BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Enemy: trama, cast, spiegazione e critica

    Enemy: trama, cast, spiegazione e critica

    “Enemy” è un film del 2013 diretto da Denis Villeneuve e basato sul romanzo “The Double” di José Saramago. Il film è noto per la sua trama complessa e ricca di simbolismi, che ha portato a numerose interpretazioni e discussioni tra gli spettatori.

    La trama segue la vita di Adam Bell, un insegnante di storia noioso e insoddisfatto, interpretato da Jake Gyllenhaal. Un giorno, guardando un film, Adam nota un attore che assomiglia in modo sorprendente a lui. Adam inizia quindi a indagare sulla vita dell’attore, Anthony Claire, che è anche interpretato da Jake Gyllenhaal.

    Man mano che la trama si sviluppa, emergono parallelismi e simboli che suggeriscono che Adam e Anthony potrebbero essere la stessa persona, o almeno rappresentazioni simboliche di parti della stessa personalità. Entrambi i personaggi condividono una relazione complicata con le donne nella loro vita, che a loro volta sembrano avere connessioni e parallelismi.

    Il film è caratterizzato da una forte atmosfera onirica e surreale, con una fotografia cupa e una colonna sonora inquietante che contribuiscono a creare un senso di tensione e mistero. La narrazione ambigua e aperta a interpretazioni multiple ha portato a numerose teorie e discussioni tra gli spettatori sul significato e sulle implicazioni della trama.

    In definitiva, “Enemy” è un film che sfida lo spettatore a riflettere sul concetto di identità, doppio e la natura oscura della psiche umana. La sua natura enigmatica e simbolica lo rende un’esperienza cinematografica unica e coinvolgente per chi è disposto ad affrontare il suo mistero.

  • L’etrusco uccide ancora: l’horror thriller italiano dal finale clamoroso

    Un archeologo, con un passato da alcolista e tormentato dal ricordo dell’ex compagna, lavora intensamente presso alcuni scavi tra Spoleto e Cerveteri. Alcuni feroci delitti saranno commessi all’interno delle catacombe…

    In breve. Thriller di “vecchia scuola” italiana, che bilancia la componente horror con quella puramente di tensione, senza mai eccedere nè eccellere, nell’una o nell’altra. Un lavoro nella media del periodo, per cultori e veri appassionati del genere, che rischia di deludere tutti gli altri – nonostante qualche colpo di scena interessante (specie nel finale).

    Armando Crispino, artefice del meglio riuscito Macchie solari (che risulterà qualitativamente superiore a questo sotto vari punti di vista)  realizza un giallo-thriller piuttosto intricato fin dall’inizio, tanto che non riesce ad essere chiaro lo stesso ruolo dei vari personaggi almeno per la prima mezz’ora. In seguito il film, sulla scia di varie suggestioni pre-argentiane (gli omicidi efferati, l’allucinazione – un po’ troppo artigianale, per la verità – del demone Tuchulcha che compare nella locandina) tenta un decollo qualitativo che sembra apparentemente realizzabile, per quanto – a confronto di quello che farà Argento qualche tempo dopo – il film sia quasi completamente carente del giusto ritmo. La recitazione non esattamente da Actor’s Studio della maggioranza dei personaggi, inoltre, con poche eccezioni tra cui l’ispettore di polizia ed il suo assistente, non contribuisce a rendere “L’etrusco uccide ancora” un lavoro da ricordare, e questo nonostante l’idea di inserire le suggestioni del demone etrusco della morte fosse obiettivamente parecchio accattivante (almeno per l’epoca). Appare comunque chiaro fin dall’inizio che il killer è un uomo e non un’entità, e la componente sovrannaturale finisce sia per essere un fondale degno dell’intreccio che per conferire una certa “autorità” al film stesso: questo nonostante non manchino dettagli tipici del genere che pero’, a ben vedere, non risultano essere troppo sconvolgenti.

    Notevole, su tutto il resto, come il doppio-finale (qui talmente esasperato da sembrare addirittura quadruplo, per quante sono le apparenti identità dell’assassino) sia archetipico del succitato regista romano, che ne aveva già fatto uso per la prima volta ne “L’uccello dalle piume di cristallo” (1970, due anni prima). In definitiva un discreto giallo all’italiana, con vera tensione solo a sprazzi, originale solo in parte e – a mio avviso – ampiamente sopravvalutato dalla critica più “revisionista” in materia: il suo principale problema è la mancanza di quel mordente che rende davvero uniche pellicole di questo tipo. Da vedere per curiosità o per una serata senza troppe pretese.

  • Reazione a catena: quando Mario Bava inventò un nuovo genere

    Considerato il padre dello slasher-movie, è uno dei capolavori assoluti horror-thriller italiani: ricco di suspance, splatter, intrighi, buona recitazione e sano cinismo. Un capolavoro del grande Mario Bava, diventato un cult fino ad oggi anche se – bisogna dire – (ri)scoperto in ritardo a causa di una distribuzione non eccelsa, almeno all’inzio. Reazione a catena esalta all’ennesima potenza gli elementi filmici che hanno ispirato il primo Dario Argento, tanto che i richiami nelle inquadrature e nelle ambientazioni viste in Profondo rosso sembrano analoghe alla sequenza iniziale del film.

    La catena di delitti del titolo, per inciso, fa riferimento ad una serie di omicidi che viene perpetuata per ragioni poco chiare: prima un’anziana contessa strangolata il 13 febbraio, poi il marito di lei, successivamente una ragazza che fa riaffiorare casualmente il cadavere dell’uomo. Il tutto ruota attorno alla proprietà di una baia con un lago, proprietà della contessa di cui sopra, su cui vorrebbe mettere le proprie grinfie più di una persona, tra cui un architetto con buone conoscenze nella politica. Al tempo stesso la cinica figlia del conte, assieme al marito, progetta di possedere la proprietà a qualsiasi costo: così esce fuori un complicato intreccio che si svilupperà in più direzioni. Dopo ulteriori omicidi effettuati per paura di essere reciprocamente scoperti, ne risulterà un quadro umano senza speranza, nè possibilità alcuna di redenzione.

    La nota – e spesso ripetuta – somiglianza di Reazione a catena con la saga di Jason Voorhees, in fondo, si esplica nell’omicidio sanguinolento dei ragazzi nel cottage (la coppia viene trafitta alla schiena durante l’amplesso, una scena ripresa identicamente nel film americano, il quale, dettaglio non da poco, è uscito dopo questo di Bava) e nella difesa – in chiave ambientalista – della baia, un luogo incontaminato che è, peraltro, una sorta di prototipo di Camp Crystal Lake. Indubbiamente Reazione a catena è più intricato dell’episodio iniziale della nota saga americana, e la paternità al genere slasher credo rimanga più che lecita.

    Inoltre Bava si orienta sul non politicallycorrect, denunciando grottescamente l’eccessiva nonchalance con cui si usano le armi, e più in generale la cinica barbarie a cui gli adulti abituano indirettamente i bambini. In altre parole, un po’ come suggeriva uno dei titoli provvisori della pellicola, “Così imparano a fare i cattivi“, che si stampa nelle coscienze degli spettatori in modo indelebile. Con risultato ancora più efficace, in fondo, se si pensa che “i bambini hanno paura del buio“…

    …io almeno il polipo lo mangio. Ma uccidere così, per hobby…

  • Secret Window: l’indimenticabile horror psicologico di D. Koepp

    Uno scrittore horror (Mort Rainey) divorzia dalla consorte, e si chiude in una baita sperduta assieme al proprio cane: immerso in una vita disordinata e caotica, è incapace di riempire una sola pagina e passa le sue giornate nella depressione più acuta. Una mattina si presenta alla sua porta il singolare John Shooter, villano del Mississipi, che sostiene energicamente di essere stato vittima di plagio da parte di Mort. Incredibilmente lo scritto che gli viene consegnato somiglia ad un racconto pubblicato dallo scrittore diversi anni prima…

    In due parole. Buon film, dai toni misteriosi e molto psicologici, che forse ricorderà agli spettatori qualcosa di già visto o già letto altrove (ad esempio il racconto di King da cui è tratto). La dinamica funziona alla grande, ed il film si difende dignitosamente con buone interpretazioni e ottima regia. Da vedere anche adesso, perchè prodotto attuale e molto focalizzato sul tema: in altre parole adatto a chi voglia vedere un buon thriller senza dover per forza “scavare” negli anni settanta/ottanta, e senza scomodare eccessiva violenza.

    Qualcuno insiste che le storie di King siano sempre la stessa solfa da trent’anni, e – per quanto consideri miope questa visione – resta il fatto che 1) si tratta di uno degli scrittori fantastici più prolifici in assoluto (assieme, credo, al “collega” Clive Barker) 2) abbiamo di fronte uno degli autori più “filmabili”, tanto che mostri sacri come Kubrick, De Palma e Cronenberg si sono cimentati nella rappresentazione dei suoi libri o racconti. Secret Window è tratto dalla raccolta di racconti “Quattro dopo mezzanotte”, precisamente “Finestra segreta, giardino segreto”, e mette in scena un thriller dai toni ambigui ambientato in una cittadina apparentemente tranquilla. Efficacissimo, a mio parere, il contrasto tra la solitudine delirante e disordinata di Mort (Johnny Depp) e la vita cittadina e ordinaria di Amy (Maria Bello), capace di sfociare in una trama dalle circostanze, in qualche modo, del tutto inaspettate. Non dico di più per evitare irritanti anticipazioni di troppo: guardate questo film anche se non siete propensi per l’horror perchè, nei limiti, dovrebbe rispondere a varie fasce di pubblico e di preferenze.

    King, per la verità, non è mai stato troppo d’accordo sulla rappresentazione selvaggia delle sue opere, e proprio per questo un confronto letterario-cinematografico (come ho scritto già per Lovecraft, del resto) rischia di perdere qualsiasi senso: cosa che, peraltro, sono impossibilitato a fare dato che non ho presente “Quattro dopo mezzanotte“, che per puro caso non ha (ancora) un posto nella mia libreria. Resta il fatto che Koepp ci ha saputo fare ed ha confezionato un thriller forse fin troppo classico, piuttosto simile stilisticamente a Nascosto nel buio, con qualche piccola licenza “poetica” e molto godibile. Fate inoltre attenzione alla frase che trascina l’intero film, quella incentrata sul senso di ogni storia che si racchiude, come ho sempre pensato anch’io, nel finale della stessa: quello di “Secret Window” è, a mio parere, tra i meglio riusciti degli ultimi anni.

  • Cani arrabbiati: il cult di Bava che terrorizza ancora oggi

    Una rapina finita male è l’inizio di un road movie da incubo: uno dei migliori cult del cinema estremo all’italiana.

    In breve: cinismo, claustrofobia, personaggi molto caratterizzati e finalone a sorpresa costituiscono i quattro ingredienti di “Cani arrabbiati” di Mario Bava. Per chi volesse vedere i film più controversi è un vero e proprio must, più solido come narrazione rispetto a troppi successori/imitatori.

    Partendo dal titolo del film, e pensando al fatto che è stato inedito per anni, ristampato in versione edulcorata nel finale solo anni fa, viene subito da pensare che si tratta dell’essenza della “metà oscura” di Mario Bava. Il regista ha infatti diretto prevalentemente horror, ma è stato artefice in uno dei suoi momenti più ispirati dello slasher-movie per eccellenza Reazione a catena. In breve è stato un terrorista dei generi come Fulci, e Cani arrabbiati è l’esposizione alla luce solare di tutti gli archetipi di crudeltà umana, dove non esiste speranza di salvezza e a trionfare sono la violenza ed il mero interesse economico. Il tutto usando il linguaggio della violenza e dell’exploitation, raramente a livelli tanto lucidi quanto insostenibili.

    Si tratta di un thriller atipico, per il fatto che è ambientato quasi interamente nello spazio ristretto di una macchina, nella quale tre criminali prendono in ostaggio un uomo, una donna ed un bambino che hanno la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. I tre cattivi della storia (“Dottore”, “Trentadue” e “Bisturi”) non sono che degli avidi psicopatici che uccidono senza rimorso, in nome di uno sgangherato ed imprescindibile “mors tua, vita mea”: al tempo stesso dimostrano di possedere un lato prettamente umano, che spiazza ed inchioda lo spettatore alla poltrona fino all’ultima scena.

    Ed in quella lotta all’ultimo sangue per “tutto o niente”, che ricorda vagamente il discorso di Giulio Sacchi in “Milano odia…”, risiede il significato di questo Bava nichilista e profondamente pessimista. A cominciare dall’inaspettato e pazzesco finale, in cui si scopre un velo di Maya che mostra una realtà inaspettata, forse ancora meno sostenibile del racconto in sè. Il che significa, in altri termini, l’impossibilità di catalogare i comportamenti per divisioni preconcette tra bene e male, oltre a rappresentare il prezzo da pagare per sopravvivere, che è spesso – per assurdo – moralmente inaccettabile. Ognuno lotta per se stesso, e lo sforzo finisce beffardamente per non essere quasi mai correlato all’effetto finale che provoca.

    Tra gli attori, da ricordare Riccardo Cucciolla in una delle sue migliori interpretazioni, e Don Backy che interpreta il crudele “Bisturi”, le cui confusioni mentali vengono bizzarramente (e in modo geniale) rese da una pallina di flipper che rimbalza mediante un frenetico montaggio. Claustrofobia su pellicola senza contaminazioni, se non quelle suggerite dalla strada – e parlare solo di road-movie appare quantomeno limitativo. Realizzato nel 1974, in realtà non uscì all’epoca (la casa di produzione fallì), e soltanto anni fa è stato recuperato con il titolo Semaforo rosso e riproposto in DVD; ad oggi, è un titolo piuttosto agevole da reperire (RaroVideo). Probabilmente le tematiche trattate, unite al lugubre pessimismo sull’uomo che accompagna il film, non furono incentivi alla pubblicazione e diffusione dell’opera, rimasta semi-sconosciuta per molto, troppo tempo.

    Le musiche sono di Stelvio Cipriani, uno dei più grandi musicisti di cinema anni 70 ed autore di numerose altre colonne sonore (Incubo sulla città contaminata, La morte cammina con i tacchi alti e lo stesso Reazione a catena).

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