FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Black Mirror 6 funziona solo a sprazzi

    Black Mirror 6 funziona solo a sprazzi

    Abbiamo visto i primi due episodi della nuova serie di Black Mirror (la numero 6), e ve ne parliamo qui. Uscita il 15 giugno 2023, come sempre si incentra sugli abusi tecnologici e sull’alienazione indotta dalle nuove tecnologie. I toni, pero’, sembrano essere cambiati rispetto alle origini. l’articolo sarà aggiornato volta per volta come finirò di vedere i nuovi episodi.

    Joan è terribile (stagione 6, episodio 1, 2023)

    Il ritorno di Black Mirror per la sesta stagione parte da un presupposto voyeuristico o paranoico (dipende dal punto di vista, ovviamente): Joan Tait lavora per una multinazionale, ricopre un incarico importante e sembra condurre un’esistenza ordinaria. Nella vita privata appare confusa, in quella lavorativa si dimostra sostanzialmente conformista e tendente alla passività. Dopo aver incontrato in segreto il proprio ex, torna a casa dall’attuale fidanzato. La cena avviene mentre guardano Streamberry, una piattaforma di streaming con una vasta gamma di proposte (si tratta ovviamente di un meta-riferimento a Netflix stessa).

    Sarebbe una giornata come tante, se non fosse che la coppia scopre la serie Joan è terribile, dove Joan è lei stessa, la protagonista dell’episodio (nella serie di Streamberry, viene interpretata da Salma Hayek). Si scopre che l’azienda ha creato una serie sulla sua vita a sua insaputa, che poteva farlo, perchè era previsto in una clausola nascosta dei termini e condizioni del servizio, e il tutto la manda definitivamente in crisi: non solo perchè si sente sfruttata per l’audience (come il buon Truman Burbank in The Truman Show), ma soprattutto perchè la serie ricalca tutto quello che succede davvero nella sua vita privata (inclusi i dettagli più piccanti). Siamo alle solite, insomma: Black Mirror – in questa sede con la regia di Ally Pankiw e il soggetto di Charlie Brooker – insiste sul consueto registro dedicato alle violazioni della privacy facendo leva sulle nuove tecnologie.

    Si potrebbe discutere indefinitamente su come e quanto si riesca nell’obiettivo, ma sembra che qualcosa sia cambiato nell’andazzo: il registro dell’episodio è sostanzialmente light, non ha nulla dei toni delle origini, e anzi finisce per sfruttare una trovata che sa abbastanza di “pecoreccio” al fine di alimentare  il mood grottesco. È abbastanza inspiegabile come si arrivi alla trovata della defecazione in chiesa (perchè succede anche questo, con una Joan in preda all’esasperazione): non tanto per la trovata in sè, ma per come i personaggi ne parlano e ci ritornano a più riprese. Sembra più di assistere ad un film tipo Un milione di modi per morire nel West (una commedia diretta dall’artefice dei Griffin, Seth Mac Ferlaine, dove l’umorismo segue quella falsariga e risulta in stile stand up comedy) che ad un episodio di Black Mirror, che da sempre presente una sostanziale seriosità alla base del proprio successo.

    Insomma, se uno non prende sul serio una serie del genere – perchè questo succede, se la si mette su quel piano – che ne sarà del resto? L’episodio è stato ben marketizzato per la presenza della Hayek, presenta molte sequenze sopra le righe e non mancano i colpi di scena più accattivanti, ma finisce per essere debole, al netto delle trovate del finale e delle scatole cinesi che lo caratterizzano (quasi nolaniane, verrebbe da scrivere). È la stessa idea di Strade perdute di David Lynch elevata all’ennesima potenza, alla fine: lì si rappresentava il conflitto lacerante tra Es e Superio, qui si vorrebbe simboleggiare  ogni persona / personaggio come il vuoto contenitore di un altro, tanto che nessuno è sicuro di essere se stesso e, come dire, siamo tutti Truman Burbank, ma siamo pure in un film di Nolan, forse anche di Lynch, io stesso non sono sicuro di essere io a scrivere – per non parlare di voi che state leggendo.

    D’altro canto è interessante come abbiano fatto rientrare i deepfake (cioè i video realistici generati artificialmente) nella storia, e l’idea che la loro diffusione di massa possa portare a serie TV basate sulle vite degli abbonati ed interpretati da attori digitalizzati quasi inconsapevoli dello sfruttamento della loro immagine. Questo funziona, senza dubbio, ma non è nemmeno il vero focus della storia. Resta il fatto che Salma Hayek sia probabilmente la migliore interprete dell’episodio, in una originale e autoironica interpretazione di se stessa. Va benissimo che si scomodi un computer quantistico per concepire la potenza di calcolo in ballo, per inciso, perchè non sarebbe potuto essere un server o un Macbook: Streamberry sta creando delle serie TV per tutti i propri abbonati, auto-tutelandosi con un furbesco contratto e investendo sul computer quantistico per sopperire alle necessità di calcolo. Ma anche qui: i terms & conditions che non legge nessuno e che autorizzano futuri abusi sono cose già viste, ci erano arrivati Trey Parker & Matt Stone con l’episodio del 2011 HUMANCENTiPAD, nel quale ignare vittime firmavano termini e condizioni prolisse accettando di diventare un centipede umano (viene da pensare che la coprolalìa fosse più azzeccata, in quella circostanza, per quanto più marcata). L’impressione generale sull’episodio da un punto di vista dell’allerta tecnologica, del resto, potrebbe risultare distorta: un conto sarebbe stato parlare di smart TV, smartphone, dispositivi X o Y che spiano le persone e le registrano, altro conto è lasciare il riferimento talmente vago e inafferrabile che, per assurdo, il personaggio di Joan non si capisce con quali modalità venga spiata.

    Andrebbe tutto bene, insomma, se non fosse che l’impianto narrativo scricchiola: non solo per i motivi indicati, ma anche perchè le reazioni di alcuni personaggi sono poco credibili (eufemismo: quando Joan scopre di essere spiata, in modo peraltro parecchio didascalico, nemmeno fa il tentativo di spegnere o distruggere il proprio smartphone). L’idea dei personaggi parte di un teatrino digitale di cui non sono consapevoli è peraltro vecchiotta, e pur senza citare per forza il sempiterno Matrix vale la pena ricordare che ha almeno un precedente di culto (L’invenzione di Morel). A poco vale, per inciso, che un personaggio specifichi che la serie segue il pattern “X è terribile” perchè quella negatività aiuta l’audience: rischia solo di sembrare molto didascalico, col senno di poi, senza contare che non rende giustizia al comportamento del personaggio di Joan, che ricorda in parte la più tipica profezia che si autoavvera (con il suo modo di fare e di porsi, in sostanza, finisce per essere lei stessa la causa dei problemi che le capitano).

    Si lascia il riferimento tecnologico vago – e questo è considerabile un “delitto”, per un episodio del genere – ma poi si fa riferimento alla circostanza dei dispositivi che spiano le persone per poi mostrare pubblicità a tema, circostanza circoscritta a casi e dispositivi specifici nella realtà, da sempre ventilata dalla qualunque ma mai provata da nessun ricercatore (e dovuta, per quanto ne sappiamo oggi, ad un mix di confusione, imperizia ed effetto primacy). Se fosse vera e provata una cosa del genere, del resto, sarebbe una rivoluzione tecnologica, che ad oggi non è ancora avvenuta – per cui potremmo giustificare la scelta in termini avvenieristici per quanto, anche stavolta, lo si faccia un po’ a fatica. Un conto è darlo per assodato (quando non lo è), insomma, altro conto sarebbe stato porre il problema dell’uso critico delle tecnologie in modo più scientifico (che rimane sacrosanto e desiderabile, ovviamente).

    La serie ha sempre premuto sulla propria orgogliosa “nerdaggine” – che nei primi episodi era a prova del debunker più sprezzante, geek e disilluso del pianeta – ma qui si è fatto un qualcosa di inedito, il che non lo rende esattamente un brutto episodio (le interpretazioni restano di livello e ci si diverte, alla fine), ma il tutto sembra relegato a una dimensione al limite dell’autocelebrativo, da parodia di se stessa. E questo, probabilmente, sarebbe stato meglio non farlo – pena rischiare di autodistruggere l’impianto stesso della serie.

    Loch Henry (stagione 6, episodio 2, 2023)

    Questo episodio per fortuna è qualitativamente superiore al precedente, per quanto riutilizzi topòs classici del cinema dell’orrore di due decadi fa: a cominciare da V/H/S (la storia è quella di due giovani registi che vogliono esordire), passando per  Le cronache dei morti viventi, ma potremmo citarne tantissimi altri, limitandoci a ricordare il clamoroso The last horror movie ma soprattutto la trilogia horror August Underground, un prodotto ultra amatoriale e talmente assurdo che in pochi, oggi, ricorderanno (era il racconto degli omicidi di alcuni sedicenti autentici serial killer girato interamente in soggettiva).

    Partiamo dall’inizio: Loch Henry è ambientato nella svuotata provincia scozzese, dove un ragazzo (Davis, aspirante regista) presenta la propria nuova fidanzata, Pia, alla mamma. L’impatto non sembra dei migliori: la donna si mostra velatemente scontrosa e non troppo disponibile, per quanto la convivenza in casa sembri volgere al meglio. I due ragazzi hanno in mente di girare un documentario su un argomento di nicchia (per usare un eufemismo), ma presto cambieranno idea.  Parlando con l’amico Stuart, infatti, viene rievocata la storia inquietante di  Iain Adair, un abitante del posto con problemi di alcol che si era scoperto essere un feroce assassino seriale. Il progetto di produrre un banale documentario va a farsi friggere, e i ragazzi decidono di raccontare questa storia, girandola volutamente con le vecchie VHS per accentare l’effetto da horror POV. Siamo nel meta-meta-cinema, dato che vediamo un attore che interpreta un regista che gira un film che, a sua volta, diventerà il film della sua storia.

    Ricompare l’emittente Streamberry, avida e priva di scrupoli nel voler fare audience, e  si nota un ottimo livello narrativo, una storia più solida della precedente, meglio diretta e anche meglio interpretata, più credibile, narrativamente compatta, per quanto i fan dell’horror old school non vi troveranno nulla di sconvolgente. Anche perchè lo shock per la sorpresa finale (che è doppio o triplo, alla fine) non può essere più grande di quello indotto da un qualsiasi POV ben fattio, considerato che non è manco più la novità di qualche decennio fa e che, d’accordo citare The Blair Witch Project, ma esistono prodotti come [REC] da molto tempo.

    Insomma, la valutazione qui è da considerarsi molto positiva, per certi versi è un omaggio sentito al cinema horror POV e funziona in toto, incluso il finale clamoroso e quel tocco di tragedia romantica che, in fondo, non fa che accentuare la critica sociale alla disumanizzazione collettiva e, ancora una volta, agli abusi tecnologici. Il punto, semmai, è che il riferimento agli eccessi tecnologici sembra quasi di troppo, e un semplice smartphone usato di sfuggita non sembra abbastanza per giustificare la sua presenza in una serie come Black Mirror (mentre avrebbe fatto la propria figura, per intenderci, in un contesto come The ABCs of Death). Probabilmente potrà sembrare forzoso il riferimento alle vetuste VHS – che sono una tecnologia di qualche secolo fa, ormai – e quasi per nulla a smartphone e computer, ma la sostanza (in questo caso) sembra poter giustificare l’eccezione.

    Beyond the Sea (stagione 6, episodio 2, 2023)

    Episodio ambientato negli anni 60, in una realtà alternativa: due astronauti sono stati coinvolti in una singolare missione spaziale, appoggiandosi a due rispettivi androidi che sono la loro replica fisica esatta. In questo modo posso trasferire la propria coscienza di sè istantaneamente e all’occorrenza: sull’astronave quando c’è da lavorare, sulla terra quando c’è da stare con moglie e figli. La macchina che permette di farlo è simile ai lettini della pillola rossa di Matrix. Una notta delle due repliche viene coinvolta in un incidente mortale, modello eccidio di Cielo Drive: una banda di hippie (che considera gli android immorali e non naturali) si introfula in casa di notte e fa strage della famiglia di David, inclusa la sua replica.

    La situazione degenera: l’autocoscienza di David è rimasta sull’astronave, assiste al funerale dalla cabina dell’astronave (non avendo più una replica a cui appoggiarsi) e si fa progressivamente travolgere dalla disperazione e dalla solitudine. Motivo per cui, per evitare che faccia gesti sconsiderati sull’astronave, i due astronauti concordano che David possa usare il corpo Cliff per vivere a casa sua e superare il trauma. Naturalmente la trama è destinata a complicarsi, fino a esibire le contraddizioni tipiche dei film basati sui doppelganger e sui paradossi di scambio di personalità. I toni dell’episodio sono totalmente cronenberghiani: non solo perchè si pone l’accento sulle ambiguità delle macchine umanoidi, ma anche perchè è in gioco il concetto filosofico di autocoscienza (oltre a quello di scambio di personalità), ed è in gioco (come in Blade runner) la logica dell’amore: ci innamoriamo dell’esteriorità di una persona o della sua totalità? Cosa succederebbe in caso di swap di autoconoscienza ai nostri affetti? Si pone peraltro un mindblow psicoanalitico considerevole, giocato sull’Io e l’immagine dell’Io: Josh-Cliff picchia quello che è, realmente, il figlio di Josh-David: la cosa non disturba David più di tanto, ma pone il problema dell’ambivalenza del gesto agli occhi del bambino (e agli occhi della madre, che è attratta dall’esteriorità quanto respinta dall’interiorità della replica).

    Episodio validissimo, originale, coinvolgente quanto contro-intuitivo: viene sovvertito il principio alla base di tanta fantascienza (per cui uomini e androidi sono e rimangono eticamente distinguibili, cosa che qui non avviene), e si stabilisce un curios scambio di autocoscienze che, per quanto concetto quasi squisitamente concettuiale, rischia di non essere comprensibile di primo acchito per parte del pubblico. Josh Hartnett fa un lavoro considerevole sul proprio personaggio, considerando che deve interpretare sia David che Cliff e che non esistono tratti distintivi visuali che possano rendere l’idea, ma si affida tutto all’atteggiamento (più estroverso in veste originale da David, più introverso in quelle di Cliff).

  • Terrore nello spazio è la fantascienza futuristica di Mario Bava

    Da non confondersi con il successivo Terrore dallo spazio profondo, Terrore nello spazio di Mario Bava è un film classico del puro fanta-horror.

    Ambientato interamente durante una missione spaziale, racconta di un equipaggio di venti persone dentro due navicelle, i cui astronauti si imbattono in una civiltà aliena ostile. Questo almeno è ciò che intuiscono dalle prime battute: la nave viene attratta da un pianeta sconosciuto ricoperto di nebbia, la gravità diventa quattro volte più del normale e fa perdere i sensi all’equipaggio, come se non bastasse – non appena atterrati – gli astronauti iniziano ad azzuffarsi tra loro senza una ragione apparente. Solo l’intervento di autorità del comandante riesce a evitare il peggio, mentre l’altro equipaggio è meno fortunato. Si prosegue la storia di un gruppo di sopravvisuti costretti a lottare contro alieni ostili (per quanto poi il finale suggerisca che non si trattava di terrestri, grazie a un piccolo colpo di genio della sceneggiatura), mentre l’eterna lotta tra Bene e Male è in realtà una lotta intestina, a causa della tendenza maggioritaria ad autodistruggersi da parte dell’uomo.

    Non è difficile accorgersi fin dalla prima visione che l’orrore di cui si parla in questa gemma della fantascienza italiana è puramente psicologica, interiore, accennata, ossessiva – tant’è che a un certo punto una delle persone dell’equipaggio afferma che l’alieno parassita è come se ingaggiasse una “lotta interiore” dentro se stesso. Questo naturalmente serve anche a compensare la scarsità di effetti speciali per un film che riesce, con pochi mezzi e tante idee, a risultare comunque visionario: il pubblico viene sorpreso alle numerose trovate che vengono tirate fuori, inclusa la presenza di corpi posseduti da alieni parassiti che si comportano di fatto come zombie (La notte dei morti viventi, vale la pena ricordarlo, uscirà solo tre anni dopo questo film). Come ulteriore nota di merito si può rilevare che i protagonisti seguono una sorta di religione materialista, ispirata ai principi di natura scientista e che parla degli atomi delle particelle come se fossero espressione di volontà divina (scena del funerale degli astronauti), con preghiere che sembrano tratte da uno scritto di Deleuze e Guattari. Questo dettaglio non è un vezzo, ma possiede una funzione specifica all’interno della storia – come sarà possibile osservare visionando il film per intero. In tal senso ci sentiamo di dire che terrore nello spazio sia sicuramente uno dei film di sci-fi più avanguardistici mai girati, sia per lo svolgimento della storia che per le conseguenze tutt’altro che ovvio della conclusione della stessa. La sceneggiatura sempre guardare a un futuro prossimo in cui bisognerà liberarsi dell’ottica e egocentrica che caratterizza gli esseri umani, in favore di una sorta di internazionalismo spaziale che sembra peraltro possedere vaghi spunti accelerazionisti (civiltà aliene che cercano posti in cui poter sopravvivere, più rapidamente possibile e per evitare di estinguersi).

    Visto negli anni successivi, gran parte della critica ha suggerito che questo film possa aver grandemente ispirato Ridley Scott, e questo sia per Alien (1979) che per Prometheus (2012). Non ci sentiamo di dar loro torto: per quanto i film di Scott brillino l’uso di effetti speciali e per la componente smaccatamente horror, è assodato che questa caratteristica sia archetipica di già di questo film, ricordando che siamo nel 1965, tre anni prima che uscisse un film avvenieristico come 2001 Odissea nello spazio. Gli elementi narrativi sono del resto analoghi: si tratta sempre di missioni di astronauti alla ricerca di vita su pianeti sconosciuti, nei quali troveranno resti di antiche civiltà – e soprattutto alieni parassiti. Quest’idea del parassitismo come villain della storia è naturalmente comune a un altro cult del periodo come l’invasione degli ultracorpi, con la differenza che il clima claustrofobico viene costruito all’interno di una angusta astronave e, soprattutto, come poi farà John Carpenter ne La cosa, il pubblico non sa quale degli astronauti sia infetto dal parassita quale invece no.

    Gran parte del film viene girato all’interno di un teatro di posa in condizioni proibitive – Bava ebbe a dire, in una celebre intervistaVorrei che la gente, la critica, si rendesse conto delle condizioni nelle quali sono costretto a girare i miei film.
    Per Terrore nello spazio non avevo nulla, ma realmente nulla a disposizione. Dico, c’era il teatro di posa, tutto vuoto e squallido, perché mancavano i soldi: avrebbe dovuto rappresentare un pianeta. Che ho fatto allora? Nel teatro affianco c’erano due grosse rocce di plastica, residuato di qualche film mitologico, le ho prese e messe in mezzo al mio set, poi per coprire il pavimento ho seminato quegli zampironi fumogeni e ho oscurato lo sfondo, dove c’era solo la parete bianca. Poi, spostando quelle due rocce da un posto all’altro ho girato il film. Le sembra possibile?” – costringendo il regista a ricorrere a stratagemmi di vario genere.

    La fantascienza pre-ballardiana come questa sa essere un genere decisamente complesso dal punto di vista scenografico, chiaramente, ma il fatto che si noti poco la mancanza di mezzi depone per far credere che si tratti, a ragione, di uno dei migliori film di fantascienza italiani mai girati. Tanto più che si tratta dell’unico esperimento di Mario bava nel genere, da lui molto amato eppure prodotto soltanto in questo unicum. Una tradizione che in Italia non ha mai mai preso troppo piede, in effetti, e sicuramente le prime avvisaglie si vedevano già allora: motivo per cui questo film rimane un piccolo gioiello del genere, ricco di trovate creative e sottile ironia (il finale del film è l’apoteosi in tal senso: per non rischiare di perdersi nello spazio, l’equipaggio alieno decide di atterrare proprio sul pianeta Terra).

    Distribuito negli USA con il titolo Planet of the vampires, incassa 251 mila dollari dell’epoca (per un film di fantascienza del 1965 sembra ancora più notevole), mentre la sceneggiatura è tratta da un racconti di Renato Pestriniero (Una notte di 21 ore, disponibile integralmente su altrimondi.org). Il film viene coprodotto da AIP e Italian International Film, con il finanziamento della spagnola Castilla Cooperativa Cinematográfica.

    La locandina dell’edizione americana, per inciso, promette senza mantenere: si vedono gli astronauti combattere con le creature di cui, nel film, vediamo solo gli scheletri (probabili esseri di altri pianeti non scampati al peggio).

    Immagine tratta da https://hotcorn.com/it/film/news/alien-40-terrore-nello-spazio-mario-bava-film-cult-ridley-scott/
  • Le colline hanno gli occhi è l’orrore sociologico di Wes Craven

    Una famiglia con l’auto in panne si ritrova casualmente in una zona desertica: poco dopo si imbatte in un gruppo di criminali cannibali. Les jeux sont faits.

    La seconda opera di Craven, che focalizza ancora una volta un horror “sociologico” estremo e molto disturbing, incentrato sul comportamento di una famiglia ordinaria trovatasi in una situazione molto rischiosa, e capace di diventare crudele per sopravvivere. Se state pensando di averla già sentita: quasi certamente avete visto qualche clone di questo film.

    Suggestioni simili a quelle del precedente L’ultima casa a sinistra (non manca la solita citazione “fallica” di Freud) di cinque anni prima: Craven rimescola le carte del rape ‘n revenge e crea “Le colline hanno gli occhi“, un film in cui il regista si autocita con una certa classe, riproponendo l’idea del gruppetto di cannibali nascosti, in modalità forse improbabile nella realtà, nel deserto californiano. Non mancano personaggi stereotipati, tra cui la famiglia puritana, il poliziotto in pensione che la sa lunga e gli umani deformi che vivono lontano dalla civiltà. C’è da dire che la qualità audio e video non è certo elevata, del resto stiamo parlando di un low-budget puramente settantiano e forse qualcuno potrebbe trovare più interessante guardare il remake del 2005: personalmente non ci riesco, è più forte di me, rifare i classici è una trovata a mio avviso oscena nella quasi totalità dei casi.

    Questo film è, peraltro, il progenitore di una trafila di b-movie assai su questa falsariga, tanto che (ad esempio) Skinned Deep ne ricalca fedelmente più di una dinamica; inoltre è possibile, a mio parere, qualche parallelismo con Funny Games, anche se lì il regista ha ribaltato completamente l’assunto di Craven, mostrando vittime inermi nelle mani dei cattivi, completamente incapaci di reagire. Il concetto di fondo non cambia: lotta per la sopravvivenza tra mondi differenti, e forse la nota sociologica più curiosa si registra nell’inquietante parallelismo tra due mondi diversi solo in apparenza. Non il top dell’originalità e dello spunto di discussione, considerando le sassate scagliate anni prima già da Hooper (e forse da qualche altro regista indipendente), ma alla fine si tratta di un buon horror e questo dovrebbe essere messo in primo piano rispetto al resto. Tra le curiosità, i nomi dei “cattivi” che corrispondono a quella degli dei della mitologia classica (Plutone, Mercurio, Giove e Marte); probabilmente cult anche solo per il ferocissimo finale, da vedere senza esitazione anche oggi, ma non per tutti gli stomaci.

  • Scappa – Get out: l’horror anti-razzista del nuovo millennio

    Chris e Rose sono fidanzati da pochi mesi: lui è un aspirante fotografo afroamericano, lei una classica ragazza da college. I due decidono di trascorrere un fine settimana a casa dei genitori di lei: all’inizio sembrano simpatici, cordiali e (figuriamoci) non razzisti. La madre, in particolare, sostiene di poter curare il vizio del fumo del ragazzo ricorrendo all’ipnosi.

    In breve. Un saggio horror sul razzismo e le annesse implicazioni sociali odierne, con richiami ai grandi titoli del passato (da Society a La casa nera). Imperdibile.

    Girato in soli 23 giorni e, per quanto ne sappiamo, senza particolari pressioni produttive (è l’opera prima di Jordan Peele, che poi consacrerà la propria fama con il successivo Us), Get out si apre sulla falsariga di Halloween di John Carpenter, una gigantesca citazione al classico slasher (tanto che, secondo il regista, Michael Myers rappresenterebbe “il perfetto vicino di casa bianco“).

    Il soggetto è stato scritto da Peele stesso, che scrive una storia con alcuni punti in comune con Il fu signor Elvesham (un racconto di H. G. Wells del 1896, che è stato anche girato come episodio di una serie TV su Sky Arte). Nel farlo, il regista cristallizza alcuni punti di riferimento del cinema che ama – a cominciare da La notte dei morti viventi – e rielabora una storia che presenta una componente originale (l’uso massivo dell’ipnosi, una pratica da horror sovrannaturale in un film che più materialistico non si può) per un film che, in altri tempi, sarebbe stata pura exploitation. Varrebbe la pena di ricordare anche La casa nera, uno degli horror più sociali e meno citati di Wes Craven, con il quale ci sono vari punti di contatto dentro Get out.

    Scappa – Get out per inciso non è uno slasher – o almeno non lo è nella sua definizione canonica: è più un mix di generi che vanno dalle home invasion ai thriller più psicologici, senza dimenticare le lezioni degli horror più prettamente politici di Yuzna, Romero e Carpenter. In particolare si parla di razzismo, un male radicato nella società (non solo) americana, e che viene rappresentato grottescamente all’interno di salotti di lusso, giardini curatissimi, bianchi raffinati e apparentemente impeccabili ed una nota anomala, ovvero personaggi afro-americani vestiti come i personaggi di metà ottocento de La capanna dello zio Tom. A questo si aggiunge una progressiva invasività dei personaggi, che incrementa il disagio del protagonista e lo fa diventare una sorta di Billy attualizzato (l’indimenticabile horror di Yuzna Society).

    Scappa – Get out (un titolo che, per certi versi, potrebbe quasi fuorviare e far pensare ad una commedia pura, per quanto Peele lo abbia scelto come titolo per citare una frase abusata in qualsiasi horror) risulta un film moderno ed efficace, mai appesantito e mai didascalico – difetto comune, quest’ultimo, in questo sottogenere. Un genere che Peele reinventa quasi da zero, disseminando tra una scena inquietante e l’altra alcuni gustosi siparietti umoristici (black humour, in tutti i sensi) con personaggi sempre molto teatrali e caratterizzati. E senza polarizzare le posizioni, soprattutto, dato che i classici poliziotti insulsi che non credono alla storia denunciata dall’amico del protagonista sono, volutamente, tutti di colore. Un film, peraltro, molto equilibrato dal punto di vista visuale, contraddicendo la tendenza moderna di caricare la violenza fino all’estremo, con risultati spesso fuori target (penso ad esempio a Frontiers).

    Il film è del 2017, ed è stato scritto durante la prima presidenza di Barack Obama, periodo in cui sembrava che il razzismo fosse un qualcosa del passato – cosa poi tragicamente smentita dalle cronache recenti annesse al Black Lives Matter. La scena in cui il protagonista precipita nell’oblio, peraltro, nel Sunken Place (traducibile più o meno come il “luogo profondo”), è stata tanto toccante da scrivere che, per quanto dice lo stesso Peele, avrebbe pianto dopo averla riletta (ed è probabilmente il motivo “tecnico” per cui lo fa Chris). La spiegazione del Sunken Place resta forse poco ovvia e vale la pena spenderci due parole: è la dimensione in cui la voce black non viene ascoltata, nonostante ogni vittima urli la propria disperazione, ed è anche lo status in cui la società tutta è ormai diventata sorda al problema. Vale la pena citare la definizione fornita dall’Urban Dictionary, che recita più o meno “quando si vive in un totale stato di sonnolenza, soprattutto a riguardo ad una sistematica avversione nei confronti verso le ingiustizie razziali“. La rappresentazione di questa zona oscura è raggelante (quanto vagamente artigianale), e funziona alla grande: guardiamo attraverso gli occhi del protagonista, e lo vediamo precipitare nel vuoto dell’universo mentre la realtà, impressa su uno schermo TV, si allontana sempre di più.

    Chris e Rose, poi, sembrano la coppia perfetta: assertivo e mite lui, mentalmente aperta e dolce lei. Sembra il quadretto perfetto che prefigura la classica commedia leggera americana, a cominciare dai presupposti e dalle piccole gelosie che ne derivano. La Williams, in particolare, è tanto convincente da risultare archetipica (un personaggio che sembra tratto da un qualsiasi slasher che contrapponga giovani del college e villain di turno). Il disagio del ragazzo, comunque, già prevenuto di suo, si accentua una volta a casa di lei, dove scopre che i discorsi della famiglia di lei sono sempre più impertinenti e razzisti e che, soprattutti, tutti coloro che hanno il colore della pelle uguale al suo sembrano imbabolati e inermi. Peele gioca più volte la carta della sorpresa narrativa, rivolgendo un clamoroso messaggio anti-razzista rivolto a risvegliare le coscienze, a non addormentarsi e a non farsi condizionare dall’andazzo conformistico generale. lo stesso andazzo che dibatte di razzismo nei salotti radical chic, per poi arrivare a sminuire o negare il problema, alla meglio banalizzarlo e ricordurlo a forme di complottismo, vittimismo o paranoia.

    Peele suggerisce – e con Us finirà per ribadirlo – che il problema è tutt’altro che risolto, e che deve essere affrontato da tutti con grande coraggio (c’è una citazione abbastanza clamorosa durante la fuga di Chris: dentro l’auto che sta usando per scappare, infatti, trova un misterioso elmo medievale che, a quanto suggerisce IMDB, si ricondurrebbe alla frangia dei White Knights of the Ku Klux Klan). Peele dirige un gran film ricorrendo ad uno dei genere più flessibili e controversi per lanciare un messaggio del genere (l’horror), con buone idee, grande cultura cinematografica e una trama disseminata di twist sconvolgenti.

  • Paura 3D: sarebbe stato ugualmente bello anche senza 3D

    Tre giovani della periferia romana si intrufolano nella villa di un ricco marchese: sarà l’inizio di un incubo …

    In breve. Il cinema horror italiano non è solo trash e arte di arrangiarsi, come certa editorìa prova a farci credere: è vivo e vegeto anche nel 2012 – e i Manetti Bros. ne danno una prova concreta al pubblico. Senza strafare, senza ammorbare il pubblico con citazioni inutili e mantenendo un vivido realismo permeato di nichilismo sociale ed etico. Un piccolo grande film, in bilico tra il primo Craven ed i fasti dei thriller-pulp del passato, strizzando l’occhio al più attuale Eli Roth: “Paura” passerà probabilmente inosservato – neanche fosse un polpettone posticcio come tanti, ma è in realtà da procurarsi e visionare ad ogni costo.

    Antonio e Marco Manetti ridefiniscono, a partire da un titolo secco quanto espressivo nella sua semplicità (ma il titolo originale era un più evocativo “L’ombra dell’orco“) nuovi canoni nel cinema di genere all’italiana: quello che solitamente fa rabbrividire la critica e parte del pubblico prettamente horror, mentre questi finiscono per non apprezzare l’eccessiva artigianalità del risultato. Non è il caso dei due registi in questione: impostano una storia efficace quanto scarna, con mezzi di tutto rispetto e nella quale i personaggi sono poco approfonditi e non c’è spazio per buonismo o messaggi rassicuranti. Esce così fuori in tutta la sua interessa una sorta di “anima nera”, che si esprime in una crudeltà – degna di un exploitation settantiano – insita nei personaggi e, di fatto, nella storia in sè. Dalla crudeltà del quotidiano a quella reale, fisica, della sofferenza inflitta da un carceriere contro le proprie vittime: e se state pensando a Hostel ed alle saghe revenge-movie, siete sulla giusta strada. Il dolore umano diventa, come spesso in questi scenari, condizione necessaria per la sopravvivenza stessa del genere e, guarda caso, anche dei protagonisti stessi. Una crudeltà cinica, senza speranza e senza redenzione, che finisce per richiamare un’atmosfera malsana vista a livelli sostanzialmente simili (qui meno splatter) qualche anno fa nel notevole “Il bosco fuori”.

    Siamo nella Roma di oggi: un gruppo di giovani di estrazione sociale differenti (e con ambizioni altrettanto diverse) vive le proprie giornate immerso nella noia di quartiere, senza la speranza di riuscire a trovare uno sbocco, una via d’uscita per emergere. Un giorno uno di loro, meccanico di professione, prende in “prestito” la macchina di un facoltoso marchese della zona, il quale è partito per un lungo viaggio nel fine settimana ed ha lasciato inavvertitamente le chiavi della propria villa nel cruscotto. La tentazione di visitare la lussuosa abitazione, temporaneamente vuota, è fin troppo forte, tanto che i giovani passano ad organizzare un bel party; evocando la villa accanto al cimitero di fulciana memoria, e richiamando alla memoria pellicole cult del passato, è a questo punto che esce fuori un’inquietante presenza che sembra aleggiare in cantina. “Paura” va diritto al sodo, e non si perde in citazioni che, per una volta, sarebbero sembrate superflue o di poco conto: poca teoria, molta pratica e – come diretta conseguenza – tanta azione, violenza, gore e cinismo. Le scene clou del film, per quanto possano risultare parzialmente già viste (in fondo il cinema di genere rielabora stereotipi da decenni), rimarranno profondamente impresse nella memoria dello spettatore: basti citare le sole scene di tortura, vagamente “torture porn” e neanche troppo insostenibili,a parte l’agghiacciante scena della rasatura, sottolineata da una ferocissima colonna sonora black metal (!). E se questo sembra di poco conto (e non lo è), i Manetti Bros. non soltanto recuperano pesantemente la fisicità che gli horror mainstream hanno parzialmente smarrito, ma la coniugano in un innesto di accadimenti vorticosi che trova il proprio zenit nei minuti finali.

    Momenti che restituiscono un senso alla stereotipata “paura del buio”, lasciandola sempre reale e mai rarefatta, a livelli talmente pregevoli che forse solo nel finale di [REC]. Roba che farà sospettare un nostalgismo revival da altri tempi (naturalmente gli anni 80, questi maledetti/benedetti…), ma la pellicola è tutt’altro che monotematica e non mancano spunti musicali di altro genere: Colle Der Fomento, Death SS, Sadist e The Wisdoom tanto per fare alcuni nomi. Un film che non si ferma agli stereotipi, quindi, e punta dritto alla sostanza, modellando una pregevole forma esaltatabile eventualmente da un suggestivo (ma non indispensabile, a ben vedere) 3D.

Exit mobile version