FOBIE_ (170 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Flesh of the void: l’horror criptico di James Quinn

    Flesh of the void: l’horror criptico di James Quinn

    Girato interamente in Super 8 e 16mm, Flesh of the void è un horror sperimentale austriaco diretto dall’esordiente James Quinn, classe 1995 nonchè founder della Sodom & Chimera Productions, specializzata (secondo la bio ufficiale su IMDB) in film diretti quanto oscuri, con l’obiettivo di creare un forte impatto emotivo. In altri termini Quinn sembra ispirarsi alla tradizione della shoxploitation e dei finti snuff modello August Underground, abbastanza noti a chiunque conosca il cinema anni novanta e prima di questo film, probabilmente, relegati quasi nel dimenticatoio.

    Quinn dirige Flesh of the void seguendo i dettami dell’arthouse, impreziosendo la propria scelta artistica sfruttando l’ormai introvabile pellicola Kodachrome, ad esempio, e ufficializzando solo i nickname degli attori coinvolti. Espediente peraltro determinato più dal desiderio di misticheggiare e far parlare di sè che da un’effettiva necessità, dato che quasi tutti i personaggi sono diversamente mascherati (maschere antigas, bianche teatrali e, seguendo la tradizione di Leatherface e di Ed Gein, in pelle umana). Gran parte dell’opera è composta da oscure riprese paesaggistiche in cui si alternano, a seconda dei momenti, situazioni degenerate che hanno a che fare con la morte e con il sesso (a volte con entrambe, incluso un crocifisso usato da una donna per scopi ludici e un pene, visibilmente di gomma, inquadrato a lungo e in primo piano anche qui per atti onanistici).

    Chiamatelo arthouse, o se preferite con espressioni elitarie quanto ridicole tipo film artistico (come se i film mainstream non siano, in qualche caso, artistici) oppure, peggio ancora, film d’autore (come se gli altri registi non possano essere autori): sta di fatto che l’horror e lo sperimentalismo confermano ancora una volta un rapporto ambivalente, decisamente perverso, nel senso di proteso alla crudeltà ad ogni costo. Non solo: con in più la pretesa, ancora più radicale, di dire qualcosa. E non è per nulla facile farlo, vale la pena di scriverlo a chiare lettere.

    Non serve essere per forza David Lynch – e non bisogna necessariamente creare il nuovo Eraserhead, il rispetto è quasi sempre dovuto a chiunque provi a fare cinema anche con pochi mezzi – ma sarebbe anche ora di sgombrare il campo dalla mistificazione per cui l’horror sperimentale sia un genere da intellettuali (è troppo provocatorio per esserlo sul serio, anzi a ben vedere è spesso anti-intellettuale per sua natura, un po’ come avveniva col primo heavy metal, ovviamente prima che diventasse un vezzo da musicisti snob). Un rapporto decisamente infido, insomma, e questo anche – forse soprattutto – per chi scrive di questi film, perennemente in balìa di tendenze estremistiche che vanno da “è una stronzata” a “è un capolavoro“, senza vie di mezzo.

    Utilizzando una colonna sonora (decisamente intrigante) di natura dark ambient e con numerosi spunti industrial, Flesh of the void è un catalogo di efferatezze quasi sempre sessuali, più o meno allusive o esplicite, senza soluzione di continuità (il film non ha trama, o alla meglio la stessa è affidata ad un insondabile flusso di coscienza), intervallate da inquietanti monologhi fuori campo, che sembrerebbero provenire da un “orco” alla ricerca di bambini da cui rapire (oppure, se preferite, la voce distorta di una donna che ha appena smarrito il figlio). Una prima metafora che potrebbe essere interessante e riguardare la Morte, che ghermisce senza distinzione di età. Poco dopo, pero’, si va oltre e quasi ci si dimentica del topic mortifero, concentrandosi su sentimento anti-religioso, efferati killer e incomprensibili danze in un bosco da parte di una misteriosa figura femminile.

    Oscuri rituali esoterici o satanici, figure che indossano maschere rituali, carcasse di animali inquadrate meticolosamente, atti sessuali espliciti (anale, masturbazione, fellatio), loschi individui incappucciati coinvolti in rituali (?), imprecisabili micro-narrazioni che si consumano nel tempo di qualche minuto e di cui, con l’incedere della pellicola, è sempre più difficile trovare un senso. Ostinarsi a trovarne uno, in questi casi, è la cosa peggiore che si possa fare, per cui tanto vale farsi investire dalla suggestione e accettarla: senza contare che il pluricitato parallelismo con Begotten è accettabile, forse, in misura minore di quanto non dica l’intuito (il lavoro di Mehrige aveva un messaggio ambientalista sia pur criptico, Flesh of the void è un film comunque diverso, più introiettato nella testa di chi l’ha concepito).

    Senza contare che ci sono stati film più simili come Der todesking, il che è intrigante come parallelismo ma rischia di lasciare il tempo che trova: sono lavori figli di un’epoca diversa, tempi in cui fare film del genere era considerato tutt’altro che artistico, nel senso dell’arthouse che intendiamo oggi. Tempi in cui la povertà delle immagini era figlia di mezzi tecnici amatoriali, mentre qui – se da un lato sappiamo che il film è stato auto-prodotto senza finanziamenti – non è chiaro se si tratti di un manifesto programmatico (si pensi a August Underground, tanto per citarlo) oppure una mera provocazione punk.

    I tempi sono cambiati e non è più tempo, forse, di fare l’ennesimo Nekromantik: bisogna fare i conti con una sostanziale inversione di sensibilità, con il fatto che ci si scandalizza sempre meno per tutto, che il peccato è sempre più ordinary administration, che internet partorisce i mostri dello snuff (per inciso: mostrare una fellatio forzata in un clima mortifero è shockante, ma lo è molto meno a causa del dilagare di infinite, impensabili parafilie ricercabili con un click). Senza contare il fatto che – lo scriviamo senza ostilità artistica verso alcuno, s’intende – difficilmente si diventa “registi di culto” a comando, tantomeno infarcendo un film criptico di velleità artistiche originali quanto, alla prova dei fatti, poco comprensibili oggettivamente. Facendo finta di non vedere, tra l’altro, che anche le scene più esplicite viste in questo film ricordano più un videoclip uncensored che un vero e proprio lungometraggio, alla lunga, e questo non depone in favore di un giudizio positivo. Che poi, delle due l’una: o film del genere sono una inevitabile saga (concettuale, filosofica e/o narrativa) di vari cult inguardabili, osceni o incompiuti che siano – per cui sempre ne verranno fatti, e pace – oppure non ha mai avuto senso fare film del genere, con buona pace dei fan o di certa critica, alla fantozziana ricerca dell’immarcescibile bello che nessuno aveva notato.

    Flesh of the Void immagina, a detta della sinossi ufficiale, cosa sia davvero la morte casomai, in un certo senso, non si rivelasse il pacifico spegnersi di una vita: in tal caso sarebbe giusto quella carovana di orrore e incubi concentrici, incentrati su tutte le cose più sgradevoli che possano venirvi in mente, riassunte in circa un’ora buona di riprese. Un presupposto ad oggi, peraltro, parzialmente falsato dai tempi in cui viviamo, che vedono minacce di morte più condizionanti (dal terrorismo dei primi anni 2000 fino alla pandemia), per cui uno potrebbe anche domandarsi, lecitamente, di cosa si stia davvero parlando in lavori del genere, dato che manca il sottotesto per definizione. Vale anche la pena di ricordare che gran parte del focus narrativo dell’opera è incentrato su varie forme di parafilia, che vanno dall’esibizionismo all’autoerotismo voyeur e pedofilo (la critica al mondo della chiesa sembra sostanziale) fino al vero e proprio stupro, con particolare attenzione ai rapporti fetish omosessuali e all’onnipresenza del pene (e del dito mozzato) quale simbolo fallico degradato. Strano che la critica non si sia ancora inventata etichette come explicit porn horror, per quanto ovviamente le etichette siano anch’esse ridicole e riduttive in ogni caso.

    Un film comunque premiato in vari festival del genere, destinato agli estimatori del sottogenere e praticamente a nessun altro, dandosi la possibilità di guardarlo (cosa a cui non siamo perfettamente riusciti, per la verità) senza pensare di stare assistendo ad un gigantesco videoclip black metal.

    Flesh of the void è stato disponibile a noleggio e per l’acquisto su Vimeo, con altri tre corti sperimentali in omaggio: Free the crow (simbolico quanto difficilotto da capire), The beauty of which that is fucking ugly (evidentemente sarcastico: un monologo poco comprensibile, paesaggi industriali che culminano su un immancabile uomo incappucciato che si masturba) e Conjure, forse il migliore dei tre, dato che sembra voler omaggiare giusto Nekromantik. Ad oggi, il film non sembra purtroppo reperibile da alcun canale ufficiale (agg. al 13 luglio 2022)

  • A l’intérieur è il capolavoro horror che ci guarda dentro

    Vigilia di Natale, Parigi: le rivolte delle banlieue sono in pieno svolgimento. Sarah, una fotografa professionista, è al nono mese di gravidanza: solo quattro mesi prima è scampata miracolosamente ad un incidente automobilistico in cui ha perso il compagno, e vive da allora in stato di depressione. Decisa a trascorrere la sera in solitudine, riceve la visita di una misteriosa donna che dice di volerle parlare.

    In breve. Un gran film: avvincente, diretto e molto ben congegnato. La tematica delle barricate domestiche contro il maniaco di turno non è nuova, ma qui viene sviluppata con modi e mezzi diversi dalla media. La storia è trasposta in una dimensione puramente tragica, mai artefatta ed estremamente realistica. À l’intérieur omaggia senza fronzoli (e senza inutili autocelebrazioni, soprattutto) almeno due classici della storia del cinema (il Romero più celebre ed il Carpenter più popolare) e, per la sua fortissima personalità e ritmo, è forse uno dei migliori horror recenti mai realizzati.

    È abbastanza ovvio che la storia di una donna incinta, di per sè, crea facili presupposti per qualsiasi storia dell’orrore: se a questo si aggiunge uno scenario claustrofobico e senza scampo, che evoca direttamente la casa in cui tentano di rintanarsi gli umani per contrastare l’invasione di zombi, ci si convince facilmente che si tratta di un film davvero fuori dalle righe. Soprattutto è apprezzabile il fatto che l’argomento venga affrontato con un certo equilibrio: non certo con la delicatezza di una favola per bambini, beninteso, ma neanche mediante le sadiche esagerazioni di un film controverso come Snuff 102.

    I corpi, in questo film, sono ben lontani dall’essere dei meri contenitori o inermi vittime del perverso burattinaio di turno: la protagonista Sarah, ferita quasi a morte sia fisicamente che mentalmente, mostra un’estetica da guerriera per “naturale necessità”, relegata ad una dimensione quasi ascetica di sofferenza ed al solo fine di proteggere il nascituro. Tale sfaccettatura, per quanto spesso accoppiata (per stile e nazionalità) ad un film come Martyrs, non ha qui nulla di spirituale, e questo perchè il film è materialista in senso biologico: dalla vita della bella Alysson Paradis dipende quella del figlio, lo spettatore lo sa dall’inizio e su questa semplice assunzione costruisce empatia con la protagonista, vive la vicenda assieme a lei e scusate se è poco. Di fatto la costruzione di sequenze di tensione interminabili, oltre ad infiniti colpi di scena (mai prettamente sensazionalistici, a parte forse nel finale) fa emergere un conflitto esasperato all’ennesima potenza: da un lato una partoriente indifesa e sola, dall’altra una sadica donna in nero che sembra non offrire altri argomenti se non un enorme paio di affiliatissime forbici. À l’intérieur finisce così per diventare uno dei film più spaventosi degli ultimi anni, e la fama che lo ha accompagnato appare del tutto giustificata anche solo per il ritmo forsennato – sostanzialmente privo di momenti morti – che il regista è riuscito a creare.

    Merito in parte dell’interpretazione della Paradis, personaggio perfettamente credibile e dai tratti profondamente umani che finirà per richiamare – seppur per brevi accenni – un’eroina da revenge movie di altri tempi, che non accetta di essere un mero contenitore di vita e che lotta con orgoglio fino alla fine. Ma sarebbe impossibile discutere questo film senza mettere in ballo Bèatrice Dalle, il personaggio della donna antagonista, diverso dal solito mostro di sesso maschile ma, al tempo stesso, apertamente ispirato alla gelida freddezza di Michael Myers: le sue movenze all’interno della casa per impossessarsi del corpo di Sarah evocano effettivamente le movenze del maniaco partorito (!) nel 1978, per una volta senza scomodare le solite dinamiche trite da slasher puro. Per quanto il body count si rivelerà particolarmente alto (ci mancherebbe altro), la tematica della maternità ben si presta a questo tipo di digressioni, rendendole in modo piuttosto originale sulla base di un soggetto del critico francese (e regista assieme a Maury) Bustillo. Una storia efficace e sorprendente, forse vagamente intuibile verso la fine ma, per fortuna, nemmeno tirata per le lunghe, tanto da riuscire addirittura – nella sua formula dichiaratamente tragica – a vivere anche qualche istante di humor nero (“Quale uomo si scoperebbe una pazza maniaca come te” chiede la povera Sarah alla misteriosa donna che vorrebbe farla fuori). Quello della mancata maternità e della fragilità dei corpi femminili è un topic, per la verità, non nuovissimo, ed affrontato in svariate occasioni dentro il cinema dell’orrore (si pensi all’episodio più controverso di Three… Extremes oppure a Pro Life di Carpenter): in “À l’intérieur” diventa molto sgradevole specie nelle sequenze conclusive, dove si conclude la vicenda in modo inesorabile e con un clima cupissimo da cui – in senso buono – lo spettatore non vede l’ora di liberarsi. Questo horror-thriller francese è presentabile come una sorta di revival della lotta per la sopravvivenza in una notte resa celebre da La notte dei morti viventi, dove il posto dei cadaveri ambulanti viene degnamente preso dalla ferocissima madama oscura (la Dalle), una “vedova nera” morbosa e crudele che sembra letteralmente nutrirsi di morte, e le cui motivazioni diventeranno chiare soltanto alla fine (anche se, c’è da dire, in modo non del tutto inaspettato).

    À l’intérieur in conclusione non è un film per tutti – e questo, dopo aver letto le argomentazioni, sembra quasi scontato; per chi vorrà e potrà, è un’esperienza che non lascerà di certo indifferenti, e che varrebbe la pena di vedere anche solo per lo splendido quadro finale.

  • La casa è l’horror di culto di Sam Raimi (1981)

    Un gruppo di amici si reca in una casa sperduta per trascorrere un weekend: al suo interno troveranno alcuni orrori sepolti che non aspettavano che si essere risvegliati…

    In breve. Cult assoluto degli anni 80, imperdibile per ogni fan dell’horror che si rispetti, segna la nascita di Ash come personaggio iconico – nonchè pseudo-fumettistico. Carico di orrore, tensione e paura; nonostante gli effetti artigianali un gran film, per quanto surclassato leggermente dal secondo episodio.

    Se c’è qualcosa che un appassionato di horror non può non conoscere, assieme a Nightmare ed alla saga di Venerdì 13, è proprio La casa: diventato nel tempo un vero e proprio archetipo di paura su pellicola, fu anche uno dei film più criticati dal punto di vista morale (e anche per questo, forse, di maggiore successo di botteghino). Le motivazioni possono rintracciarsi essenzialmente nell’apparato demonologico dell’opera, vagamente ispirato a Lovecraft a partire dal “Necronomicon ex mortis” trovato dentro la baita, e forse soprattutto nella scena dello stupro di Cheryl da parte del subdolo demone, che sfrutta i rami di un albero per i propri scopi.

    Quello che è sicuro è che “La casa”, realizzato con vari espedienti che oggi farebbero sorridere (il sangue bianco per abbassare il livello splatter ed evitare la mannaia censoria), consolidò – se non inventò di sana pianta – il trend dei “film con case maledette“, tanto che si inaugurò una vera e propria saga che fu, diversamente da altre opere del periodo e dai primi quattro Nightmare, un crescendo di divertimento, qualità e paura. Questo è l’episodio forse più scarno della serie ma, come dicevo all’inizio, va visto un po’ per forza di cose – anche perchè il suo remake, raro caso, è girato con grande attitudine ed è un ulteriore punto di forza da tenere in considerazione. Qui possiamo goderci una delle migliori serie orrorifiche di ogni tempo, perchè questi b-movie mantengono un sapore speciale ancora oggi – e soprattutto sono alleggeriti della pretenziosità che spesso accompagna certi horror “da intenditori”.

    Per la cronaca del belpaese, la Filmirage di Joe D’Amato realizzò, sulla scia del successo di botteghino della saga, alcuni seguiti apocrifi con titoli cambiati e dal risultato discutibile, con vari registi nostrani come Fragasso e Lenzi si cimentarono alla regia.

  • Le fantasie di una tredicenne: non il film che sospetti che sia

    Horror surrealista noto con molteplici titoli (Valerie a týden divu nell’originale cecoslovacco, Valerie and her Week of Wonders nella versione internazionale), Le fantasie di una tredicenne è un film sui generis girato tra Slavonice e Praga, nel periodo estivo: cosa che è facile dedurre dal clima bucolico che caratterizza già le prime atmosfere, contrapposta a quelle algide e antiche della casa in cui vive protagonista.

    Si ispira al romanzo omonimo di Vítězslav Nezval (Valeria e la settimana delle meraviglie, un titolo decisamente più onesto delle fantasie di una tredicenne), in cui Valerie è un’orfana di tredici anni che vive con la nonna Elsa – anziana donna fredda, caratterizzata da un pallore da autentica morta vivente e fervente religiosa – in una vecchia abitazione di campagna. Valerie sembra non aver mai conosciuto i propri genitori, e l’unico ricordo che la ragazzina ha in merito sono degli orecchini della madre. Il film, di fatto, presenta un tono sostanzialmente fantasy-favolistico (vedi il personaggio con la maschera da furetto che si aggira nei pressi della casa e sembra interessato agli orecchini) e riguarda la scoperta dell’amore (e del sesso) da parte della protagonista. Il tutto con una componente soft-core che, vista oggi, probabilmente sembra quasi ingenua, e che è funzionale ad una trama che non manca di mostrare l’aspetto orrorifico della vicenda, mescolando – spesso in modo impercettibile – sogno e realtà. È altresì inutile, poi, cercare di trovare un senso in Valerie, che vive di surrealismo puro – inteso come nuovo livello di realtà, alternativo o frammisto a ciò che viviamo e a quello che ci tormenta nella vita di ogni giorno.

    L’astrattismo della trama (specie in quel finale onirico, sostanzialmente aperto) si esplica in una storia anche piuttosto difficile da ricomporre, che viene raccontata in modo non sequenziale e che sublima una contraddittoria (e molto umana, a ben vedere) attrazione-repulsione della protagonista verso il mondo della sessualità. Il tutto attraverso un gioco di allusioni simboliche spesso implicite, altre più chiare (il vino versato sul tavolo ad indicare il ciclo mestruale). Se da un lato, poi, la religione si svela nella propria ipocrita e bigotta concezione di vita, la naturale propensione per la sessualità viene fuori tra accenni, paure e riferimenti criptici, in un modo che comunque colpisce lo spettatore (all’epoca dell’uscita del film, per inciso, la protagonista Jaroslava Schallerová aveva 14 anni). Rimane pur sempre un film incentrato sul tema del vampirismo, comunque, che presenta (nella figura del vampiro donna, specificamente) qualche punto di contatto con il successivo Near dark. La misteriosa danza del finale del film, in qualche modo, finisce per avere una valenza liberatoria quanto, forse, altrettanto illusoria (dato che la protagonista è sola nell’ultimo fotogramma).

    Se è ovvia la metafora della ricerca della vita eterna, meno ovvio è che (a dispetto di premesse che farebbero pensare ad un film erotico puro) si tratta di un lavoro dai toni eleganti, mistici e sostanzialmente sobri. Firmando segretamente un contratto con il misterioso vampiro (lo zio dell’amante della protagonista, a quanto pare), la nonna di Valerie ottiene la vita eterna e, per questo, appare improvvisamente ringiovanita. Molta importanza assume poi, nel film, il sentimento del senso di colpa per la sessualità, che sembra voler tormentare Valerie (senza riuscirci troppo), anche grazie al supporto simbolico degli orecchini che peraltro la salvano da un rogo (immediato il messaggio, qui: la spontaneità giovanile viene malintesa e considerata satanica in un mondo più vecchio di lei). In questo il fantasy favolistico, quasi insolito per un film incentrato sui vampiri, assume una valenza tale da rendere tremendamente originale il film, e rendere la sua visione un must, dal quale farsi assorbire completamente e senza porsi troppi interrogativi.

  • L’horror low budget e surrealista di “Carnival of souls”

    L’organista Mary Henry è miracolosamente sopravvissuta ad un incidente stradale; poco dopo decide di lasciare la città per cambiare lavoro…

    In breve. Archetipo di horror tra il sovrannaturale e l’onirico, giocato esclusivamente su suggestioni e sottintesi; un lynchiano ante-litteram che molto ha influenzato il genere in seguito. Non per tutti i palati ma notevolissimo, soprattutto per l’epoca in cui uscì.

    Se dovessimo citare uno dei film più fuori dalle righe degli anni ’60 “Carnival of souls” entrerebbe di diritto tra le prime citazioni; girato in sole tre settimane con un budget bassissimo (17,000 dollari), ebbe scarso successo all’uscita – salvo poi diventare di culto in seguito. Solo nel 1989, infatti, venne trovata una nuova distribuzione (della Panorama Enterntainment) e Carnival of souls venne riproposto in alcune sale e festival tematici, riscuotendo un’approvazione unanime da parte della critica.

    Mary dovrebbe essere morta nell’incidente che vediamo all’inizio, eppure tutti l’hanno vista emergere dalle acque, senza ricordare nulla di come abbia fatto a salvarsi; nel frattempo, pero’, la sua vita (che potrebbe essere un’allucinazione, come un sogno-incubo pre-morte) cambia radicalmente, ed inizia ad essere tormentata da un uomo spettrale senza nome, che compare – e sembra richiamarla a sè – in vari momenti del film.  Un classico low-budget del terrore, insomma, giocato più sulle sensazioni che sul gore (qui del tutto assente); non per tutti, in tal senso, ma solo per fan hardcore del genere.

    Venne girato presso un suggestivo parco giochi nello Utah, che rappresenta una location perfetta per il senso di enigmatica sospensione su cui si basa il film stesso; un senso di limbo, verrebbe da dire, in cui la protagonista si muove con ritmo e spirito mutevole, forse consapevole di essere sfuggita ad un macabro destino. Questo spiega il suo atteggiamento cangiante ed imprevedibile nei confronti delle avances del proprio vicino di stanza nella pensione, come del medico che vorrebbe aiutarla e della mite padrona di casa: la sua umoralità e doppia personalità, a questo punto, potrebbe anche legarsi all’alternarsi del giorno e della notte, così come suggerito dalle sue stesse parole (“Il mondo è così diverso alla luce del giorno. Al buio si perde il controllo delle proprie fantasie … così facilmente. Ma alla luce del giorno, ogni cosa torna al suo posto“). Al tempo stesso, l’orrore si finisce per librare nell’aria in modo inevitabile solo nel seguito, quando Mary inizia a suonare melodie definite sacrileghe dal prete presso cui lavora, e quando rifiuta terrorizzata le proposte di John, sprofondando in una progressiva ed ineluttabile follia.

    Una storia molto efficace e coinvolgente, e richiama lo stile, a mo’ di archetipo, su cui si sarebbero fondati film di successo nel seguito (penso a The Others, ma anche Il sesto senso). Accostamenti del genere mi sembrano francamente più pertinenti di chi abbia voluto vedere nelle “anime” spettrali che tormentano Mary dei morti viventi pre-Romeriani, cosa che a mio avviso è accettabile giusto come suggestione visiva. Carnival of souls è, infatti, estraneo al cinico materialismo del compianto regista, e somiglia più ad un film onirico o “lynchiano”, nel senso di irrazionale e poco consequenziale in alcuni passaggi. Se è vero che l’intreccio sembra quasi scontato se visto oggi, bisogna contestualizzare il clima ed immaginare la portata del film all’epoca in cui uscì: accoglienza abbastanza fredda, a giudicare dagli incassi, salvo poi essere riscoperto alla fine degli anni ’80 come cult indiscusso.

    Su film del genere sono fin troppe le parole spese dalle varie fan theory e dagli accostamenti con film successivi proposti dai vari recensori: tutti cercano di trovare una spiegazione alla storia, ma non esiste una risposta soddisfacente. Non può esistere per definizione, in questo caso, a meno di accettarne la dimensione puramente onirica, ed in tal senso il film potrebbe essere null’altro che un sogno pre-morte, ipotesi che trovo suggestiva quanto più convincente di molte altre che ho letto. Di sicuro Mary vive l’intero intreccio in una dimensione simile ad un limbo, in cui combatte contro una morte improvvisa per cui non sembra essere pronta, raffigurata splendidamente (e con richiami all’espressionismo tedesco) di figure spettrali dal volto dipinto (e di cui la principale venne interpretata da Harvey stesso). Non bisogna dimenticare, peraltro, che si tratta dell’unico lungometraggio di Herk Harvey, professionista del cinema che ha girato, per il resto, film documentaristici e serie TV di tutt’altro genere, e che per questo rientra nei notevoli casi di chi ha saputo fare un solo singolo horror di gran classe. Un regista che ha, quindi, vissuto il genere solo in maniera occasionale, e alla fine ciò ha finito per contribuire alla fama di cult singolare ed irripetibile di “Carnival of souls” stesso. Candace Hilligoss, archetipica scream queen semplicemente perfetta nella propria parte (oltre che unica attrice professionista del film), resta alla storia solo per questo film, senza considerare altre interpretazioni, solo sporadiche. Resta da chiedersi quanto possa essere lecito dare tutto questo credito ad un film che, nelle stesse parole del regista, è considerato solo una piccola parte di un lavoro enorme, in cui riteneva di avere tanto altro da dire (ben 35 anni a fare film di altro genere di cui mai nessuno, finora, ha parlato troppo)

    La fama di cult legata a Carnival of souls è, in fondo, basata su questa essenzialità: non solo un low budget di alto livello (come altri, del resto, ne vennero girati in quegli anni), ma anche un film che resta isolato nella sua produzione (senza contare un remake omonimo ma abbastanza diverso nella sostanza), quasi come Mary che avverte un macabro ed inspiegabile isolamento dal mondo nei momenti più inattesi. Nell’intervista al regista concessa a fine anni 80 viene riferito come “il film che non voleva morire”, e questa forse rimane la sua descrizione breve più adeguata.

    Carnival of souls non è mai stato distribuito in Italia doppiato, ma è disponibile con sottotitoli italiani nell’edizione della Enjoy Movies (non troppo facile da reperire); da non confondersi, peraltro, con l’omonimo remake degli anni ’90 uscito in seguito.

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