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  • Psycho di Hitchcock è il padre putativo di tutti gli slasher

    Psycho di Hitchcock è il padre putativo di tutti gli slasher

    Walt Disney, durante i primi anni 60, rifiutò di consentire a Sir Alfred Hitchcock di girare a Disneyland, perché a suo dire il regista aveva girato “quel film disgustoso, ‘Psycho‘”.

    “Psycho” è un celebre film thriller psicologico del 1960 diretto da Alfred Hitchcock. Ecco alcune informazioni chiave sul film:

    Cast Principale:

    • Anthony Perkins nel ruolo di Norman Bates
    • Janet Leigh nel ruolo di Marion Crane
    • Vera Miles nel ruolo di Lila Crane
    • John Gavin nel ruolo di Sam Loomis
    • Martin Balsam nel ruolo del detective Arbogast

    Storia: La storia ruota attorno a Marion Crane, una segretaria che ruba una grossa somma di denaro e decide di fuggire dalla città. Durante il suo viaggio, si ferma al Bates Motel, gestito da Norman Bates, un uomo con una relazione misteriosa con sua madre. Ciò che segue è un intreccio di suspense, omicidi e psicologia distorta.

    Regia: “Psycho” è stato diretto da Alfred Hitchcock, uno dei più grandi maestri del cinema thriller e suspense. Hitchcock è noto per la sua maestria nella creazione di tensione e atmosfera nel suo lavoro, e “Psycho” non fa eccezione.

    Produzione: Il film è stato prodotto dalla Paramount Pictures ed è stato realizzato con un budget relativamente limitato. Hitchcock ha scelto di girare in bianco e nero, il che ha contribuito a creare un’atmosfera tesa e angosciante.

    Stile: Il film è noto per il suo stile visivo unico e l’uso innovativo della musica, creata da Bernard Herrmann. La colonna sonora è stata cruciale per creare un’atmosfera angosciante e incalzante nel corso del film.

    Sinossi: Marion Crane decide di rubare una grande somma di denaro e fuggire dalla città. Durante il suo viaggio, si ferma al Bates Motel, dove conosce Norman Bates, il misterioso gestore dell’albergo. La storia prende una svolta oscura quando Marion scompare e un investigatore privato viene incaricato di trovarla.

    Curiosità:

    • Il film è basato sul romanzo omonimo di Robert Bloch, che a sua volta si ispirò ai crimini reali di Ed Gein, un serial killer noto per le sue abitudini macabre.
    • La scena della doccia, in cui Marion viene uccisa, è una delle sequenze più iconiche nella storia del cinema ed è stata girata con grande attenzione ai dettagli e montata in modo magistrale.
    • Hitchcock fece in modo che il pubblico non entrasse nella sala cinematografica una volta iniziato il film, una mossa insolita all’epoca, per preservare l’effetto sorpresa della trama.

    “Psycho” è un film che ha rivoluzionato il cinema thriller e ha influenzato generazioni di registi. La sua combinazione di suspense, psicologia e suspense visiva lo rende un classico immortale.

    Recensione di Psycho di A. Hitchcock (1960)

    L’esperienza di vedere Psycho oggi, a più di sessant’anni dalla sua uscita, rientra in quelle necessità cinefile inderogabili che non si possono raccontare senza ambiguità: per quanto sia stato scritto in lungo e in largo su questo film, del resto, rivederlo fa sempre “bene alla salute” e ci ricorda qualcosa di molto importante (che nessuno inventa mai nulla, o che il gioco dei ricicli del cinema di genere parte probabilmente in quegli anni). Una forma di ispirazione che è tutt’altro che formale o didascalica, bensì perfettamente concreta: Psycho riesce nello scopo di incollare lo spettatore alla poltrona, ancora oggi e nonostante tutti (si spera) conoscano il trick nascosto nelle sue maglie narrative (la figura della madre del protagonista).

    Sir Alfred Hitchcock desiderava così tanto realizzare questo film che ha rinviato il suo stipendio standard di $ 250.000 invece del 60% dell’incasso del film. La Paramount Pictures, credendo che questo film sarebbe andato male al botteghino, fu d’accordo. I suoi guadagni personali da questo film hanno superato i $ 15 milioni. Adeguato all’inflazione, tale importo sarebbe di $ 131 milioni nel 2020 dollari.

    Secondo l’analisi proposta da Slavoj Zizek in Guida perversa il cinema, i tre piani della casa in cui è ambientato il film corrispondono a tre, corrispondenti, livelli psicoanalitici: al piano terra troviamo la realtà, ciò che appare e ciò che sembra a prima vista. L’es o istinto freudiano si troverà nel piano inferiore mentre il superio sarà localizzato a quello superiore.

    La questione della localizzazione dei luoghi in termini di stato d’animo e potenziale mood dei personaggi è fondamentale per comprendere la più effettiva chiave di lettura di Psycho: che (un po’ come ha fatto Hellraiser per il genere horror) è un thriller seminale, che ha finito per condizionare in un modo e nell’altro generazioni di cineasti e di cinefili, oltre a porre la questione della paura dell’ignoto su un piano non più alieno (come ne L’invasione degli ultracorpi, ad esempio) bensì su uno perfettamente umano, basato sulla quotidianità del vissuto. Con un finale che più imprevedibile e devastante non si potrebbe, tanto che quando il cast e la troupe hanno iniziato a lavorare il primo giorno, hanno dovuto alzare la mano destra e promettere di non divulgare una sola parola della storia. Hitchcock ha nascosto al cast la parte finale della sceneggiatura fino a quando non ha avuto effettivo bisogno di girarla. Di più: ha acquistato i diritti del romanzo in modo anonimo da Robert Bloch per  $ 9.000, e pare abbia acquistato quante più copie possibile del romanzo, per mantenere massimamente segreto il finale.

    Il film è stato in gran parte realizzato perché Sir Alfred Hitchcock era stufo dei film ad alto budget e costellati di star che aveva recentemente realizzato e voleva sperimentare lo stile più efficiente e più scarno del cinema televisivo. Alla fine ha utilizzato una troupe composta principalmente da veterani della televisione e attori e attrici assunti meno noti di quelli che usava di solito. In particolare, La donna che visse due volte (1958), che in seguito fu acclamato come un capolavoro, fu considerato un fallimento eccessivo e sovradimensionato. E mentre Intrigo internazionale (1959) è stato salutato come un capolavoro ed è stato un successo, è stata una produzione enorme, ed è stata anche molto lunga e costosa. Quindi Hitchcock ha deciso di ridimensionare le cose per il suo prossimo film. Inoltre, nello stesso periodo, il suo rivale, il regista di film noir e new wave francese Henri-Georges Clouzot, colpì il bersaglio e creò scalpore al botteghino con il classico I diabolici (1955). Tutti i critici hanno detto che Clouzot aveva superato Hithcock Hitchcock, e questo ha presentato un confronto che Hitchcock non poteva rifiutare. Diabolique era un film indipendente su piccola scala, grintoso, in bianco e nero, quindi Hitchcock ha deciso di superare Diabolique Diabolique e ha diretto il suo progetto in bianco e nero su piccola scala e grintoso: quello era Psycho.

    Difficile trovare un altro thriller che sia riuscito nell’intento di intrigare e terrorizzare in modo così netto, senza fronzoli ed elegante.  Tanto è stato il fascino che ha esercitato questo film che si tratta di uno dei pochi casi in cui è stato proposto un remake shot-to-shot, fatto esattamente sulla sequenza voluta da Hitchcock e diretto nel 1998 da Gus Van Sant. Un esperimento quasi unico nel suo genere che varrebbe tutto sommato la pena di rivedere, per quanto l’originale rimanga per ovvie e scontatissime ragioni una pietra miliare del suo genere – anche se forse non il miglior film in assoluto di Alfred Hitckcock, nato nel 1899 e morto nel 1980, con la bellezza di 56 lungometraggi all’attivo (senza contare i corti ed i lavori per la TV).

    Seguono curiosità sparse sul film.

    Pare che Sir Alfred Hitchcock fosse così soddisfatto della colonna sonora di Bernard Herrmann che ha raddoppiato lo stipendio del compositore pagandolo 34.501 dollari dell’epoca. Hitchcock in seguito arrivò a sostenere  che il 33 percento dell’effetto di Psycho fosse dovuto alla musica.

    Nella scena iniziale, Marion Crane indossa un reggiseno bianco perché Sir Alfred Hitchcock voleva mostrarla come “angelica”. Dopo che ha preso i soldi, la scena seguente la vede in un reggiseno nero perché ora ha fatto qualcosa di sbagliato e malvagio. Allo stesso modo, prima di rubare i soldi, ha una borsa bianca. Dopo che ha rubato i soldi, la sua borsa è nera.

    Anthony Perkins e Janet Leigh hanno affermato che non gli importava di essere stereotipati per sempre a causa della loro partecipazione a questo film. Hanno detto nelle interviste che avrebbero preferito essere stereotipati ed essere ricordati per sempre per questo film classico piuttosto che non essere ricordati affatto.

    Il regista Sir Alfred Hitchcock originariamente aveva immaginato la sequenza della doccia come completamente silenziosa, ma Bernard Herrmann è andato avanti e l’ha segnata comunque, e dopo averla ascoltata, Hitchcock ha immediatamente cambiato idea.

    Quando uscì al  cinema, Hitchcock diede disposizione che ogni gestore fosse messo a conoscenza del fatto che era vietato, per gli spettatori, entrare dopo l’inizio del film. A rischio della vita del gestore, diceva ironicamente l’avviso distribuito all’epoca. Per garantire che le persone fossero nei cinema all’inizio di questo film, aveva fornito un disco da riprodurre nell’atrio dei cinema. L’album conteneva musica di sottofondo, interrotta periodicamente da una voce che diceva “Dieci minuti all’inizio di Psycho”, “Cinque minuti all’inizio di Psycho” e così via.

    Sebbene Janet Leigh non sia stata infastidita dalle riprese della famosa scena della doccia (anche se ha usato un controfigura), vederla nel film l’ha profondamente commossa. In seguito ha osservato che le ha fatto capire quanto fosse vulnerabile, a suo stesso dire, una donna sotto la doccia. Fino alla fine della sua vita, ha sempre preferito il bagno, da quello che sappiamo.

    Dopo l’uscita di questo film, Sir Alfred Hitchcock ha ricevuto una lettera arrabbiata dal padre di una ragazza che si rifiutava di fare il bagno dopo aver visto I diabolici (1955), e ora si rifiutava di fare la doccia dopo aver visto questo film. Hitchcock ha rispedito un biglietto dicendo semplicemente: “Mandala in tintoria“.

    La Paramount Pictures ha dato a Sir Alfred Hitchcock un budget molto ridotto con cui lavorare, a causa del loro disgusto per il materiale originale. Hanno anche rimandato la maggior parte degli incassi al botteghino a Hitchcock, pensando che il film sarebbe fallito. Non è andata esattamente come si pensava.

    Quando Norman si rende conto per la prima volta che c’è stato un omicidio, grida: “Madre! Oh Dio! Dio! Sangue! Sangue!” Sir Alfred Hitchcock ha rimosso le frequenze dei bassi dalla voce di Anthony Perkins per farlo sembrare più un adolescente spaventato.

    Uno dei motivi per cui Sir Alfred Hitchcock ha girato il film in bianco e nero era che pensava che sarebbe stato a colori troppo cruento. Ma il motivo principale era che voleva realizzare il film nel modo più economico possibile (meno di un milione di dollari). Si chiedeva anche se così tanti film “B” in bianco e nero brutti, fatti a buon mercato andassero così bene al botteghino, cosa sarebbe successo se fosse stato realizzato un film in bianco e nero davvero buono, fatto a buon mercato.

    Il romanzo da cui è tratto questo film è ispirato alla storia vera di Ed Gein, un serial killer a cui si ispirano anche Deranged – Il folle (1974), Non aprite quella porta (1974) e Il silenzio degli innocenti (1991 ).

    Come finisce Psycho (avviso spoiler)

    Alla fine del film, scopriamo che Norman Bates è il vero assassino di Marion Crane. Poteva sembrare ovvio, per certi versi, ma c’è una svolta sorprendente: Norman soffre di disturbo dell’identità e presenta una personalità dissociata, che crede letteralmente di essere sua madre. La madre di Norman è morta da anni, ma egli ne ha preservato il cadavere e vive il cadavere in casa.

    L’omicidio di Marion è stato commesso da Norman mentre era nella personalità della madre. Questo spiega perché non ricorda nulla degli omicidi. Il film si conclude con Norman rinchiuso in un istituto psichiatrico, mentre una voce fuori campo riflette sulla sua condizione psicologica e sugli orrori che ha commesso.

  • La morte avrà i suoi occhi: un film da recuperare subito

    Una donna abita da sola in una baita sperduta (etteparèva) e riceve la visita di uno sconosciuto (Malcom McDowell) che chiede di poter fare una telefonata. I due iniziano a parlare ed a conoscersi, mentre aleggia una diffidenza reciproca…

    In breve. Film semi-sconosciuto e di taglio tipicamente ottantiano, in cui emergono tutti (o quasi) i topos della tensione e del thrilling del periodo. Il risultato finale riesce incredibilmente a sorprendere, soprattutto nel finale. Da vedere.

    Si può fare un lungometraggio thriller con due soli personaggi? Probabilmente è possibile farlo, e una consistente prova in tal senso è data da questo film: basandosi su un bel soggetto di Michael Sloane e sull’interpretazione di due eccellenti attori (Malcom McDowell di Arancia meccanica e Io, Caligola, e l’intrigante Madolyn Smith Osborne), il film si apre con un incipit inquientante (una fotografia ed un’ascia che si abbatte su qualcosa o qualcuno), e racconta dell’incontro casuale tra un uomo ed una donna. Il primo si trova con la macchina in panne, e si rivolge alla seconda per fare una telefonata: dall’incontro nasce una sorta di interesse morboso che nessuno dei due sembra disposto ad ammettere, e che finisce per delinearsi in una specie di lotta psicologica in cui non si capisce chi sia la preda e chi il predatore.

    Diffidenza tra due estranei, dunque, ed una lunghissima analisi del rapporto conflittuale tra essi (giocato quasi esclusivamente sul piano mentale), con uno che cerca di sopraffare l’altra (e viceversa), delineando una delle più ambigue relazioni tra personaggi mai viste su uno schermo. A differenza di molti altri epigoni del genere, del resto, costruiti su buone storie ma sofferenti di dialoghi spesso carenti e poco attrattivi, “La morte avrà i suoi occhi” possiede un buon ritmo e intreccia le storie dei due protagonisti con grande stile. Questo contribuisce a far salire enormemente il livello della pellicola, nonostante la relativa semplicità della messa in scena – un paio di esterni e la casa di lei – e la presenza di indizi piuttosto abusati (le bambole decapitate, la fantasia che si confonde con la realtà). Il finale mostra un cambio di toni assolutamente inattesi e – cosa davvero notevole – in parte anche di genere, cosa che potrebbe spiazzare lo spettatore e per rendere il titolo italiano quasi fuorviante (“The caller“, per la verità, non fa capire molto di più).

    Una buona idea, decisamente originale ed intrigante, per un film con poca azione e molto dialogo, assolutamente funzionale alla bizzarra trama ed ancora più weird nella spiegazione del tutto.

  • Malice: sinossi, cast, trama, produzione e spiegazione finale

    Malice – Il sospetto” è un film del 1993 diretto da Harold Becker. Si tratta di un thriller psicologico con un cast stellare, tra cui Alec Baldwin, Nicole Kidman (in uno dei suoi primi ruoli da protagonista) e Bill Pullman. Di seguito troverai informazioni sulla produzione, la sinossi, alcune curiosità e una spiegazione finale del film (con spoiler):

    Cast

    • Alec Baldwin nel ruolo del Dr. Jed Hill
    • Nicole Kidman nel ruolo di Tracy Kennsinger
    • Bill Pullman nel ruolo del Dr. Andy Safian
    • Bebe Neuwirth nel ruolo di Dana Kennsinger
    • George C. Scott nel ruolo del Dr. Martin Kessler
    • Anne Bancroft nel ruolo di Mrs. Kennsinger

    Il film è stato prodotto da Aaron Spelling e Alan Greisman. La sceneggiatura è stata scritta da Aaron Sorkin insieme a Scott Frank.

    Sinossi

    Il film ruota attorno a un giovane medico di nome Andy Safian (interpretato da Bill Pullman) e alla sua moglie Tracy (interpretata da Nicole Kidman). La coppia si trasferisce in una piccola cittadina dove Andy trova lavoro in un ospedale locale. Tuttavia, quando una serie di eventi misteriosi e sospetti inizia a verificarsi, tra cui una serie di violenze sessuali, la coppia si trova coinvolta in una trama oscura che coinvolge anche il loro vicino, il dottor Jed Hill (interpretato da Alec Baldwin). L’indagine sulle violenze sessuali e sui crimini collegati porta alla scoperta di verità sconvolgenti e segreti nascosti.

    Curiosità:

    • Il film è noto per le sue torbide dinamiche di potere e per le rivelazioni inaspettate che si svelano man mano che la trama si dipana.
    • La performance di Alec Baldwin è stata particolarmente elogiata per la sua abilità nel creare un personaggio ambiguo e inquietante.

    Spiegazione finale (avviso Spoiler)

    Alla fine del film si scopre che il dottor Jed Hill è il colpevole dietro i crimini commessi. Si rivela che Jed è un abile chirurgo e un sociopatico che ha perpetrato gli atti violenti e ha orchestrato una serie di eventi per far sembrare che il dottor Andy Safian fosse il colpevole. Aveva manipolato Tracy, la moglie di Andy, per convincerla che era incinta di lui, inducendo così Andy a compiere azioni in nome della sua famiglia. Alla fine, Andy riesce a smascherare le azioni di Jed e a salvare la sua famiglia.

    In sostanza, il film gioca con le tematiche della fiducia, della manipolazione e dell’identità, creando una trama complessa che sfida le aspettative dello spettatore fino alla rivelazione finale.

    Di screenshot catturato da Utente:Valerio79 – video, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3877887

  • Profondo rosso: recensione in 1099 parole (con foto dei luoghi)

    Il capolavoro di Dario Argento, forse la migliore sintesi di tutti i suoi ingredienti orrorifici e di suspance.

    In breve: il capolavoro del giallo-horror, la sua espressione più nota al grande pubblico. Un successo internazionale che consacra Argento come mago dell’orrore e della suspance.

    Magia. Il solo modo per definire oggi “Profondo rosso“, pur rischiando di sconfinare nella più stereotipata e vuota retorica: un capolavoro senza tempo, la summa della perfezione del cinema thriller, che si contamina con l’horror senza dimenticare, come invece accade oggi, le sue radici puramente giallistiche. Ancora adesso osannato dai fan del genere (e non solo) e da parte della critica cosiddetta seria, ivi compresi gli spettatori più smaliziati che ogni volta si divertono ad evidenziare le incongruenze e le ingenuità dei cosiddetti b-movie. Profondo rosso, pur essendo assimilato ad un certo sottogenere horror che non faceva dei budget elevati il proprio punto di forza, non dovrebbe nemmeno rientrare nella categoria essendo, per sua definizione, forma e sostanza, fuori norma.

    Ma qui non si puo’ scomodare la serie B per nessuno motivo: si rischia di fare un torto enorme a quello che diventerà, da questo momento in poi, il guru del cinema “di paura” nostrano. Ancora devo conoscere una persona che osi – è proprio il caso di dirlo – trovare un aspetto discutibile o fatto male in questo autentico masterpiece del terrore: il fiore all’occhiello di Dario Argento, senza dubbio la sua opera più amata e più ricca di sequenza indimenticabili.

    Da un lato viene rappresentata la normale ordinarietà di un musicista jazz (Marcus/Hammings), di una giornalista attratta da lui (Gianna/Daria Nicolodi), di un commissario di polizia che indaga su una morte misteriosa e di qualche altro personaggio apparentemente qualsiasi: dall’altra la sofferenza del debole musicista Carlo, l’identità di un assassino crudele (uno dei più inquietanti mai realizzati nel cinema, a mio modesto parere), l’incontro casuale con il Male della medium (Helga/Macha Merìl) che lo identifica e ne rimane traumatizzata (oltre che uccisa). Altri marchi di fabbri caratterizzanti il giallo: personaggi che pervengono alla verità componendo frammenti di ricordi. Vittime che vengono colpite a morte spaccando, tipicamente, infissi delle finestre.

    Tra le scene di culto: la rassegna di armi del maniaco in primissimo piano su una stoffa rossa, la morte attraverso le schegge di una finestra, la decapitazione con una collana impigliata nell’ascensore, i denti di una vittima sfracellati sullo spigolo di un camino, un pupazzo a molla che preannuncia l’arrivo del maniaco, i sadici colpi di machete sul corpo di una donna, l’ustione con successivo annegamento nella vasca da bagno. Un campionario dell’orrore che culmina con la lucertola trafitta da uno spillo, il disegno murato nella “casa del bambino urlante“, lo specchio “rivelatore” della verità (anche in chiave psicoanalitica: per scoprire la verità dobbiamo guardare dentro noi stessi, anche a costo di rivelazioni dolorose o sgradevoli), una testa spappolata sotto la ruota di una Lancia Beta Cupè, un corpo trascinato da un autocarro Fiat 643: in altre parole il film in toto, nel suo incedere chirurgico, crudele ed incalzante, per la bellezza di due ore di incredibile Cinema.

    Profondo rosso” si sviluppa come una spira velenosa, un serpente affascinante e pauroso al tempo stesso, che avvolge lo spettatore da più parti facendo scattare un gioco di sospetti, di parole non dette, di confessioni mancate, di insospettabili complici intervallati da esecuzioni macabre, violentissime e mai come adesso “artistiche”. Il killer protagonista conduce i personaggi, in parte consapevoli ma comunque schiavi di un Male subdolo ed incosciente, come un mastro burattinaio, creando i presupposti per uno dei più geniali doppi finali mai concepiti dal regista romano. E questi ultimi, fino ad oggi, sono il suo marchio di fabbrica, il motivo per cui Argento è  da considerarsi anche solo di poco superiore, quantomeno in passato, a tutti i suoi diretti concorrenti (Fulci e Lenzi in primis, ma ovviamente si tratta di confronti solo “di facciata” che non vogliono sminuire nessuno).

    Se avete vissuto sulla Luna fino ad oggi e non avete mai visto Profondo rosso (che mi guardo bene dallo spoilerare, nonostante ci sia un’edizione in DVD che brucia il finale addirittura sulla foto di copertina), basta una capatina nel più vicino negozio o videoteca per rimediare e redimervi dal peccato. Se invece avete già visto Profondo Rosso, adesso vi sembrerà di sentire la colonna sonora dei Goblin: la, la, la, lalala…

    10 curiosità sul film

    Esterni girati a Torino

    Nonostante la storia sia ambientata formalmente a Roma, gran parte degli esterni furono girati a Torino. La scena iniziale nel teatro avvenne presso il sss, mentre gli esterni poco prima del primo omicidio sono nell’attuale piazza CLN, Comitato di Liberazione Nazionale (che all’epoca non aveva un nome, e fu sede delle SS durante la seconda guerra mondiale).

    Eccovi alcune foto recenti di piazza CLN (TO).

    Guanti e primi piani

    I primi piani sono all’ordine del giorno in questo film, tanto da risultare come marchio di fabbrica della regia. Le mani dell’assassino mentre indossa dei guanti sono state eseguite da Dario Argento in persona.

    La sequenza a piazza CLN

    Nella scena ambientata nell’attuale piazza CLN a Torino il personaggio interpretato da David Hemmings esce da un bar di notte per incontrare l’amico pianista: il bar è stato realizzato sulla base del famoso dipinto I nottambuli di Edward Hopper.

    Scene tagliate (e recuperate)

    Dopo gli 11 secondi di restauro effettuati nel 1993 per conto della Redemption, il DVD Platinum ha ripristinato la breve scena del combattimento tra due cani precedentemente scomparsa. La famosa scena della lucertola trafitta da uno spillo è tagliata malamente in alcune versioni. Nella maggioranza delle versioni internazionali le scene sono presenti (immagini tratte da movie-censorship.com)

    Ispirazione

    Stando a quanto dichiarato dallo sceneggiatore Bernardino Zapponi l’ispirazione per la realizzazione degli omicidi è stata guidata dal concepire le maniere più dolorose per procurarsi delle ferite. Il presupposto era che il dolore dovuto ad un urto accidentale con un mobile o una scottatura da acqua bollente fosse più familiare con il pubblico rispetto al classico colpo di arma da fuoco.

    …Suspiria 2

    A causa del grande successo in Giappone di Suspiria del 1977, Profondo rosso uscì col titolo Suspiria 2, per quanto tra i due film non ci sia alcun collegamento.

    I brividi di angoscia

    In Francia il film è uscito col titolo “Les Frissons de l’angoisse”, letteralmente “I brividi d’angoscia”.

    Lo store di Profondo rosso

    In via dei Gracchi a Roma (fermata metro più vicina: Lepanto) esiste il Profondo Rosso Store, il negozio ufficiale di Dario Argento (eccolo su Google Maps). Il regista vi organizza a volte eventi in loco e incontri con i fan.

  • Abducted in Plain Sight racconta di un insospettabile vicino di casa che rapisce una ragazzina

    La vera storia della famiglia Brobergs, una famiglia dell’Idaho che per anni non si accorse di aver dato fiducia e fatto avvicinare alle figlie un insospettabile sociopatico con tendenze pedofile.

    In breve. Un documentario inquietante su una delle storie più incredibili capitate negli USA anni ’70: il duplice rapimento dell’attrice Joan Broberg Felt, all’epoca ragazzina, da parte di un insospettabile vicino di casa. La vittima viene anche intervistata assieme ai genitori, che forniscono dettagli reali (ed incredibili) sulla vicenda.

    Il peggior incubo di qualsiasi genitore è la tagline che accompagna il documentario Netflix, girato con stile vivido da true crime e tratto da fatti realmente accaduti. La storia, in effetti, ha dell’incredibile: si parla del duplice rapimento, a 12 e 14 anni, dell’attrice americana Jan Broberg Felt da parte dell’amico di famiglia Robert Berchtold, vicino di casa e membro della medesima comunità locale  della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni.

    Abducted in Plain Sight è uscito nel 2017 ed è appena arrivato su Netflix anche per l’Italia: con un titolo che evoca la exploitation anni ’70 (ed il paragone è tutt’altro che gratuito, dati gli argomenti trattati), il regista Borgman costruisce una storia dai tratti realistici ed inquietanti, con una disinvoltura considerevole nel rendere dettagli e per una storia, per quanto surreale, che sembra tratta dalle vite di chiunque. Che non implica solo abusi e rapimento di una minorenne, ma racconta soprattutto le successive conseguenze sulla vita della ragazza in seguito. In seguito al brainwash subito, Jan cresce traumatizzata ma difendendo il proprio aguzzino, arrivando a farsi rapire una seconda volta, questa volta sotto falso nome e raccontando che Berchtold fosse un agente della CIA.

    La voce proveniva da un piccolo interfono, ero legata al letto… pensavo di essere stata rapita dagli alieni.

    In effetti all’inizio non si capisce se si tratti di vere immagini di repertorio o di ricostruzioni, cosa che diventa più chiara nel seguito (in realtà è un mix delle due cose): ma poco importa, perchè l’attenzione dello spettatore è catturata, seppur con la lentezza tipica di questo genere di documentari, che hanno la tendenza ad allungare un po’ troppo le fasi del racconto, in alcuni momenti. Questo comunque aiuta a creare un effetto da mockumentary, con la differenza considerevole che la storia è reale – e soprattutto che le vere vittime vengono intervistate durante lo svolgimento della stessa. Soprattutto, se si volesse evidenziare un difetto del film, bisognerebbe notare che alcuni dettagli non sembrino troppo consequenziali, nonostante la storia sia narrata con dovizia di particolari e scatenando l’effetto traumatico di pellicole analoghe su questi argomenti, come ad esempio Mysterious Skin (in cui gli UFO sono analogamente simbolo di un trauma regresso) oppure (in tema di abusi da persone vicine a noi) Strange Circus.

    Vittime che, per inciso, non risparmiano dettagli terrificanti: gli abusi da parte del rapitore pedofilo, che per arrivare alla piccola Jan, prima ne seduce la madre e poi abusa sessualmente del padre di lei, senza che la cosa induca un minimo sospetto in seguito, almeno fino alle indagini affidate all’FBI. È anche presente più di una dichiarazione dell’ufficiale di polizia che seguì il caso, che all’epoca non aveva neanche la corretta percezione del fenomeno – perchè probabilmente, nella piccola provincia USA dell’Idaho, non era pensabile che potesse succedere un fatto del genere.

    Per ben due volte, peraltro, e passando per personaggi ambigui ed inquietanti quali finti psicologi, e ne fuoriesce un’immagine del crudele protagonista subdola, manipolatrice, perversa e attento ai minimi dettagli, oltre decisamente scaltra ed in grado, ogni volta, di farsi ridurre la pena (morì suicida per non scontare la terza condanna). In grado di architettare, fin dall’inizio, un modo pazzesco per darsi credito: far credere alla giovane vittima di essere stati rapiti dagli alieni, e di doversi unire a lui come unica possibilità per salvarsi.

    L’ingenuità della ragazzina, derivante anche dall’educazione ricevuta in famiglia e dall’ambiente di provincia, non le permise tragicamente di sospettare nulla, almeno all’epoca dei fatti, fino alla liberazione da parte della polizia messicana e dopo un secondo rapimento, questa volta degno di una spy story. Senza timore di cadere negli stereotipi, a questo punto, potremmo dire che nel caso di Rapita alla luce del sole la realtà aveva abbattuto qualsiasi imprevedibile trama da fiction.

    Un ritratto forse impietoso dell’America dell’epoca, senza dubbio, che restituisce un’immagine ingenua delle vittime che fa scalpore, probabilmente più come effetto indiretto che come autentico sensazionalismo. Sicuramente da vedere.

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