doppiaggio.

  • Nero criminale di Pete Walker è il thriller settantiano semi-dimenticato

    Edmund e Dorothy Yates sono una coppia condannata a 15 anni di manicomio: trascorso questo periodo, rientrano a casa ed apparentemente riprendono una vita normale. La figlia e la figliastra, rispettivamente, rientreranno presto a contatto con loro…

    In breve. Un cupo thriller settantiano in crescendo, che vira verso l’exploitation fino ad una conclusione grottesca e delirante; abbastanza sottovalutato da pubblico e critica, contiene spunti interessanti ed è, per certi versi, considerabile un cult.

    Questo film di Pete Walker, regista inglese di b-movie prevalentemente horror, si pone sulla scia dei thriller sugli psicopatici che uscirono all’epoca: basterebbe citare Il mostro della strada di campagna, uscito qualche anno prima, con cui questo lavoro presenta qualche affinità. Se ne caso del film di Fuest si poteva parlare di pre-slasher, in questo di Walker gli omicidi servono a porre il problema sociale del reintegro nella società dei malati di mente.

    Rinunciando all’etica del politically correct, Walker mostra la storia di una coppia condannata per cannibalismo, che vive internata in un manicomio quindici anni per poi essere rimessa in libertà: la coppia ha una figlia naturale che non li conosce, ed una figliastra che se ne prende cura e fa di tutto per nasconderglieli. Per quanto si scoprirà, Dorothy Yates in realtà non è mai guarita; il marito, mite ed apparentemente sano ma preda di incontrollabile devozione coniugale, continua a coprirne le efferatezze; la figliastra è vittima, nonostante tutto, dei propri legami affettivi e coniugali. Ci sarebbe abbastanza perchè un film del genere scatenasse il putiferio in termini di discussioni, eventuali accuse di reazionarietà (il messaggio del film sembra chiaro: il reintegro dei malati è inutile e dannoso) e richieste di censura e messa al bando; cosa che non sembra essere successa, probabilmente perchè si sono sempre evidenziati i limiti della produzione, che è da onesto b-movie e non particolarmente sorprendente sul piano degli effetti speciali o della narrazione/ritmo. Se uscisse oggi, un film come Nero criminale provocherebbe polemiche taglienti e distruttive a cominciare dall’ambiguità brutale della traduzione del titolo (dal sapore vagamente razzista, per quanto puramente accidentale).

    Eppure “Nero criminale” rimane un film di discreta qualità, pur nei suoi limiti di genere, che sa presentare una lucida discussione sul tema, sfruttando il linguaggio dell’horror ed una narrazione gradevole, con buone interpretazioni ed una punta di biasimo, inevitabile, nei confronti delle istituzioni. Non c’è dubbio che dai personaggi di questo film, a cominciare dall’inquietante madre-criminale nonchè veggente – che sembrerebbe, stranamente per un film del genere, possedere reali poteri sovrannaturali – esca fuori un quadro pessimista sull’uomo e sulla sua natura. Lo dimostra l’episodio dello psichiatra, il personaggio in cui il pubblico tenderà ad identificarsi e che ne uscirà piuttosto male.

    Le due figlie della coppia possiedono polarità opposta e funzionano grandemente: la prima sembra accomodante, vuole voler evitare il discorso e vivere in un comodo conformismo, puntando ad una propria vita “normale”. La seconda è puramente antisociale, difficile e dall’attitudine violenta, che scoprirà casualmente un’insano feeling con i genitori che la sorella le aveva tenuto, di fatto, nascosti. Non si vedrà granchè a livello di sangue, è bene specificarlo: questo nonostante le tematiche exploitation e nonostante, soprattutto, si capisca quasi sempre quello che sta succedendo: Walker dosa con cura le scene di violenza, e questo contribuisce a creare un clima di terrore a volte accennato e forse più intenso di quello esplicito. Inutile sottolineare, poi, che sia Craven (che usò spesso l’horror come rappresentazione dei mali sociali e della criminalità) che soprattutto Hooper (con la sua famiglia cannibale e le ormai celebri cene grottesche e cannibaliche) si possano trovare forti punti di contatto con queste tematiche.

    Nero criminale è in definitiva un buon film di genere anni 70, annoverabile tra i b-movie d’epoca e, per questo, con tutti i limiti ed i difetti di questo tipo di produzioni; uscito in un periodo in cui il genere era al proprio apice, del resto, sarà facile trovare titoli anche decisamente più incisivi ma questo, a mio avviso, merita comunque un occhio. Se l’horror non sempre è riuscito a dispensare messaggi significativi alla società, limitandosi a curare al più l’aspetto prettamente narrativo, “Nero criminale” rappresenta una notevole eccezione a questa regola, e si presenza come un film da riscoprire. Con occhio critico, s’intende, ma pur sempre da riscoprire.

  • Winnie the Pooh, Sangue e Miele: un horror stranamente sensato

    Detta senza mezze misure, Winnie the Pooh: Sangue e Miele è una cafonata cosmica. Meglio: non poteva essere diversamente. Sulle prime sembra volersi palesemente divertire (in chiave splatter) su uno dei miti dell’infanzia di chiunque, fregiandosi di cinismo e riprese calcolate come nella migliore tradizione slasher horror. Poi ti viene il sospetto che ci sia dell’altro, qualcosa da dire, qualcosa da raccontare in modo originale. Forse c’è, forse no. Vederlo per intero è l’unico modo per capirlo. Perchè se l’impianto del film è pensato per risultare allegramente sgradevole, è soprattutto quel finale ad essere nerissimo, cupo, senza speranza e (cosa non da poco) senza alcun rispetto della struttura narrativa precedentemente imposta. Contenti voi, contenti tutti, e questa è.

    C’è sicuramente l’auto-indulgenza tipica di certo horror, c’è pure l’orgoglio di aver prodotto un film del genere senza alcun tipo di condizionamento artistico, sia pur a costo di averlo forse troppo frammentato in micro-episodi che sanno molto di accozzaglia di centinaia di trailer diversi. D’altro canto Winnie the Pooh: Sangue e Miele rimane una cafonata consapevole, dato che sfrutta coerentemente gli stilemi del genere – gliene va dato atto, sono gli stessi stilemi modello La casa: perchè mai continuino a funzionare, tutto sommato, film in cui dei giovani fanno cose irragionevoli (per non dire peggio), rimane un mistero. Un mistero del tipo: perchè andare da soli in un bosco oppure, come avviene all’inizio di questo lavoro, perchè la moglie di Cristopher Robin accetta bonariamente di recarsi nel bosco a vedere gli animaletti dell’infanzia? Qualcuno, al suo posto, avrebbe chiesto il divorzio.

    Eppure, strano a dirsi, al netto di certe ventate di realismo (che non fanno bene all’horror in generale), e per quanto sia alienante esserne consapevoli, fin dall’inizio della pomposa campagna di marketing di questo horror di Rhys Frake-Waterfield possiamo dire che il film sostanzialmente funziona, fa il proprio dovere, risponde alle aspettative di chi va a vederlo (bontà sua). Ovvio, poi non funziona più di una qualsiasi opera di Rob Zombi nè più di un qualsiasi Non aprite quella porta: ma funziona.

    Funzionicchia, se proprio volessimo essere critici: è girato discretamente, ma è completamente senza intreccio, senza filo logico, più interessato a shockare che ad altro, senza contare i non sequitur a granularità minima e vari momenti in cui (come in parte della filmografia di Zombi, significativamente) non si capisce bene cosa stia succedendo. I dialoghi del film, per larga parte, sembrano estratti dai fake trailer di Rodriguez-Tarantino, privati di quell’aura ironica che li rendeva quantomeno divertenti. Qui si ride pure, anche solo di riflesso e per nervosismo, e ci si sente quasi in imbarazzo nel farlo.

    “Non sembra umano, Logan. Non sembra nemmeno un orso!

    Mmm, non mi piace questo tipo.

    È il tuo giorno sfortunato, amico. (colpisce Winnie The Pooh, che resta in piedi) Sei un duro, devo ammetterlo!”

    Per gran parte della storia le suggestione che arrivano sullo schermo sono zeppe di sangue e violenza esplicita, a ben vedere non diverse da quelle di un qualsiasi Venerdì 13 o analoghi, gli stessi film con alternanza di senso di colpa / vendetta di cui abbiamo perso il conto in questi anni. Da sempre sospesi nel desiderio di capire, mentre ne scrivevamo, se davvero valesse la pena parlarne o meno. E mi viene in mente quello che ho sentito dire a Dario Argento dentro a un cinema di Roma, qualche giorno fa: che (parafrasando) i mostri non sono mai solo mostri, ma sono espressioni delle profondità d’animo.

    https://twitter.com/sarbathory/status/1719423421149311361

    Perchè dietro un horror non c’è mai solo l’orrore, effettivamente, e lo sappiamo (dovremmo saperlo). È una tentazione concettuale in cui molti sono caduti, in passato, a cominciare dal celebre studio di genere di Carol J. Clover (Men, women and chainsaws), che rispondeva alle accuse di non sense e misoginia mosse a gran parte degli slasher anni 70. Altri tempi, decisamente. Perchè all’epoca quell’orrore si rivolgeva a persone ordinarie che il più delle volte non capivano neanche troppo di rivoluzione culturale, Sessantotto e via dicendo, oggi si rivolge ad una platea che crea meme direttamente in sala e che è abituata a sputare sentenze sui social. Qui non si potrà proporre una raffinata analisi sociologica (anche se Winnie The Pooh in chiave horror è il mito dell’infanzia perduta che si rivolta contro di noi e la nostra presunta adultità). No, non varrà la pena farlo perchè già ne abbiamo letto abbastanza, o perchè no, davvero, l’horror su Winnie The Pooh non l’avrebbe girato manco Peter Jackson o Sam Raimi da giovanissimi per scommessa. Il che magari è un merito, e non ce ne siamo ancora accorti.

    Resta il fatto che un film traumatizzante del genere non può che essere figlio dei tempi dissacranti, privi di eroi, conformisti, cinici e violenti in cui ci troviamo a vivere nostro malgrado. Non è uscito negli anni Ottanta dei satanic panic, non è uscito nei Settanta delle sette ambigue e manipolatrici, nè nei Novanta dell’uso disinvolto di droghe: è uscito oggi, in tempi feroci e a loro modo traumatici, in cui poco o nulla importa del piano simbolico e tutto si sposta sul piano visivo, emozionale, shockante, jump scare. Tempi in cui la paura non è più metafora o metonimia, ma vira sul gusto di shockare fine a se stesso, e tanto basta. Come un bambino viziato e troppo cresciuto, di quelli che si divertono a distruggere i propri giocattoli, rinnegando il passato e cancellando il futuro. Figlio dei tempi, per l’appunto.

    Di OswaldLR – DVD, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=6296170

    Con un qualcosa in più, o in meno (dipende dai punti di vista), o con il vincolo di dover per forza di cose accettare quel punto di vista dissacrante, grottesco (e spesso sostanzialmente gratuito) con cui Winnie The Pooh, da orsetto innocuo e spensierato possa diventare un serial killer feroce, addirittura creativo nelle soluzioni che riesce a trovare per uccidere, a cominciare da quella con cui miete una delle prime vittime (usando un gigantesco tritacarne).

    Il film, peraltro, è zeppo di citazioni più o meno esplicite al mondo dell’horror classico, a cominciare dalle soluzioni omicide originali tipo Freddy Krueger a finire agli assassini simbolici, cruenti e creativi di Venerdì 13, Halloween e così via. Ma anche qui: non sembra esserci abbastanza sostanza per poter proporre un qualche paragone degno, che non vada per la consueta celebrazione auto-indulgente dei classici da parte di cineasti incalliti, che forse oggi è un po’ superata dai tempi.

    Che cosa mi vuoi fare? Perchè stai facendo tutto questo? Lasciala andare: hai ucciso troppe persone, Pooh. C’è ancora del buono in te.

    Winnie the Pooh horror, signore e signori. Winnie, con quel tuo ghigno assente, a metà tra l’espressione inquietante di Michael Myers (stalker mostruoso che puniva il desiderio sessuale e i suoi annessi) e quella ontologicamente incazzata di Jason Voorhees (figlio abbandonato da una madre poco presente e oppressiva), si esplica col suo evidente richiamo simbolico al mondo dell’infanzia violata, al fatto che viviamo in uno dei periodi più polarizzati e orrorifici di sempre, al fatto che se davvero non ci è rimasto nemmeno Winnie The Pooh a tranquillizzarci e non mandarci in overthinking, è davvero il caso (forse) di cambiare registro. E mentre ce ne capacitiamo l’ennesimo villain è sempre lì, pronto a punire una nuova giovinezza inconsapevole, vanitosa e traumatizzata, sia pure a costo di farci più ridere che spaventare. Ma anche qui: il riso indotto da certe scene cruente (o improbabili) di Winnie the Pooh: Sangue e Miele è il riflesso di un tabù che non sappiamo accettare, che forse mai accetteremo, e che (se fosse il caso di specificarlo) difficilmente piacerà ai fan “nudi e puri” del cartone originale.

    “È stato Pimpi, quel sadico, si è divertito a torturarmi. Non c’è un motivo. E io non me ne andrò di qui finchè lui non sarà morto. Vieni qui Pimpi, porco schifoso!”

    Per quanto la critica abbia tendenzialmente massacrato questo titolo, è impossibile non riconoscerne qualche merito, in fondo. Non è un horror autoriale, ovviamente, e ci mancherebbe pure. Non c’è l’approfondimento psicologico degno di nota, o forse ce n’è solo un accenno vago: una delle universitarie protagoniste è reduce da un percorso di terapia dopo essere stata assaltata da uno stalker. Questo in fondo è  solo un horror slasher come miriadi ne sono usciti in passato, con l’idea originale di dissacrare un innocente cartone per bambini ed urlare al pubblico di averlo fatto.

    Credits: imdb.com

    Qualsiasi cosa ciò possa significare, in effetti, e con le stesse riserve che abbiamo espresso nel giudicare altri horror analoghi (ce ne sono pure troppi, su questa falsariga) a volte pure di buon livello, ma anche eccessivamente autoindulgenti e compiaciuti di ciò che mostravano. Eppure qui – al netto di tamarrate assortite, soprattutto perchè decontestualizzate – la sostanza si affaccia, a volte, sia pur in modo destrutturato e quasi privo di trama, con ragazzi dai mille problemi e con grottesche (e consuete per il genere) tendenze suicide, mentre Pimpi e Winnie si aggirano nel film ad uccidere gente un po’ a casaccio.

    Credits: imdb.com

    La parte migliore del film, del resta, rimane quella realizzata tipo cartone animato dei minuti iniziali, dotata di una sua solenne dignità e maestria: Cristopher Robin ha smesso di giocare con Winnie e gli altri, è cresciuto, è andato al college, ha scoperto la sessualità, adesso ha una moglie, una vita adulta, un lavoro, e non può più pensare agli animaletti della sua infanzia con cui tante esperienze aveva condiviso. Se facciamo morire la dimensione immaginaria del gioco, in altri termini, siamo destinati a pagarne le conseguenze, mediante la simbolica rivolta dei giocattori dell’infanzia che, a ben vedere, conosciamo almeno dai tempi dell’iconico La bambola assassina. Gli animaletti diventano animalazzi (cit. Simpson) sempre più feroci, regrediti allo stato brado e dediti al cannibalismo per vendetta. Soprattutto, odiano Cristopher Robin, il quale li ha, dal loro punto di vista, abbandonati nel bosco, dove hanno assistito loro malgrado alla morte di uno di loro e dovuto cavarsela da soli.

    Estremo paradosso, Winnie the Pooh: Sangue e Miele non è affatto il vero Winnie the Pooh, se non attraverso richiami ai personaggi (Tigro è stato escluso per motivi di copyright, a quanto pare), e non può fare a meno di Winnie the Pooh originale, perchè in fondo se non ci fossero lui e il buon Pimpi, questo sarebbe l’ennesimo slasher anonimo di cui tra un mese non ricorderemmo neanche il titolo. E allora, forse, vale la pena dare una possibilità al film, sia pure con riserva e con l’idea di essersi tolti la strana curiosità di vederlo.

    Ammesso che, ovviamente, vi aggradi realmente l’idea di assistere a questa insana trasformazione, cosa tutt’altro che ovvia.

  • Il demonio: il film anni 60 di Brunello Rondi sulla possessione

    Lucania: Purificazione (nomen omen) è posseduta da un amore non corrisposto per un compaesano, già promesso da tempo ad un’altra donna. I suoi comportamenti troppo passionali la porteranno ad essere vista con diffidenza, fino a subire veri e propri abusi…

    In breve. Un piccolo gioiello del cinema “demoniaco”, ricco di sfumature e dettagli antropologici, arrivato sugli schermi molto prima che il genere prendesse una piega monotematica (e spesso, purtroppo, alla pura ricerca di effettacci). Un film girato con piglio documentaristico, privo di eccessi ed apprezzabilissimo ancora oggi.

    Il demonio è un film del 1963 atipico, oltre che in anticipo sui tempi: è uno dei primissimi esempi di cinema con riferimenti demoniaci espliciti, genere che prese definitivamente piede solo con “L’esorcista” e “The omen“. Vale la pena di ricordare, fin da subito, la notizia di cronaca a cui Friedkin sembra essersi ispirato: un quattordicenne che, si racconta, venne liberato dal demonio mediante un esorcismo (“a 14-year-old Mount Rainier boy has been freed by a Catholic priest of possession by the devil, Catholic sources reported yesterday” raccontava il Washington Post nel 1949).

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    In questo lavoro di Rondi, ambientato nella Lucania più oscura e bigotta che si possa immaginare, emerge la bellezza sfregiata di Purificazione (Purì o Purif, in molte parti del film) contrapposta ai paesani rozzi, quale singolare simbolo dell’emarginazione del diverso. Una donna sola con la colpa di essere innamorata di un uomo già promesso, e di essere processata per questo dalla folla inferocita che mai, del resto, è entrata in empatia con lei.

    A differenza di altri film incentrati sul sovrannaturale, sulla propaganda religiosa o sullo splatter in quanto tale, emerge piuttosto la medesima, potente, critica sociale che potremmo esprimere oggi leggendo l’articolo, un po’ ingenuo, appena citato. Articolo che spiega, tra l’altro, la mia generale diffidenza nei confronti di questo sottogenere di horror, che cade (spesso, non sempre per fortuna) nell’errore di sembrare veicolato a messaggi catechizzanti – per non dire peggio. Errore che, a mio avviso, “Il demonio” non commette affatto, visto che il regista è particolarmente attento a ciò che mostra.

    Se questi presupposti ne fanno un film più “politico” (e più significativo) di altri banali e ripetitivi epigoni del genere, numerosi sono i riferimenti etnologici che lo rendono significativo. La cerimonia per scacciare la pioggia, ad esempio, oppure la celebrazione di un antico matrimonio o, più in generale, un curioso mix di religione e superstizione che il registra mostra nel dettaglio. Il lavoro si basa, del resto, sulle ricerche del professor De Martino dell’Università di Cagliari, e questo elemento di approfondimento vive in misura maggiore di qualsiasi altro horror, tanto da far pensare ad un vero e proprio documentario. Del resto ridurre Il demonio ad un mero lavoro di genere sarebbe pesantemente riduttivo, anche perchè manca la spettacolarizzazione dell’orrore tipica di questi casi.

    L’unica sequenza potentemente demoniaca, del resto, è avanti di oltre dieci anni rispetto a ciò che vedremo in seguito: il tentativo di esorcismo in cui la protagonista cammina con la spider walk resa celebre da Friedkin (ma questo film esce molto prima de “L’esorcista”; parte della scena è questa), senza contare che successivamente inizia a parlare col prete in una lingua ignota. Paradossalmente, se vogliamo, il focus dell’azione è più concentrato sulla rappresentazione del contesto, sulle tradizioni vive, sui popolani dalla gogna facile o sulla famiglia ambigua della protagonista che, di fatto, sull’elemento demoniaco in sè. Il riferimento all’esorcismo (racchiuso in poche, essenziali ed efficacissime sequenze) non serve solo a far spaventare (cosa che, a mio avviso, il citatissimo lavoro di Friedkin prova a fare fino alla nausea): le pratiche anti-demoniache sono rappresentate quasi razionalmente, quale segno di una frustrazione latente e come forma di abusi fisici e mentali, per non parlare del fatto che la protagonista è una donna avvenente (i paesani che la demonizzano sono gli stessi che vorrebbero, spesso, abusare di lei). In uno scenario del genere, pertanto, chiedersi se Purificazione sia realmente posseduta, affetta da una malattia o solo esasperata diventa una questione quasi di poco conto.

    Il saper miscelare più generi di Brunello Rondi (dramma, gotico, documentario) è forse il più consistente punto di forza del film. Possiamo solo immaginare l’ennesima violenza, l’ennesimo misfatto confessato, l’ennesimo stupro commesso ai danni di una protagonista vittima di se stessa, della propria passione e, magari, di qualche disturbo mentale. Di contro, una comunità ottusa che vive di superstizione e culti di facciata, che non capisce e non può, per definizione, capire. La sequenza della confessione in pubblico dell’intero paese, in cui vengono riconosciuti sia un furto che un caso di incesto, è la stessa in cui l’esasperazione di Purì arriva al culmine della teatralità, richiamando a più riprese le migliori sequenze di “Non si sevizia un paperino” (Fulci deve probabilmente più di qualcosa a questo film).

    Al tempo stesso la sua avvenenza (per la cronaca, la Lavi girò anche La frusta e il corpo) la fa diventare un facile capro espiatorio delle frustrazioni e delle ipocrisie di una società arcaica e brutale. Quella che doveva essere solo frustrazione per un amore non corrisposto si trasforma in un’attitudine antisociale, che alimenta le ostilità degli abitanti e si tinge, peraltro, di qualche cenno allucinatorio (Purì che crede di parlare con il ragazzino che morirà qualche momento dopo).

    A poco varranno i tentativi di redenzione esplicati dalla protagonista, che anzi precipiterà in un vero e proprio incubo dalle dimensioni crescenti, che culmina in un finale tragico (e anche piuttosto amaro). Una modalità narrativa non nuova, quella della donna sola e perseguitata in un ambiente gretto e (almeno in parte) maschilista, anch’essa splendidamente espressa da Lucio Fulci qualche anno dopo (“è lei a maciara, ha fatto ‘o malocchio su ‘e ccase nostre“, dice qui uno dei personaggi) e, in tempi più recenti, ad esempio da Dogville di Lars Von Trier (anche lì i paesani mal sopportano la presenza della protagonista, e ne abusano a più riprese).

    Un grande film da rivedere e riscoprire senza esitazione, adatto anche a chi non amasse prettamente l’horror e le sue tematiche.

  • The Lure: e nessuno visse felice e contento

    Grazie alla Disney e a un errore di traduzione nell’Odissea, in cui “penna (intesa come piuma)” venne confusa con “pinna”, le sirene sono comunemente conosciute come esseri metà donna e metà pesce, che da sempre esercitano su noi comuni mortali un romanticismo non indifferente. Figure affascinanti che negli anni sono state raffigurate come bellissime e dalle code iridescenti, sulle cui squame si riflettevano miriadi di gocce d’acqua che davano vita a innumerevoli giochi di luce quando colpite dal sole.

    Rappresentano quell’attrazione innegabile per il mare aperto, la cui vasta immensità è tanto terrificante quanto intrigante.

    Grazie a questa narrativa si sono spesso ignorati gli aspetti più empi di queste creature: cattive, doppiogiochiste e cannibali; consapevoli della loro bellezza e della loro capacità di incantare gli uomini da utilizzare le proprie doti canore per ingannare gli uomini, troppo deboli per resistere al loro fascino, al fine di annegarli e cibarsene. In altre narrazioni sono state raffigurate come esseri marini antropomorfi visivamente brutti e terrificanti, che nulla avevano da spartire con la bellissima ragazza narrata da Andersen e che anni dopo ci regalò l’indimenticabile Ariel nel lungometraggio animato targato Disney.

    Proprio alla storia de La Sirenetta si è ispirata la regista polacca Agnieszka Smoczynska per il film The Lure del 2015, presentato al Sundance Film Festival e attualmente disponibile su Netflix. La pellicola, confezionata come un musical, assume, man mano che si progredisce nella storia, un aspetto sempre più horror e dark, e racchiude più sottotesti. Il primo è quello relativo all’infanzia della regista, la quale ha dichiarato di essersi ispirata alla propria infanzia vissuta nei nightclub dove lavorava sua madre; mettere in scena la propria esperienza nascondendola all’interno di un’altra storia le ha permesso di raccontare ciò che ha vissuto in maniera più naturale, senza doversi trovare faccia a faccia, effettivamente, con questa realtà. Il secondo sottotesto invece si snoda attorno alle sirene, alla loro esistenza e al loro corpo. Non sarà difficile individuare critiche alla società e alla cultura performativa e sessista odierna, nonostante il film sia ambientato negli anni ’80. E proprio in una fredda notte in cui si respira a pieni polmoni l’aria grigia tipica dell’immaginario degli ex regimi sovietici le sorelle sirene protagoniste, Golden e Silver, si spingono fino alle rive della Vistola per attirare un gruppo di musicisti che sta suonando e convincerli, con il loro canto, a portarli con sé sulla terraferma per riuscire a banchettare con i loro corpi. I tre – padre, madre e il figlio Mietek – sono completamente affascinati dalle voci delle sirene che decidono di includerle nei loro spettacoli nel nightclub in cui lavorano in veste di coriste; Golden e Silver ruberanno sempre di più la scena, arrivando a diventare l’attrazione di punta del locale, ma alla loro ascesa e venerazione da parte degli spettatori corrisponderà il declino della vita personale.

    Sono le luci stroboscopiche e i lustrini del night a fare da controparte “sirenesca” di The Lure: un aspetto immediato che colpisce delle protagoniste è infatti quello di non essere le classiche sirene fiabesche, ma creature acquatiche, la cui lunghissima coda verdognola priva di pinne ricorda quella delle poco affascinanti anguille. Un dualismo lampante che colpisce subito lo spettatore e lo rende cosciente del fatto che le sirene non sono completamente umane e belle. Un dettaglio, questo, che non mancherà di sottolineare Mietek a Silver: spintasi originariamente, come abbiamo visto, insieme a Golden in superficie esclusivamente per un tornaconto personale, la sirena cambierà presto idea quando imparerà a conoscere il giovane, di cui si innamorerà sempre di più. Per ottenere il suo amore, Silver è pronta in ogni modo a mettere in discussione se stessa, la propria natura e il rapporto con la sorella, ma Mietek le dice chiaramente che la vedrà sempre e soltanto come un pesce e non come una vera donna. Questo è solo uno dei casi in cui le due sirene saranno sottoposte alle continue aspettative degli esseri umani, rappresentanti di una società fagocitante e crudele che spreme tutta la bellezza e la vitalità da coloro che considera “pezzi da novanta” unici e inimitabili, per poi abbandonarli a se stessi una volta che questi non le servono più perché incapaci di rispondere ulteriormente a quelle aspettative. Chi cerca di adattarsi, come Silver, finisce per perdere di vista la propria identità e i propri obiettivi; chi invece tenta in ogni modo di restare integro e fedele a se stesso, come Golden, viene visto come un elemento di disturbo che va necessariamente annientato per riportare l’ordine.

    Il nightclub dove le sirene si esibiscono, grazie al tripudio di luci, colori, costumi, effetti scenografici e glitter, non rappresenta altro che la maschera ipocritamente affabile che la società corrotta indossa tutti i giorni, con il fine di ingannare con false promesse le persone che tentano di inserirvisi; non è dunque un caso che una delle prime canzoni del musical sia totalmente incentrata sui sogni, grandi e piccoli, concreti e frivoli, che Golden e Silver vogliono realizzare sulla terraferma. Qui, purtroppo, troveranno soltanto emozioni e sentimenti con la data di scadenza; bugie e inganni; ipocrisia dilagante che non vede l’ora di farle a pezzi e venderle come carne da macello al migliore offerente, attraverso una sessualizzazione spinta all’eccesso dei loro corpi unici e straordinari.

    In questo clima frustrante e asfissiante crescono sempre di più l’illusione, incarnata da Silver, e il risentimento, proprio invece di Golden. Il primo a venire meno è il loro legame di sorelle: ognuna arriva a vedere nell’altra una minaccia ai propri obiettivi e ai propri sogni, che fino a poco tempo prima condividevano. L’assenza del loro equilibrio personale in quanto unica e solida certezza non può che lasciare spazio a un effetto valanga destinato a peggiorare sempre di più, fino all’epilogo tremendamente tragico e privo di qualsiasi tipo di speranza.

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