FOBIE_ (180 articoli)

Recensioni dei migliori horror usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Vital racconta l’amore dal punto di vista di Shinya Tsukamoto

    Vital racconta l’amore dal punto di vista di Shinya Tsukamoto

    “Tutti i tuoi felici, falsi ricordi:
    che possibilità ho, io, contro tutto questo?”

    In breve: non è certo uno dei migliori film del regista giapponese, oltre ad essere insolitamente lacrimoso e (a tratti) con scarso mordente. Adatto, forse, ai neofiti per avvicinarsi senza “traumi” al suo incredibile cinema (il regista è quello di Tetsuo).

    Tsukamoto in “Vital” incentra la storia su due tematiche di fondo: da un lato la perdita della memoria che affligge il protagonista, e dell’altra l’ambigua valenza dei ricordi, che distorcono la realtà ed alienano l’individuo ma nei quali è quasi impossibile non perdersi e sognare.Un film concettualmente e stilisticamente molto valido, ma al tempo stesso affetto da una sorta di “pesantezza” di fondo: sembra quasi che il regista indulga su dettagli lacrimosi molto più del necessario, proponendo una storia totalmente priva di colpi di scena, e fin troppo concetrata sugli aspetti romantici tanto per (verrebbe quasi da dire) far presa facile sul pubblico.

    Hiroshi, dopo un incidente stradale, perde completamente la memoria, dimenticandosi completamente della fidanzata che era in macchina con lui, e che è deceduta poco prima che si risvegliasse. Mentre cerca di ricostruire i propri ricordi ricomincia a seguire i corsi di medicina, ed inizia un corso sulla dissezione che, destino vuole, debba fare proprio sulla ex ragazza deceduta, Ryoko: quest’ultima aveva dato il consenso ad essere usata per la scienza, e viene riconosciuta dal protagonista mediante un visibile tatuaggio sul braccio. Nel frattempo il protagonista fa iniziare una vera e propria ossessione nei confronti del cadavere, che si sofferma a guardare per lunghe ore perdendosi in un sogno-allucinazione nel quale reincontra regolarmente Ryoko, isolandosi dai suoi colleghi e da una nuova ragazza che gli si propone inutilmente…

    Si tratta di un film piuttosto atipico rispetto alla produzione del regista: non tanto per la presenza della tematica inerente gelosia ed amore (vissuti in modo ossessivo anche in Tetsuo e, in parte, in Haze), quanto per i toni struggenti che hanno reso questo film uno dei più apprezzati dal grande pubblico – quantomeno per chi ha avuto modo e voglia di vederlo. Questo, a mio parere, è legato alle dinamiche “televisive” del film stesso, dalla totale mancanza di dettagli macabri e da uno stile certamente di grande classe ma privato in modo molto radicale dell’estro artistico del regista, se non per alcune inquadrature molto insistite su alcuni dettagli.

    La cosa davvero strana, a questo punto, è che una scena ripetuta ed enigmatica come il tentato soffocamento reciproco tra Hiroshi e la sua spasimante Ikumi, la quale non si fa una ragione dell’ossessione del ragazzo, ed al tempo stesso è costretta a riconoscere che non puo’ essere gelosa di una defunta, si colloca in modo abbastanza inspiegabile rispetto all’intreccio: si tratta quindi di un elemento che, inserito in un altro qualsiasi film del regista, avrebbe fatto gridare allo scandalo, alle “seghe mentali” ed al tocco artistico da radical-chic. Orrore! Se invece si volessero scomodare quegli stessi concetti filosofici e concettuali che normalmente fanno inorridire i mainstreamer, allora si desume che la nuova amante di Hiroshi volesse morire assieme a lui per il fatto che sa bene che è l’unico modo per rimanergli vicino. Se poi consideriamo la danza di Ryoko (viene specificato che da viva non ha mai danzato), la quale assume una valenza simbolica che va necessariamente cercata al di là dello schermo… Pero’ qui si parla di amore, quindi va tutto bene e nessuno si pone alcun problema: se si fosse parlato di altra roba, sarebbe stato diverso.

    Romanticoni! Uno dei film certamente più poetici del regista, nel quale escono fuori varie icone di fragilità umana.

     

  • Society – The horror è una metafora del mondo in cui viviamo

    Billy è di famiglia benestante nell’America di fine anni ’80: dovrebbe essere felice, godersi le sue giornate spensieratamente e passare le notti con le donne più belle di Beverly Hills. Eppure qualcosa lo turba, non dialoga coi genitori, vive ambiguamente i propri rapporti ed è tormentato da paure inspiegabili. Un orrore incredibile sta per spalancare le porte contro di lui..

    In due parole. Prima parte da telefilm, seconda grand guignol a coronare un notevole horror satirico di Yuzna contro l’ipocrisia della società capitalistica.Una delle chicche orrorifiche (e più politicizzae di sempre) del cinema americano anni ’90.

    Già John Carpenter aveva espresso con grande maestria il rapporto conflittuale tra sfruttati e sfruttatori nel mondo degli yuppie, basandosi sulle fondamenta degli zombi mai troppo compresi di George Romero. Yuzna, sceneggiatore promettente di splatter inquientanti e fan di Lovecraft della prima ora, decide di girare una sostanziale satira contro il mondo finto ed ipocrita della borghesia americana. Il soggetto fu firmato da Woody Keith e Rick Fry, e crea i presupposti – grazie ad una regia solida e ad effetti speciali da manuale – per un film divertente e pauroso al tempo stesso, forse non sempre ben interpretato ma con varie “macchiette” davvero irresistibili. Lo spettatore passa mezzo film a chiedersi cosa veda Billy, se si tratti di paranoia o chissà che altro: le conclusioni horror probabilmente oggi appaiono scontate, ma si tratta pur sempre di un’idea originalissima, e mai realizzata prima. Come già in “Essi vivono“, le apparenze ingannano lo stesso protagonista, che sospetta che i suoi familiari covino qualcosa di mostruoso: ma, dal loro punto di vista, si tratta di comuni paranoie adolescenziali, che scemeranno non appena Billy sarà introdotto nella Società che conta. Ai suoi occhi, nel frattempo, si compone un puzzle infernale che ogni volta sembra chiaro, e che inevitabilmente viene scombinato da una forza esterna: la stessa che lo tormenta dall’inizio, e che rende terribile il suo passaggio da “ragazzo qualunque” a “persona che conta”. Terrorizzato da quel mondo adulto in cui non riesce a riconoscersi, viene contattato dall’ex fidanzato della sorella, che gli fa ascoltare una cassetta registrata piuttosto inquietante: in essa ascolta la propria famiglia che racconta l’iniziazione nella società della ragazza come un’autentica orgia, a cui avrebbero partecipato addirittura i suoi genitori ed un bullo che lo tormenta. Sospetti paranoici o realtà?

    “Mamma, papà, vorrei parlare un po’ con voi…”

    E’ ovvio che Yuzna intende costruire una metafora piuttosto esplicita del mondo borghese, un mondo divora chiunque non si omologhi ai suoi canoni, e questo dopo averlo adulato con mille “giocattoli” irresistibili. Ma il regista opera in tal senso con grande stile, facendo sorridere ogni tanto e senza appesantire mai lo spettacolo con slogan politici, anzi rivelandosi apertamente non politically-correct nel finale. In particolare “la società che uccide per mantenere segreta la sua esistenza” non deve essere intesa in senso cospirazionista: questo è il “manifesto” di Yuzna, che si scaglia contro la società in cui viviamo tutti, chi da un lato, chi dall’altro della barricata. Dunque chi si omologa avrà agi, un posto di lavoro assicurato, bellezza esteriore e ricchezza materiale: chi invece si azzardi anche solo a discutere l’assunto capitalistico verrà letteralmente… mangiato vivo. Tale aspetto, a scanso di possibili equivoci, viene specificato nell’inizio della scena conclusiva, quando Billy è additato come appartenente ad una razza diversa per “addestramento“, un piccolo insieme di persone della razza umana che sottomette tutti gli altri e detta subdolamente legge.

    Una visione non banalmente romantica, quella del ragazzo, dato che non desidera un mondo ideale di persone simili a lui: semplicemente uno in cui sia lecito vivere la vita vera, umana, fatta di complicazioni, problemi, pulsioni e naturalmente di sesso (il vero leitmotiv di Society, probabilmente). Insomma, quell’umanità che dovrebbe essere ovvia e che invece ai genitori, alla sorella ed agli altri “normali” evidentemente manca, e gli fa addirittura venire il sospetto di relazioni incestuose tra i suoi familiari. In questo scenario anche il rapporto “normale” con Clarissa – interpretata perfettamente dalla conturbante playmate Devin DeVasquez – appare pauroso, visto che anche lei sembra parte di quel mondo. In fondo se la Società, intesa come insieme di rapporti umani tenuti assieme dalla convenienza, della speculazione e dall’opportunismo, impone universalmente dei modelli disumani, Yuzna suggerisce che il tutto non possa che sfociare nella perversione, nel cinismo e – neanche a dirlo – nel cannibalismo. La “grande orgia” e la “cosa informe” degna dei peggiori incubi lovecraftiani è, in effetti, una letterale fusione dei corpi dei borghesi-mutanti: flaccidi, umidicci, solidali tra loro e propensi a cibarsi dei poveri, degli oppressi e di chi non sta alle loro “regole”. Più chiaro di così, si muore (è proprio il caso di scriverlo).

    Vale la pena aspettare la fine del film (il gore nella prima parte è praticamente assente), perchè le scene conclusive sono realmente spaventose, tutte figlie di allucinazioni horror sul corpo umano (mani che escono dalla bocca, persone rivoltate letteralmente come guanti, deformazioni e contorsioni). Non mancano momenti surreali, come le allucinazioni di Billy che vede ninfomani in pose insolite un po’ ovunque (colpa degli squilibri ormonali della sua età!), senza contare la rappresentazione stra-cult dell’irreprensibile padre di famiglia, ovvero una letterale… “faccia da culo”! Anche se la forma è ironica – e richiama una commedia americana – il sottotesto è serissimo e viene affrontato in modo irreprensibile: il pubblico si diverte, e tutti (o quasi) sono soddisfatti dalla visione. Ogni appassionato di horror dovrebbe vedere Society, poi ovviamente la scelta finale spetta a voialtri.

    L’intera vita delle società, in cui dominano le moderne condizioni di produzione, si annuncia come un immenso accumulo di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione (G. Debord, “La società dello spettacolo”)

  • Quando Alice ruppe lo specchio: la black comedy a tinte splatter targata Fulci

    La macabra storia di una “vedova nera” al maschile, amante della buona cucina e del gioco d’azzardo, che adesca vedove e ruba loro il denaro dopo averle uccise e divorate. Nonostante l’uomo non lasci apparentemente tracce dei suoi crimini, la polizia sembra sulla sua strada…

    In breve. Un titolo dal nome suggestivo che riassembla lo stesso genere che aveva portato Fulci alla gloria negli anni precedenti, ovvero il thriller-gore a tinte oscure. Seppur con una discreta trama ed una dinamica coinvolgente in ballo (qualche momento umoristico è davvero sopra le righe), il film non riesce a convincere del tutto. Impressionante e crudissimo lo splatter da macelleria, visibile fin dalle prime scene, che lo rende molto distante dalle black-comedy garbate ed edulcorate a cui potremmo essere abituati.

    Si sono sprecate in questi anni le considerazioni su Fulci “terrorista dei generi“, ma secondo me pochi sanno (dato che questo film è poco discusso, a quanto leggo) che lo stravolgimento pioneristico dei generi venne effettuato anche sul suo stesso amatissimo horror-thriller. In effetti “Quando Alice ruppe lo specchio” visto oggi sembra un esperimento di fattura molto artigianale, tanto che paradossalmente (e senza nulla togliere) arriva a ricordare l’opera prima di una new entry horror.

    Sebbene l’idea di fondo non sia affatto male, il film si sviluppa con modalità non del tutto convincenti, a cominciare dalla caratterizzazione del protagonista Lester Parson a finire su uno stonato contrasto tra le premesse simil-parodiche e le lugubri conseguenze successive. Nonostante Brett Halsey abbia interpretato un discreto cannibale dalla duplice personalità, inoltre, trovo che la sua concretizzazione sia stata per l’appunto troppo oscillante tra due estremi, risultando così semplicemente ingarbugliata. E non credo neanche che sia questione di aver dovuto interpretare un duplice ruolo in voluto contrasto: mi pare invece che la sua doppiezza risulti alquanto spiazzante per lo spettatore, così come l’alternarsi – senza preavviso – di scene divertenti con altre che toccano realmente lo stomaco. Probabilmente guardando il film per intero, fino al brutalissimo finale (senza mezzi termini e con un tocco di poesia fulciana forse neanche malaccio) si riesce ad intuirne perfettamente la natura: se si riesce ad accettarla bene, altrimenti…

    Se state pensando ad una riedizione nostrana di Henry, pioggia di sangue siete sulla cattiva strada: piuttosto distanti dalla migliore produzione del regista, una buona sintesi del film è esprimibile come una bizzarra media tra il gore casereccio e violento alla Joe D’Amato (o alla Buttgereit, se avete presente) ed uno humor nero piuttosto semplice e funzionale, dichiaratamente e consapevolmente trash. Questo complessivamente fa di “Quando Alice ruppe lo specchio” un discreto lavoro dell’ultimo Fulci, forse addirittura da rivalutare contestualizzando la “morìa di vacche” che, all’epoca, aveva fatto bandire horror e derivati dai generi più popolari per il pubblico (siamo pur sempre alla fine degli anni 80).

    Per evitare di generare fraintendimenti, è bene comunque tenere presente che si tratta di un lavoro molto essenziale e con pochi mezzi (per questo, e solo per questo, mi sono permesso di scomodare un raffronto con l’opera di un esordiente), caratterizzato dalla tipica scarsità di spessore di alcuni personaggi, che vengono buttati nella mischia alla meno peggio e senza alcuna premessa. Tuttavia, analizzando la vicenda produttiva che portò alla sua realizzazione (film commissionato dalla TV e mai mandato in onda: quanto si sarebbe incazzato il protagonista di Ubaldo Terzani Horror Show…), e tenendo anche conto che si tratta di un lavoro anti-televisivo al massimo, sono piuttosto convinto che la Troma di Kaufman sarebbe stata orgogliosa di produrreQuando Alice ruppe lo specchio“: questa, dunque, è forse la recensione più efficace che si possa proporre per questo lavoro dimenticato dai più.

    Tra gli interpreti, segnalo il bravo Al Cliver, che qualcuno dovrebbe ricordare tra i protagonisti del capolavoro Zombi 2. Piccola nota sulla locandina AvoFilm: essa riporta il protagonista con un coltello insanguinato (e ci sta), una bella figliola (che manca) ed un morto vivente (che non esiste proprio). Così, tanto per mandarci fuori strada: è suggestivo pensare al buon Fulci ridere di quelli che si aspettavano vedove sexy e formose da film di Rocco Siffredi (sono tutte piuttosto brutte, quelle di “Quando Alice…“, e qualcuna ha pure barba e baffi!), mentre non possiamo fare a meno di constatare come fosse definitivamente – o quasi – tramontato il tempo dei morti viventi nei corridoi di un ospedale. Provocazioni contro il suo stesso pubblico o contro la soffocante produzione “volemose-bbene“?

    Alla fine chi se ne importa: abbasso l’apparenza, Lucio Fulci vive.

  • Nightmare 5 – Il mito: il seguito non indimenticabile di S. Hopkins

    Alice Johnson è una studentessa tormentata da incubi ricorrenti, oltre che da un mondo che sembra non saperla ascoltare; le uniche figure amiche sembrano essere quella del padre e del fidanzato Dan. Nel frattempo si preparano i presupposti per la rinascita di Freddy Krueger…

    In breve. Quinto episodio di una saga horror longeva, incentrato stavolta sul tema della nascita e penalizzato, nonostante buoni presupposti, da una serie di tagli censori più efferati degli artigli di Freddy. Regia e fotografia decisamente suggestiva, nonostante il copione sia pressappoco quello di sempre. È uno dei Nightmare meno amati dal pubblico, per motivi giustificabili solo in parte.

    Questa volta la regia di Nightmare tocca all’australiano Stephen Hopkins, noto per aver diretto tra l’altro il buon Predator 2 l’anno dopo. Il quinto episodio della saga di Freddy Krueger non è, stando al “sentito dire“, tra i migliori mai comparsi sullo schermo: quantomeno è così per i fan e anche per buona parte della critica che non l’ha rivisto di recenti. I reali motivi di questa maldisposizione sono legati, come già per gli altri episodi, al “tradimento” dello spirito del personaggio principale, da ombra inquietante ed indefinita ad Elm Street (paragonabile in parte al Michael Myers di Halloween) a villain tanto grottesco da risultare parodistico – leggasi: poco spaventoso.

    Questo nonostante una regia alla prova dei fatti tutt’altro che dilettantesca, ed almeno una prima parte di film che evoca toni gotici ed atmosfere spettrali e che, insomma, promette bene dall’inizio.

    L’idea di focalizzare la storia sul concetto di nascita (e su annessi incubi), per inciso, sembra essere venuta al produttore esecutivo Sara Risher, sia perchè si rese conto che il “fan medio” di Freddy era nel frattempo cresciuto (potremmo mai credere a Nightmare come “film generazionale” anni 80?), sia perchè  – forse soprattutto – aveva avuto lei stessa un figlio da poco. A differenza degli altri capitoli, le vittime hanno appena finito il college (età media degli interpreti aumentata, come si diceva poc’anzi), rendendo l’ambientazione meno “adolescenziale” ed i personaggi alle prese con i problemi tipici di quell’età.

    Il film è, inoltre, certamente debitore di tanti classici del passato, incentrati sull’orrore irrazionale della procreazione e soprattutto sull’annuncio dell’arrivo dell’Anticristo (The Omen). In quest’ottica la figura del Freddy neonato visibile all’inizio sarà anche fuori luogo o cialtronesca ma, a ben vedere, rientra negli standard codificati, in eterno bilico tra cupo e grottesco. Inoltre, come in Nightmare 6 sapremo di più su moglie e figlia del mostro, in questo film conosceremo la figura di Amanda Krueger, la madre di Freddy, che comparirà in veste di suora durante gli incubi di Alice.

    Le tematiche di Nightmare 5 sono quelle di sempre (disagio giovanile, conflitto genitori-figli, ma anche culto dell’apparenza, bulimia e aborto), e con una suggestiva anticipazione di una cena modello Society l’horror diventa vettore di messaggi sociali: quello che resta impresso allo spettatore, pero’, è un susseguirsi prevedibile di premonizioni, morti mal riuscite (soprattutto a causa dei tagli) e dialoghi non sempre credibili e incisivi. Difficile dare più credito ad un film che tenta con ardore di dare il proprio contributo alla saga, ma che paga forse lo scotto di non essere uscito prima. Irresistibili ed iconici, per inciso, sia il Freddy-cuoco (che rimpinza la povera Greta fino a farla scoppiare) che quello che combatte in veste di Super Freddy contro Il Giustiziere Fantasma (Phantom Prowler, l’alter ego del nerd Mark), senza contare l’inquietante e giovanissimo Jacob (il futuro figlio di Alice), che avrà un ruolo chiave nella storia.

    Buona parte di A Nightmare on Elm Street 5: The Dream Child (titolo suggestivo, mutato in Nightmare 5 – Il mito nella versione italiana) vira su un freddo tono gotico di colore azzurro, che conferisce un che di surreale al film; le sequenze tra incubo e realtà abbondano, ma sono a volte scollegate e non immediate da comprendere. A questo, inoltre, si aggiungano i numerosi tagli censori che hanno deturpato, non solo in Italia, buona parte del film, privandolo delle sequenze più violente o splatter, anche a discapito della sequenzialità. Questo contribuisce in negativo al giudizio sul film, ed è inevitabile: ad esempio quando Freddy cerca di aggredire la prima vittima a letto, giocando sulla consueta ambiguità sogno-realtà, pronuncia una frase che è stata fatta fuori dalla versione definitiva (there’s no such thing as safe sex, cioè non esiste il sesso sicuro), il che fa perdere d’un colpo sia ritmo che senso. Bilanciando questo con trovate decisamente sopra le righe – su tutte, Freddy e Jacob che si muovono su scale che evocano le geometrie impossibile della Relatività di Escher – si capisce che, tutto sommato, il film un suo spessore prova a mantenerlo.

    Certo, stride parecchio che tutte  le sequenze dell’omicidio delle vittime siano state “alleggerite” delle parti più gore: ma è impreciso e superficiale, a questo punto, non pensarci prima di lanciarsi in un giudizio drasticamente negativo verso questo quinto episodio che, alla prova dei fatti, tanto male e “scandaloso” non è, anzi. Gli indispensabili episodi della saga sono stati Nightmare – Dal profondo della notte, Nightmare – La rivincita, Nightmare – I guerrieri del sogno, xNightmare – Il non risveglio, mentre il film è seguito da Nightmare 6 – La fine e da Nightmare – Nuovo incubo.

  • Scare campaign è l’horror splatter riuscito solo a metà

    Scare Campaign è un programma TV basato su scherzi crudeli, a tinte horror-splatter. La produzione, pero’, ha deciso di non finanziarlo più, per via degli ascolti scarsi. Per giocarsi l’ultima carta, la troupe decide pertanto di girare un ultimo, incredibile episodio in un manicomio abbandonato.

    In breve. Horror australiano accattivante ed ambiguo, che sulla carta dovrebbe funzionare: al netto di un impianto visivo splatter molto efficace, il risultato sembra deludere un po’ le aspettative.

    Scare Campaign propone il consueto impianto in chiave mockumentary (le riprese alternate in soggettiva, da telecamere di sicurezza e da una regia TV) e lo rielabora in una serie di twist a sorpresa, innestati uno nell’altro. Per spezzare l’effettiva monotonia del genere, in sostanza, i registi si sono inventati una seconda storia nella storia principale. Alla base di tutto, ovviamente, vi è un pubblico da soddisfare, assetato di novità (per non dire di sangue), e questo ovviamente pone le basi per una riflessione (almeno in parte) interessante sul potere dei mass media e soprattutto di internet. Una riflessione, a dirla tutta, non certo inedita.

    Ce ne accorgiamo chiaramente quando la produzione deciderà di tagliare i fondi alla serie perché, guarda caso, ha scoperto un canale streaming di grande successo in cui è possibile vedere degli snuff movie. Sulla mitologia snuff, i filmati che riprendono morti ed omicidi realmente accaduti (e che sarebbero commissionati a pagamento), molto si è discusso negli anni; senza dilungarmi troppo sull’argomento, consiglio di leggere l’approfondimento della rivista SkepticalInquirer a riguardo, un articolo del 1999 che li considera una leggenda urbana dato che nessuno ne ha mai visto uno, e sottolinea la responsabilità dei media nel non aver mai effettuato un opportuno fact checking. Il punto pero’ è che, guardando questo film, accettiamo tacitamente il fatto che potrebbero esistere, e che ci sia gente che addirittura ami guardarli.

    Di per sè l’idea di Scare Campaign non sarebbe neanche malvagia: mettere di fronte una troupe che si diverte a registrare una candid camera a tinte horror a chi, invece, sta girando convintamente un vero e proprio snuff. Un conflitto massimo tra i personaggi, esasperato all’ennesima potenza (e facile preda di equivoci di ogni genere), che a livello di horror originale e ben realizzato funzionerebbe, nelle intenzioni. Il problema risiede, a mio avviso, in una sorta di dissonanza tra ciò che percepiamo in alcune fasi del film e ciò che, invece, ci arriva in altre.

    Fin dai tempi di [REC] – e senza scomodare Cannibal Holocaust, per una volta – è chiaro che il falso documentario continui a incuriosire il pubblico, ed abbia portato nuova linfa al genere (dai lidi più popolari di V/H/S a quelli più estremizzati di Snuff 102). Ed è anche evidente che è impossibile girare horror, oggi, limitandosi a considerare i mostri di sempre, le solite case abbandonate o le archetipiche famiglie di psicopatici. Il mockumentary va oltre, e spesso coglie nel segno: ma non sempre, come in questo caso, chi devia dalla norma riesce a dire qualcosa di nuovo.

    Sulla carta in Scare Campaign l’approccio è differente: Colin e Cameron Cairnes ribaltano l’assunto di tutte le precedenti storie, le quali si basano sull’idea preconcetta che ciò che vediamo sia autentico. Questo è alla base del meccanismo che rende spaventoso tutto quello che si vede sullo schermo, perchè non c’è drammatizzazione e (come idea, ovviamente) non c’è alcuna finzione di mezzo. In questa sede, invece, non sappiamo bene cosa stia succedendo: da un lato potrebbe essere una finzione dichiarata, dato che in più passaggi (anche durante gli omicidi più convincenti) vediamo una regia nascosta (un film nel film, insomma). Dall’altra, pero’, c’è il pubblico che potrebbe rimanere perplesso e chiedersi cosa, di preciso, stia guardando.

    Il dubbio viene iniettato fino allo sfinimento, insomma, ed il pubblico non riuscirà a capire se stia assistendo ad un “vero” omicidio (ovviamente nel senso della narrazione del film) o ad uno splatter che sta ingannando gli attori. Se è un fatto assodato, del resto, che molti registi siano soliti non raccontare interamente la trama agli attori (al fine di accentuarne la reazione spontanea e l’effetto sorpresa), questa è l’unica nota filologica pertinente: perchè Scare Campaign è, a ben vedere, un horror medio, non certo d’autore, in cui i continui stravolgimenti della storia finiscono per sfilacciare la tensione. E questo, ovviamente, non può contribuire ad un giudizio positivo.

    L’impressione generale, alla fine della visione, è (grottescamente, direi) proprio quella di aver appena visto un film. Un lavoro in cui, in altri termini, è impossibile provare qualsiasi forma di empatia nei confronti dei personaggi, di quello che pensavano o simboleggiavano, con buona pace di qualsiasi critica che possa provarci. E questo suggerisce un film che promette senza mantenere, rivelandosi vagamente deludente nella sostanza. Questo, ovviamente, spiace ammetterlo – perché Scare Campaign di pregi ne avrebbe pure: non tanto a livello recitativo (che è nella media) quanto a livello di aver saputo giocare con la trama. Ma senza riuscire a far capire al pubblico quale sia il punto non si potrà mai parlare pienamente in positivo del film. Peraltro, dopo l’ennesima rivelazione shockante, si potrebbe rimanere, a mio avviso, più confusi che spaventati.

    Non voglio pensare che un film del genere sia da prendere tanto sul serio da simboleggiare chissà cosa, eppure i presupposti sembravano proprio quelli. E forse la scena più emblematica è proprio sul finale, ovvero il trattamento che subisce il regista mentre blatera di come l’horror sia anche arte (essere didascalici non è mai una buona idea, secondo me).

    Oppure, magari, era solo un horror divertente, che si prende (spero bonariamente) gioco di chi, come il sottoscritto, tende a prenderlo troppo sul serio. E a voi potrebbe piacere lo stesso…

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