BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Non ho sonno: la storia dei delitti del nano

    Non ho sonno: la storia dei delitti del nano

    Ulisse Moretti (Max Von Sydow) indaga sul serial killer denominato “Il Nano”, considerato responsabile di almeno tre omicidi, collegato ad una storia di 17 anni prima…

    In breve. Epigono di Profondo Rosso ricco di suspance, forse prevedibile in alcuni suoi sviluppi quanto considerevole nel suo insieme. Argento non è inferiore alle aspettative, e si diverte con le citazioni da altre sue opere.

    Contaminatissimo dai suoi precedenti lavori, e con la collaborazione dei Goblin alla colonna sonora e di Sergio Stivaletti agli effetti speciali, Dario Argento produce uno dei suoi migliori film recenti, forse perchè influenzato in modo spinto dalle produzioni per cui è diventato famoso: è evidente che la storia dell’assassino di una medium ha giocato un ruolo determinante, soprattutto nella definizione delle scene clou (ne cito tre: la vivida morte per mano di un clarinetto, l’omicidio sul camino e la morte per soffocamento). Insanamente violento e curatissimo nei dettagli (come la prima morte sullo schermo, che sembra essere uscita da Tenebre), fu interpretato magistralmente da Max Von Sydow e preso un po’ alla leggera, a mio parere, dagli altri interpreti (ad esclusione della lucida follia dell’insospettabile assassino). La storia è ambientata nella Torino in cui vive la vicenda del pianista jazz, e racconta di un criminale che torna ad uccidere senza un apparente motivo dopo 17 anni. Sul suo conto indagano un commissario di polizia ed il figlio di una donna uccisa 17 anni prima in circostanze misteriose: l’assassino è un copycat, oppure si è risvegliato?

    Bellissima la storia basata sui ricordi ricostruiti dal protagonista, costruita grazie all’ausilio del giallista Carlo Lucarelli, perfetto ogni piccolo dettaglio di “Non ho sonno“: a partire dalla filostrocca di morte, all’aspetto scaramantico legato ai 17 anni, alla costruzione di Ulisse Moretti, sintesi argentiana di molti poliziotti visti in precedenti film. Probabilmente, invece, l’escamotage con cui si rivela l’assassino non è pienamente all’altezza della genialità delle opere precedenti: del resto basta guardare con attenzione il film per intuire quale esso sia, e questo un po’ stona nel quadro argentiano che da sempre si prefigura come una macchina mortale perfetta e senza una sbavatura. Del resto resta vero che dopo tanti successi si crei un clima di aspettativa insostenibile, che porta a sottovalutare tutto quello che esce oggi solo perchè, appunto, “non è roba degli anni 70/80“.

    Ad ogni modo la nostra onestà di spettatori dovrebbe imporci di affermare che “Non ho sonno” è un buon film focalizzato con cura e passione per il giallo classico, che fa invidia alle tante produzioni banali odierne.

  • Esperimenti sociali controllati: ecco “The experiment” di Hirschbiegel dei primi Duemila

    Nel tentativo di studiare sul campo i comportamenti umani nelle situazioni più estreme, un gruppo  di scienziati convoca 20 volontari che dovranno simulare altrettanti giorni di prigionia all’interno di un carcere. Perennemente inquadrati dalle telecamere come in un Grande Fratello, e sotto l’occhio più o meno vigile degli osservatori, il gruppo viene suddiviso in 8 detenuti e 12 guardie e, dopo l’iniziale clima bonario che si viene a creare, la permanenza diventa un autentico incubo.

    L’ispirazione è il terrificante esperimento carcerario di Stanford, condotto da un docente universario di psicologia (Philip G. Zimbardo) che pero’ venne interrotto dopo pochi giorni di sperimentazione a causa del clima di violenza e sopraffazione che si era venuto a creare. Il film si incentra sulla figura controversa di Tarek Fahd, noto semplicemente come N. 77 e principale artefice, suo malgrado, dei conflitti sociali che si scateneranno al suo interno: dalla natura scaltra, profondamente passionale e naturalmente contestatore dell’autorità.

    E’ solo un gioco

    Diretto con grande maestria dal regista tedesco Oliver Hirschbiegel, ed interpretato con altrettanta intensità dai 20 protagonisti del social experiment, il film offre innumerevoli spunti di riflessione, configurandosi come un Grande Fratello snuff e man-in-prison: è, in altri termini, la spettacolarizzazione dell’orrore realistico che diventa reale. Questo esce fuori, in modo assolutamente agghiacciante, nella scena il cui il n.77 viene sequestrato dalla propria cella, insultato e addirittura urinato addosso dalle finte-guardie (che prendono così le difese di un loro collega che era stato sbeffeggiato perchè puzzava). A dirla tutta, la singolare caratteristica dell’uomo – l’inizialmente mite Berus – viene anche notata dai suoi colleghi, ma il film sottolinea come il vero problema sia “avere una divisa del colore sbagliato“, e quindi una forma di sopraffazione di un branco sull’altro. In effetti Berus era forse l’ultimo individuo che, all’apparenza, potesse diventare un leader del gruppo, eppure suo malgrado lo diventa.

    Ma il vero senso del film non risulta essere tanto la rappresentazione del continuo mobbing che viene effettuato ai danni del “non allineato” 77, e che si esplica in continue umiliazioni e punizioni allo scopo – come ammesso anche da  Zimbardo, del resto – di disgregare il gruppo di carcerati. Il vero senso è che il regista mostra con occhio asettico, quasi documentaristico, quello che risulta essere il vero nocciolo di mille problemi sociali, ovvero la violenza che il più forte scatena, spesso senza alcun vero privilegio nel farlo, sul più debole, o – se preferite – la mania di grandezza di chi è stato definito più forte, bello o bravo che si ritorce contro i reietti. Alla fine, infatti, le guardie saranno fin troppo forti, i detenuti decisamente più deboli ma dovranno per forza di cose organizzare una vera e propria rivolta: la natura umana viene quindi ritratta come definitivamente ed inspiegabilmente infida e violenta, senza speranza.

    Nonostante infatti la data del compenso si avvicini, infatti, le guardie si fanno inebriare dal potere, si coalizzano e fanno un vero e proprio “colpo di Stato” contro gli studiosi che li hanno convocati: si isolano rispetto al mondo esterno, immobilizzano uno degli addetti all’osservazione, addirittura ne incarcerano un’altra assieme ad un ex-“collega” troppo debole, e rinchiudono l’indisciplinato 77 nella black box (una cassaforte con un singolo spiraglio al suo interno). A quel punto non è più una simulazione: è la realtà, che spingerà una delle guardie addirittura a tentare di commettere uno stupro.

    E’ come se la divisa stessa, in un certo senso e dato l’ambiente, creasse i presupposti perchè lo spirito di sopraffazione venga fuori, facendo letteralmente “dimenticare” ai presenti (in particolare alle guardie) che si tratta di un semplice esperimento simulato, fatto solo ed esclusivamente per i soldi. Questo “gioco delle parti” che rapisce ed immedesima lo spettatore, lasciandolo smarrito, viene esasperato nonostante tutti si trovassero d’accordo, nella prima metà del film, a far finire pacificamente l’esperimento allo scopo di incassare il compenso ed andarsene. “The experiment” non da’ scampo: mi ha lasciato quasi intontito, sorpreso, e soprattutto soddisfatto come spettatore.

  • Il rosso segno della follia: Mario Bava sovverte i canoni del genere

    Il responsabile di un atelier di moda, apparentemente elegante e rispettabile (John Harrington), è in realtà un folle serial killer che uccide a colpi di mannaia le proprie vittime…

    In due parole. Un giallo all’italiana condito di elementi gotico-sovrannaturali, che riesce a colpire lo spettatore pur sovvertendo uno dei cardini del genere (l’assassino viene rivelato dopo neanche due minuti). Una buona dose di humor nero ed il tocco di classe del grande regista completano il quadro.

    Qualcuno sta camminando in punta di piedi nel mio cervello...”

    Un’accetta per la luna di miele” – circolato anche con il titolo italiano “Il rosso segno della follia” rappresenta una sorta di studio d’atmosfera sul giallo nostrano, che nel periodo sarà estremamente prolifico ed efficace. Tuttavia qui, a differenza dei grandi cult in cui l’assassino viene rivelato solo alla fine – quando non negli ultimi fotogrammi – Bava si prende il lusso (a ragion veduta) di divagare sul tema, mostrando la vicenda dal punto di vista del responsabile dei delitti, soggettivizzando a tal punto l’intreccio che, ad esempio, il meccanismo per provare ad incastrarlo è ignoto fino alla fine a lui come a noi. Numerose – e di rilievo – quindi le differenze rispetto ai classici del genere, ed è questo che – a conti fatti – rende di grande interesse la pellicola ancora oggi: John Harrington è dichiaratamente un maniaco, un po’ come un Henry ante-litteram, solo un po’ più avvolto in una poetica prettamente gotica, oltre che da ossessioni infantili (il carillon) che sono alla base dei suoi comportamenti.

    Dopo aver visto il film sarà impossibile, del resto, non riportare alla mente quel Profondo rosso che tanto deve, come tutto il cinema di Argento alla fine, proprio al maestro Mario Bava; e questo naturalmente fa parte del gioco di ispirazioni, citazioni e ricordi visivi che hanno fatto il cinema di genere tutto, il quale da sempre vive di rielaborazioni continue (peraltro non sempre apertamente tributate). “Il rosso segno della follia“, senza eccedere in gore e sangue, anzi calibrando con efficacia il ritmo di una storia costruita su personaggi ben studiati e magnetici (ad esempio Dagmar Lassander, affascinante quanto sicura di sè), rappresenta forse uno dei migliori – e meno noti – film di Mario Bava.

  • Moebius: un film quasi insostenibile, che ha lasciato il segno

    Un figlio scopre il padre con l’amante; la moglie decide di evirare il marito. Non riuscendoci, evira il figlio.

    In breve. Per un film del genere qualsiasi spiegazione sintetica rischia di apparire riduttiva: lo sguardo di Kim Ki-duk è impietoso e non risparmia dettagli sulle sofferenze, senza dare spiegazioni e senza un esplicito intento catartico. Uno dei film più nichilisti mai girati dal regista, probabilmente, che non rientrebbe neanche nei film prettamente consigliati per il grande pubblico. Eppure, nulla è gratuito e tutto rientra in una metafora considerevole sui tempi moderni.

    Da non confondersi con l’omonimo argentino del 1996, Moebius (trasmesso anche su RaiTre il 6 aprile del 2019) è l’ultimo film del prolifico regista coreano Kim Ki-duk, purtroppo recentemente scomparso per Covid-19 e che certamente, all’epoca, non le mandava a dire a livello contenutistico. Lo scandalo che suscitò il film per via della sua estrema crudezza di fondo è tutt’altro che ingiustificato, il tutto per quanto, in questa circostanza, la forma sembri decisamente più corposa della sostanza.

    Tanto per cominciare, perché Moebius? L’accostamento con il celebre nastro scoperto dal matematico Mobius (una struttura che si avvolge su se stessa, ottenibile congiungendo le due estremità di un nastro dopo averne girata una di 180°), si lega alla struttura narrativa avvolgente e dai tratti non lineari del film, un po’ come avviene in Strade perdute di Davide Lynch. Pensare ad esso comporta svariate suggestioni, che scateneranno particolarmente le menti degli spettatori, ovviamente quelli disposti a farsi travolgere da suggestioni molto forti.

    Moebius è la visione allucinata della vita di persone comuni, che trasformano una “ordinaria” tresca padre-figlio-amante-madre in un vortice di violenze, sopraffazione e crudeltà. Al centro della narrazione l’idea di evirazione, di privazione forzosa della parte sessuale maschile per espiare le colpe regresse, e naturalmente dei suoi risvolti tragici. In fondo, i guai peggiori del film vengono fuori dal trapianto di pene che il padre concede al figlio, diventa simbolo di una potenza virile del tutto smarrita, ed il fatto che giusto un pene assuma questo genere di valenza è tanto grottesco quanto considerevole.

    Non ci viene detto nemmeno il nome dei personaggi, e questo è quanto. Dettaglio ancora più interessante, il film è del tutto privo di dialoghi: ma questo non dovrebbe far temere velleità arthouse o da cinema d’essai, per quanto – forse solo per via dell’argomento trattato – il messaggio passi lo stesso grazie alla fisicità possente ed espressiva degli interpreti. E questo avviene in modo diretto, puri, comprensibile quasi certamente da solo quegli spettatori provvisti degli attributi (é proprio il caso di dire) per vedere il film senza distogliere lo sguardo neanche per un attimo. Dato il cinismo di Ki-duk (la sua violenza visiva, del resto, è tutt’altro che compiaciuta), ed il suo stile diretto e fin troppo privo di fronzoli (che fa sorridere, in un certo senso, a confronto con quello diluito di Hard Candy, ad esempio, film in parte analogo per contenuti e contesto), rendono la visione un “lavoro” tutt’altro che agevole.

    Il figlio, in particolare, esempio archetipico di bravo ragazzo tormentato dai bulli, diventa anche chi che paga colpe non sue e capricci dei propri genitori: il suo arresto, del resto, coincide con la sua mutazione completata, sia dal lato fisico che comportamentale, un po’ come sarebbe avvenuto nel miglior Cronenberg. Non passa istante in cui qualcuno non voglia sbirciare nei pantaloni del ragazzo, diventato quasi una sorta di fenomeno da baraccone per via del delicato intervento subito. Al tempo stesso il padre, figura in parte debole e del tutto vittima degli eventi, scopre un modo “alternativo” per procurarsi piacere, ovvero sublimando il dolore fisico, e ritenendo che ciò possa condurlo ad un orgasmo che, in effetti, non saprebbe in quale altro modo raggiungere. Una teoria disperata e crudele, non troppo dissimile da quella dei “supplizianti” di Hellraiser, a ben vedere, per quanto ovviamente non ci sia traccia dell’impianto scenico immaginifico del film di Barker. Qui il realismo è quanto di più vivido si possa immaginare, e probabilmente è questo l’aspetto realmente spaventoso e “scandaloso” in ballo.

    Il padre che viene scoperto con l’amante, la madre che vorrebbe vendicarsi sul marito per poi ripiegare sul figlio, i teppisti che aiutano apparentemente il ragazzo salvo poi coinvolgerlo in uno stupro, parlando di un’umanità persa nei palazzi anonimizzanti delle metropoli, oltre che nei suoi vicoli asfissianti. Viene in mente lo stesso regista quando affermò che “l’odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno; è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile“, il che sembra chiarire parte del senso del suo film. Moebius diventa quindi un trattato dell’assurdo su un mondo incomprensibile, prepotente e spaventoso, nel quale è difficile chiarire appieno le motivazioni dei personaggi, per quanto il sesso (e non poteva essere diversamente, in questo contesto) assuma una valenza tanto preponderante da sembrare logorroica.

    C’è da aggiungere, in conclusione – perché non è certo cosa di poco conto – come questo film sia profondamente scabroso, e vada a combinare in un vortice di pulsioni erotiche una storia tanto semplice quanto terrificante per le sue conseguenze (e che a volte, vista in modo un po’ superficiale, sembra addirittura illogica o buttata lì). Il mondo di Moebius è fatto di città semidesertiche, in cui i protagonisti si sbirciano con aria smarrita, consumano sesso proibito, fugate e a volte incestuoso, e con uno sguardo impietoso su baby-gang una più tremenda dell’altra.

    Con un perenne rivoltarsi dei giovani contro le generazioni precedenti, si crea un turbine che sembra non conoscere speranza nè possibilità di reale redenzione.

  • Nascosto nel buio: contiene una delle migliori interpretazioni di Robert De Niro

    Uno psicologo (Robert De Niro) assiste al suicidio della moglie; sconvolto dal dolore decide di far cambiare aria alla piccola figlia (Dakota Fanning), e si trasferisce in una zona apparentemente tranquilla. E’ a questo punto che farà sentire la sua presenza Charlie, un misterioso personaggio di cui non è chiara la natura (un amico immaginario?) che sconvolgerà ulteriormente le loro esistenze …

    In breve. Un thriller “commerciale” piuttosto nella norma, che vive di situazioni canonizzate nel cinema di questo tipo (e di questi anni), e che spaventa più che altro per i colpi di scena senza preavviso. Neanche troppo pauroso nè eccessivamente violento, può essere un buon modo per approcciare al genere per chi è poco avvezzo al sangue (ed alle trame contorte). De Niro superbo come sempre, Dakota Fanning perfetta come archetipo di “bambina inquietante”.

    Poco da raccontare su questo discreto film di Polson: buona padronanza della macchina da presa, pochi e ben definiti personaggi, qualche situazione un po’ “televisiva” ed il giusto livello di intrighi e sospetti. Una citazione ad uno dei classici horror più riusciti di sempre – surprise! ho rimosso una delle immagini in basso perchè altrimenti … – rende  delizioso il “piatto”, ed è davvero impossibile dire quale si tratti senza fare un minimo di spoiler involontario: a dirla tutta, la citazione sembra sostanzialmente involontaria, ma gli spettatori più attenti non mancheranno di coglierla.

    Per quello che posso intuire da onesto profano in materia, gli spettatori psicologi avranno di che discutere dopo aver visto “Nascosto nel buio“, in relazione al tema dell’impossibilità per la ragione di cogliere tutti gli aspetti del vissuto. Da vedere senza esitazione, anche se qualche sbavatura qui e là rende la trama – col senno di poi – abbastanza prevedibile. Per chi conosce a memoria “Tenebre”, “Identità” o “La tarantola dal ventre nero”, “Nascosto nel buio” rimane molto fumo e poco arrosto; per tutti gli altri sarà un gradevole brivido di circa un’ora e mezza, con tanto di doppio finale – o “un finale e mezzo” – a sorpresa.

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