BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Henry – Pioggia di sangue: il film su un serial killer che ha fatto scuola

    Henry – Pioggia di sangue: il film su un serial killer che ha fatto scuola

    Probabilmente uno dei ritratti di serial killer più realistici mai realizzati nel cinema.

    Henry, pioggia di sangue” è un violentissimo tributo alle gesta di un efferato (ed immaginario, come specificato all’inizio) serial killer: il film è noto a molti fan di Nanni Moretti, che conoscono a menadito la sua opinione negativa a riguardo. In realtà la critica del regista italiano sembrerebbe rivolta non tanto al film, bensì alla critica sterili sullo stesso: un po’ improvvisata, un po’ vuotamente intellettualistica oltre che penosamente giustificativa (Henry descritto come il “buono”, francamente, è una favoletta per gli stessi bambini che non dovrebbero mai vedere l’opera).

    Il film, girato nel 1986 ma uscito quattro anni dopo per problemi di distribuzione, viene presentata come una sorta di mockumentary in 4:3, nel quale osserviamo, sin dall’inizio, un taglio da film quasi amatoriale: ed il distacco dal canone è evidente perchè i protagonisti (tre in tutto) sono dei normali esseri umani che potrebbero far parte delle conoscenze di chiunque. All’inizio vediamo alternarsi scene statiche in cui viene ripreso il cadavere di qualche vittima (con quasi sempre il sottofondo delle urla della stesse), ed altre – dinamiche – che mostrano Henry che finisce di mangiare, spegne una sigaretta, viaggia in auto. Intuiamo subito la sua natura omicida e perversa: Henry appare normale, gelido, ma anche dotato di un certo spessore psicologico, tanto che il suo salutare la cameriera del ristorante con la confidenza di un vecchio amico fa quasi paura di per sè.

    Conosciamo quindi la mite Becky, che ha appena divorziato dall’ex-marito ed è tornata a casa del fratello, l’apparentemente rassicurante Otis, amico dello psicopatico Henry.

    Il resto del film si sviluppa nei termini del “triangolo” di conoscenza instaurato dai tre: Henry di aver ucciso la propria madre per via dei maltrattamenti che subiva, la ragazza riconosce vari punti di contatto con la propria infanzia, visto che il padre cercava di violentarla. I presupposti per una morbosa empatia tra i due, quindi, ci sono tutti. Nel frattempo scopriamo che la natura di Otis non è certo meno crudele di quella del protagonista: impiegato ad una pompa di benzina, l’uomo si mostra cinico, approfittatore, scansafatiche e, come se non bastasse, dedito al traffico di droga. E, come se non bastasse Henry, Otis usa uccidere senza un perché, compiacendosi del gesto e quasi dimenticandosene qualche istante dopo.

    Dopo la rottura della TV di casa i due si decidono a procurarsene una low-cost, utilizzando metodi decisamente spiccioli e poco convenzionali (la famosa scena dello schermo prima sfracellato in testa della vittima, e successivamente attaccato alla presa di corrente!). Sul posto i due maniaci si procurano una telecamera con la quale filmeranno le proprie gesta, e lo spettatore le vedrà attraverso il formato – ancora più sporco dell’originale – di un vero apparecchio amatoriale. La scena conclusiva, o meglio gli ultimi 10-15 minuti del film, con un crescendo insostenibile di tensione alimentata dalla gelosia che l’incestuoso Otis nutre contro l’amico, sono momenti insani e crudeli, destinati a rimanere impressi nella memoria degli spettatori.

    Questo film contiene inoltre una trappola, un qualcosa che lo rende veramente spaventoso e meritevole a pieni titoli del “cult” che gli è stato affibiato: a parte la solida regia, l’ottima scelta dei tempi (il film dura un’ora e un quarto circa) e la caratterizzazione precisa dei personaggi, vi è uno degli inganni più subdoli visti in un film del genere. E’ scontato pensarci alla fine, ed ovviamente la cosa credo sia soggettiva, ma posso garantire che qui nulla è quello che sembra e che, in un certo senso, “più le cose cambiano più restano le stesse” (citazione carpenteriana per un film che eredita parte del feeling cinico anche da Distretto 13 – Le brigate della morte).

    In altri termini l’identificazione spontanea che il pubblico effettua con Henry – ci sono “cascato” anch’io, la prima volta che l’ho visto – sembra architettata dal regista per fare scalpore alla fine, concludendo il film nel modo meno rassicurante possibile: quindi abolizione dei finali consolatori, perchè Henry potrebbe essere in mezzo a noi.

    A confronto l’Hannibal de “Il silenzio degli innocenti” sembra una storiella senza spessore, ed è tutto un dire: il realismo di Henry rinuncia a qualsiasi pretesa di liricità della figura del killer, rappresentato in tutta sua crudele efficacia. “Henry…” è anche zeppo di macabri dettagli, di violenza inaspettata (una delle decapitazioni più crude e realistiche ma viste) e di un lugubre pessimismo di fondo: eppure i momenti in cui la coppia visiona in una stanza il violentissimo snuff sul divano, quasi come fosse la replica del loro programma preferito, o comunque l’idea stessa che i due riescano a compiere massacri senza che la sorella si accorga mai di nulla, fa sorridere anche se, a dirla tutta, si tratta di uno humor nero che non tutti potranno cogliere. Un film che, non lo nascondo, stavo per rivedere una seconda volta di fila dopo aver terminato la prima – ed è un caso davvero raro, per questo.

  • Trauma di Dario Argento parla di disturbi alimentari e shock psicologici

    Aura Petrescu, una ragazzina sofferente di anoressìa, assiste all’omicidio dei propri genitori da parte di un killer: grazie all’aiuto dell’amico David scoprirà un’imprevedibile trama ordita dall’assassino…

    In breve. Un corposo trattato di sadismo, incentrato sulla figura di un inquietante serial killer tagliatore di teste: uno dei film forse meno noti di Argento che comunque, a ben vedere, rimane nella sua filmografia come lavoro di buona qualità.

    “Con un cappio attorno al collo… non sono stata la prima vittima, e non sarò nemmeno l’ultima!”

    Prima produzione americana – e questo si riflette nelle ambientazioni e nei ruoli dei personaggi – di Dario Argento, con soggetto scritto con Ferrini e Romoli incentrato sulle vicende di una ragazzina rimasta orfana. Proprio per il ruolo di protagonista venne scelta la figlia Asia, all’epoca giovanissima e, per questa ragione, probabilmente acerba rispetto all’importanza del ruolo che rivestì. Già questo rende “Trauma“, thriller novantiano ricco di tipiche trovate “teatrali” del regista, un film vagamente ostico da guardare, senza contare la sua lunghezza atipica (circa due ore) in cui, tanto per (non) cambiare, l’assassino viene rivelato solo alla fine dopo il consueto gioco di falsi sospetti ed indiziati. Al di là di una scelta di interpreti poco esaltante e di una trama forse poco incisiva nella prima parte, quasi nulla è da buttare, tenendo conto dell’ambientazione architipica, della dinamica da thriller mainstream, di alcune citazioni di Profondo rosso, del sottotesto del film e del fatto che riguarda l’anoressia, un dramma vissuto realmente dalla sorellastra di Asia (Anna, scomparsa nel 1994). Quantomeno potremmo affermare che questo lavoro è l’ennesima dimostrazione di come l’horror sappia essere, in opportune condizioni, un genere più maturo e profondo di quanto troppe persone vogliano farci credere. L’argomento cardine di Trauma, al di là delle micro-storie che contiene, riguarda un’imprevedibile vendetta dovuta ad uno spaventoso trauma – per l’appunto – vissuto dal killer, proprio come avveniva nel succitato capolavoro del regista.

    Trauma è un buon thriller, ben ritmato ed a forti tinte horror, che mostra il “tocco” dell’Argento più sanguinario e viscerale, a cominciare dalla scena di decapitazione presentata all’inizio (mediante un laccio metallico motorizzato), che poi rappresenterà – piuttosto atipicamente per il regista romano – l’arma del delitto prefissata. Un villain che, in questo contesto, si muove di soppiatto e quasi sempre in soggettiva, restando nascosto con cura fino all’imprevedibile finale, giusto il tempo necessario perchè Aura possa ricordare ciò che la sua psiche ha rimosso (la faccia del maniaco, per l’appunto). Contemporaneamente, pero’, i toni appaiono smorzati rispetto al mai troppo celebrato passato del regista, il quale preferisce abbandonarsi a suggestioni da tipico film made in USA che ai consueti “tocchi di classe” che lo caratterizzarono all’epoca: a vederlo oggi, a conti fatti, avercene film “commerciali” così.

  • The Vault: un po’ caper movie, un po’ horror, un po’ action, un po’ non ne abbiamo idea

    Un gruppo di rapinatori architetta un piano ingegnoso per rapinare una banca; ma qualcosa va storto…

    In breve. Horror anomalo per come parte (una rapina in banca in pieno stile action-thriller), un po’ meno per come evolve (carnefici che diventano vittime); timido e probabilmente poco incisivo nella sua evoluzione e risoluzione.

    The Vault è un discreto caper movie (i film di genere incentrati su una rapina o un colpo grosso: pensiamo ad esempio a La stangata, Le iene o Giungla d’asfalto) contaminato da dinamiche da horror sovrannaturale ed in parte exploitation. Se i presupposti sembrerebbero anche interessanti, il film si diluisce in un eccessivo prolugamento della storia, e in una narrazione che finisce per essere scontata ed alquanto prevedibile.

    Io sono un ostaggio come te…

    Assecondando le regole dell’exploitation, almeno alcune di esse (dalla maschera bianca e inespressiva, alla Michael Myers, del rapinatore fino al totale capovolgimento di fronte in una situazione claustrofobica), Bush dirige in modo interessante e su toni prevalentemente scuri, presentando il caveau (The Vault, per l’appunto) di una banca quale custode di segreti oscuri e fuori da questo mondo.

    Se molti degli spettatori capiranno quasi subito, durante il film, quale sia il segreto (che nel frattempo rischierà di diventare un segreto di Pulcinella) il film risulterà accattavante per certi versi (la polizia che scopre della rapina, quando non dovrebbe saperne nulla) e un po’ più fiacco per altri (le presenze misteriose nel sotterraneo, in bilico tra realtà vendicative e fantasmi da psichiatria). Trovare una spiegazione di The Vault è impresa difficile (il passato ritorna, probabilmente, ma non si capisce bene in che modo lo faccia), peraltro, proprio per via di come sono presentati gli eventi e di qualche buco narrativo che si ricompone nel finale, ma non sorprende neanche troppo.

    La contaminazione tra due generi era inedita e certamente lodevole come idea, ed è difficile anche individuare precisamente cosa non funzioni nel film, visto che difetti o errori veri e propri non se ne ritrovano. Tuttavia vediamo fantasmi apparire e ricomparire dal nulla, senza chiarificare neanche le identità dei singoli (tutti gli spettri o presenze, peraltro, sono messi indistintamente dalla parte dei “cattivi” – in una caratterizzazione che risulta, a ben vedere, piuttosto semplicistica).

    Se ci mettiamo una narrazione per certi versi confusa e difficile da assimilare per lo spettatore, nonostante alcuni intensi momenti di splatter, ne esce fuori un film che non convince appieno: il che rivelerebbe proprio in sede di intreccio il suo principale e programmatico difetto.

  • Il giorno del venerdì santo: una delle migliori interpretazioni di Bob Hoskins

    Harold Shand è il potentissimo boss della criminalità londinese, le cui attività illecite (tra cui la costruzione della sede dei Giochi Olimpici a London Docklands) vengono seriamente messe in pericolo da una catena di attentati ed omicidi effettuati da ignoti…

    In breve. Un capolavoro del gangster-thriller ottantiano, condotto dal centralissimo personaggio di Harold Shand, ex gangster ed uomo d’affari privo di scrupoli, che si muove nella metropoli londinese tra autorità corrotte, le attività ostili dell’IRA, l’entrata del Regno Unito nella Comunità Europea ed il governo liberale della Thatcher.

    Noto in Italia con svariati titoli (Quel lungo venerdì santo, Quel venerdì maledetto o Il giorno del venerdì santo, secondo IMDB), The long good friday si perde in atmosfere puramente metropolitane, pub fumosi, party esclusivi, strade affollate e misteriosi scambi di merce. La performance di Bob Hoskins è uno dei principali meriti di questo film, ruolo studiatissimo dall’attore per cui, a quanto pare, volle parlare direttamente con autentici ganster londinesi (che a quanto pare presenziarono alla prima del film). Harold è il prototipo dell’affarista privo di scrupoli, ancora ligio alla mentalità criminosa che l’ha portato al successo e travolto progressivamente da una realtà più grande di quanto non si potesse aspettare, a dimostrazione di una perenne ed iconica vulnerabilità. C’è poco da discutere, quindi, sul fatto che The long good friday sia uno degli migliori film di genere anni ’80, in realtà al limite di una autentica autorialità. Chi ha un conto in sospeso con Harold Shand? La chiave di lettura del film è questa, e lo spettatore è guidato sapientemente attraverso la soluzione di questo enigma da una regia sempre avveduta e di grande eleganza.

    Dopo un crescendo di avvenimenti incalzanti (e qualche lungaggine narrativa, perdonabile data l’ampiezza del contesto) emerge un ritratto da manuale di ciò che non doveva essere troppo diversa dalla Londra anni ’80; il finale, poi, tra i migliori mai visti su uno schermo per il genere, assesta il colpo di grazia in termini di bellezza. Il protagonista paga la propria eccessiva fiducia in sè, trovandosi in una situazione decisamente inaspettata in cui notevolissima, in questi termini, è il lavoro sull’espressività del personaggio, in grado di comunicare stati d’animo contrastanti di tristezza, rabbia, frustrazione e rassegnazione senza dire una sola parola (al momento delle riprese gli venne richiesto di mantenere l’espressione per ben cinque minuti, senza pause). Il suo ghigno tra il sarcastico, il rassegnato ed il rabbioso è diventato iconico, ed entrato nel cinema di ogni tempo.

  • Io sono l’abisso è il thriller socio-psicologico di Carrisi

    Tratto dal romanzo omonimo, il nuovo film di Donato Carrisi è appena uscito nei cinema e si incentra su un mix narrativo singolare: la topica storia di un serial killer e un thriller sociologico, focalizzato sui mali innati del mondo. Che il killer potesse diventare un elemento di liberazione (almeno parziale) era, se vogliamo, prevedibile e a pieno focus. Io sono l’abisso risulta, fin dalle premesse, un thriller italiano fuori canone, o meglio: il suo essere fuori dalle righe si colloca in un contesto alienante quanto umanizzato, con cui sarà facile empatizzare – e di cui vale la pena raccontare la genesi.

    Per consentire una promozione del film in modo adeguatamente misterico, infatti, regia e produzione non hanno divulgato i nomi degli attori, che compaiono in forma sostanzialmente anonima all’interno del film, e non vengono nemmeno citati come nomi propri dei rispettivi personaggi. Su IMDB, per intenderci, sono presenti i nomi degli interpreti come lista, ma manca l’associazione con ogni rispettivo personaggio. Il film si popola pertanto di figure archetipiche, come “la madre” o “l’uomo che pulisce”, personaggi principali della storia legati a doppio filo ad una realtà come quella di Como, nei pressi del cui lago è ambientata la storia.

    La buona società (non esiste)

    La realtà cittadina è fiorente e ricca di benestanti, segretamente perversa e a doppia faccia: un qualcosa di non troppo diverso dal contesto di Society di Brian Yuzna, dove le mostruosità organiche assortite sono state rimpiazzate da un orrore interiore, sottinteso, insondabile. Una società benestante ipnotizzata dal benessere, che non bada o minimizza il degrado attorno a sè, i congiunti in difficoltà, i drammi esistenziali che fanno continuo riferimento all’ombra della morte. Nell’ombra della rispettabilità (sul fronte sociologico) si muovono drammi morali, depressione, angoscia e sfruttamento della prostituzione; sul piano del killer, è un uomo insospettabile dedito a lavori umili, prigioniero di un’infanzia infelice e deprimente.

    Non ci sono dubbi che un prodotto del genere sia unico nel suo genere, pertanto, per quanto la sua visione paghi dazio in una lunghezza vagamente eccessiva (circa due ore di film, dai toni quasi d’essai, ricchi di sottintesi e allusioni). I primi minuti di “Io sono l’abisso” rimangono particolarmente incisivi e sconvolgenti: assistiamo ad una storia apparentemente anonima, con soli suoni naturali, senza colonna sonora e quasi senza dialoghi, e quasi non riusciamo a cogliere l’intreccio. In seguito ci troviamo nel pieno svolgimento della vicenda: un addetto della nettezza urbana che salva una ragazzina dal suicidio. Dopo averla fatta rinvenire, pero’, si fa prendere dal panico e scappa: scopriamo che si tratta di un serial killer (nell’introduzione ci suggeriscono come possano esistere anche in Italia e come, soprattutto, sia plausibile che non vengano mai scoperti), affetto da un singolare feticismo per la raccolta e la catalogazione dei rifiuti, i quali – a suo dire – dicono più sulle persone di quanto possa sembrare. Il killer anonimo del film è un bambino mai cresciuto che vorrebbe saperne di più sul mondo, o che cerca un contatto umano in modo disperato e degenerato.

    Sarebbe un errore relegare Io sono l’abisso all’universo classico dei killer narcistici e spietati come Henry o American Psycho. Come ha dichiarato Carrisi, c’è qualcosa in più: “non ci rendiamo conto di quanto raccontino di noi le cose che buttiamo via“. Certo è vero che internet può fornire le stesse informazioni su chiunque o quasi, ma ciò di cui tendiamo a disfarci sottolinea spesso sottotesti inconsci, sepolti dentro di noi, di cui abbiamo paura ed urgenza di doverci liberare (scatole di medicine, materiale compromettente, pacchi di fiammiferi brandizzati su nomi di locali a cui non vorremmo mai essere associati in pubblico). E potrebbe anche essere lecito, a nostro avviso, interpretare tali presupposti in chiave o come epitema ambientalista, per quanto l’autentica chiave di lettura sia quella esistenzialista ed abbia, almeno nei presupposti, qualcosa a che vedere con la doppia vita mostrata anche in Tulpa.

    Tutto o quasi ne “Io sono l’abisso” sembra sudicio, oscuro, poco illuminato, decadente; i personaggi sembrano afflitti, tormentati quanto vividi, consumati dall’esistenza (l’attore protagonista ha vissuto in maniera isolata dal cast durante tutte le riprese, per entrare meglio nel ruolo), vittime di scheletri nell’armadio che non vogliono nè pensano possano mai riemergere. Ma quanto è vero che le emozioni inespresse non moriranno mai e, come aveva scritto Freud, restano sepolte vive ed emergeranno in modo peggiore nel seguito, questo concetto si realizzerà a pieno all’interno della storia, creando almeno un paio di twist clamorosi.

    Traumi infantili, rabbia repressa, adolescenti soli e inascoltati, situazioni imprevedibili quanto credibili (rileviamo una sottostoria di baby prostituzione e revenge porn, entrambe tutt’altro che irrealistiche), si affiancano alla classica narrazione criminologica del serial killer “uno di noi”, nascosto nel buio, impetuoso nel proprio uccidere, alimentato da un male superiore che lo ha soggiogato da piccolo. Io sono l’abisso è anche – e forse soprattutto – un thriller psicologico par excellence, dove – per quanto manchi lo splatter ed il canonico finale nichilista – assistiamo ad una serie di triangolazioni tra personaggi sempre degne di nota, intricatissime e mai banali. Il vissuto e il tormento anteriore dei personaggi sono sempre pronti a riemergere, anche quando meno ce l’aspettiamo, un po’ come il lago di Como che restituisce pezzi dei cadaveri di vittime diverse. Motivo per cui sarebbe forse più corretto parlare di thriller drammatico, di thriller filosofico-esistenziale (in fondo non fa altro se non indagare sulle origini del male), o meglio ancora sganciarsi dalle etichette, godersi l’opera per quella che è, preparandosi a vedere una piccola gemma di forma e sostanza.

    Molto interessante, tra le altre cose, la trovata per cui il killer è “guidato” da una voce distorta fuori campo, che sembra raffigurare il Super-Io a cui è costretto a fare riferimento, da cui viene manipolato esattamente come il ragazzino fragile che era stato anni prima (quasi morto annegato, come si vede all’inizio). La figura della madre (l’altra madre, quella che vaga nel film senza che sappiamo nulla di lei) è altrettanto emblematica: etichettata semplicisticamente come una pazza, indaga su casi di violenza sulle donne, spinta da un’esperienza traumatica che ha vissuto e di cui non sappiamo nulla, almeno fino alla fine. Il suo inconscio appare dominato da un profondo senso di giustizia, ma anche dalla paura di aver sbagliato tutto nella vita, tanto più quando si scoprirà quel qualcosa del suo passato che la turba.

    Il film in definitiva convince soprattutto per questo sapiente mood noir, accennato e mai didascalico, con moltissime scene girate volutamente al buio per accentuare il senso di degrado e di orrore, non solo psicologico ma anche fisico, sociale, economico. Convincono un po’ meno, forse, certi lunghi silenzi che accompagnano la storia, che caratterizzano un film dall’andamento lento e inesorabile, forse non proprio adeguato ai gusti della maggioranza ma pur sempre a testimoniare (comunque la si pensi) un carattere fortemente introspettivo della storia e una personalità registica che, senza dubbio, non manca.

    SPIEGAZIONI TRAMA E FINALE

    DA QUI IN POI POTENZIALI SPOILER!

    Chi è la voce fuori campo che guida il killer?

    La voce distorta che tortura e istiga il killer non è un personaggio reale: è plausibilmente il riflesso, come si certifica alla fine, dell’educazione che ha ricevuto: in effetti gli dice cosa fare, come comportarsi, come punirsi. Ogni sequenza in merito è costruita in modo estremamente raffinato, dato che sembrerebbe la raffiguazione del padre (o meglio, di uno dei tanti amanti della madre), lo stesso che vestiva anni 80 e che il protagonista, oggi, cerca di emulare (la lettura in chiave freudiana è quasi ovvia), rievocandolo, impersonificandolo, truccandosi come lui (la parrucca) e andando in un night in cerca di nuove vittime (che probabilmente raffigurano una figura femminile su cui l’uomo vuole avere una rivalsa irrealizzabile).

    In realtà, anche sulla falsariga di film come Sleepaway Camp, la voce del Super Io (che lo comanda con violenza e che non può non ascoltare, se non a costo di paura e sofferenza) è in realtà una donna, una neo-Medea: era la madre che lo stava per lasciare annegare nella piscina durante la prima sequenza.

    Perchè la ragazzina prova a suicidarsi?

    Le ragioni sono legate al possesso di foto intime risalenti ad sua vecchia relazione con il ragazzo dispotivo e autoritario che incontra alla festa (e che si lamenta che lei non risponda al cellulare): la sua volontà di andare alla festa è necessaria per parlare con l’ex, al fine di intimargli di cancellarle per sempre. Il ragazzo, insospettabile cinico al di là di ogni parvenza, usa quelle foto per ricattarla e la costringe per questo a prostituirsi. Il tentato suicidio è pertanto frutto della disperazione per questa situazione.

    Perchè il killer salva la ragazzina?

    Probabilmente lo fa perchè si identifica in lei, e per via dell’evidente similarità con la sua stessa storia: entrambi infatti hanno rischiato di morire annegati. Il panico ha la meglio per paura che qualcuno scopra la sua identità di assassino, per cui scappa per questo motivo.

    Cosa è successo nel passato della cacciatrice di mosche?

    La cacciatrice di mosche è uno dei migliori personaggi del film: donna sola, trasandata e senza apparenti motivazioni per vivere, ha fatto della difesa delle donne una ragione di esistenza. Il trauma che ha vissuto in passato è avvenuto in ospedale anni prima, come si scoprirà: viene chiamata assieme al marito perchè il figlio ha accoltellato la fidanzata, che era forse incinta di lui.

    Ecco il motivo per cui la donna va a trovare il figlio in carcere: il ragazzo è stato condannato per l’aggressione, cosa resa ancora più gravosa per la madre dato che si tratta, anche qui quasi certamente, di una ex carabiniera (lo si può capire dalla familiarità con cui tratta con la donna che poi, nella sequenza finale, ucciderà il killer). La storia dell’omicidio viene ribadita durante quella visita in carcere: lui la invita a casa, vorrebbe andarci a letto, la ragazza rifiuta, poi ammette di stare con un altro ragazzo, il ragazzo prende un coltello in cucina e la ferisce.

    Chi è Diego?

    Probabilmente Diego è il futuro nipotino della cacciatrice, nato dalla relazione (ormai finita) tra suo figlio (in carcere) e la ex fidanzata, mai inquadrata. Il finale di “io sono l’abisso” non è troppo immediato nel suo apparato presentativo, in questa specifica sede, dato che viene innestato en passant e non si lega esplicitamente con la storia che, invece, sembrava conclusa (il killer si incontra con la ragazzina, e in quel momento viene ucciso).

    Diego è il nome del bambino che risulta essere appena nato, mentre la mamma (non inquadrata) viene interrogata dalla polizia: non è difficile intuire che si tratta della donna pugnalata, ovvero la ex del figlio della cacciatrice di mosche, evidentemente non morta. In sostanza la storia suggerisce che nonostante la tragedia familiare in corso, che ha traumatizzato la cacciatrice ed il marito, affetti entrambi da depressione e dipendenti dall’alcol, alla fine madre e figlio si siano comunque salvati.

Exit mobile version