Un gruppo di millenials in esplosione ormonale decide di andare in vacanza a Crystal Lake: appassionati di alcool, marijuana, tecnologie – e senza alcuna conoscenza del genere horror anni ’80.
In breve. Un horror sintetico, intenso e sostanzialmente efficace, al netto di qualche dettaglio evitabile e di dialoghi un po’ naive. Ma in fondo ciò che conta è che Jason sia tornato sullo schermo, per l’ennesima volta.
In generale i reboot horror non piacciono agli hardcore fan, tra i quali mi annovero senza esitazione: in questo caso, pero’, ho voluto dare una possibilità a questo remake, che è (come tradizione vuole) un reboot liberamente tratto dal capolavoro slasher Venerdì 13. E devo riconoscere che il mio giudizio non è negativo come i primi minuti del film mi avevano fatto temere.
Pur trattandosi, infatti, di un reboot tratto da un film a basso costo (per quanto, è bene ricordarlo, il vero padre del genere sia riconducibile a Reazione a catena di Mario Bava), il film ha degli aspetti positivi. Il ritmo è quello dell’horror americano moderno, senza dubbio, e ne risente in qualche soluzione narrativa tipicamente del posto. Ad esempio il fatto che i protagonisti siano tutti massimamente fighi, per non parlare delle protagoniste – che più sono belle, peggiore sarà la fine che faranno -e addirittura l’attore che interpreta Jason (l’attore e stuntman Derek Mears) è considerato tale, tanto che i registi ebbero più di un dubbio prima di fargli interpretare quella parte.
C’è anche da sottolineare il rispetto della regoletta non scritta che il Cattivo, alla fine, subirà la stessa punizione che avrebbe voluto infliggere al Buono: una legge implicita del contrappasso che anche Wes Craven, ad esempio, ha voluto rispettare nel suo celebre Il serpente e l’arcobaleno. Senza contare che, alla faccia dell’artigianalità ben nota dei film originali, le scene con armi in questa sede sono state realizzate esclusivamente in CGI, proprio per via dell’elevato rischio che avrebbe comportato girare dal vivo alcune sequenze.
Gli omicidi di Jason, che sono al centro di una trama che racconta la ricerca della protagonista (rapita perchè somigliante alla madre di Jason) da parte del fratello, avvengano inizialmente al buio – senza alcun dettaglio e sfruttando brevi attimi che sono spruzzate di adrenalina senza un corrispondente visivo – il film decolla nel seguito, e lo fa in modo originale e senza tentare di rifare vanamente l’originale saga. Anzi, lo fa prendendone i migliori spunti e riassemblandoli tra loro.
Venerdì 13 diventa così nuova versione un reboot dignitoso, piuttosto fedele all’originale per quanto, ovviamente, diverso dallo stesso. Si tratta ovviamente di un libero riadattamente (cioè un remake con qualche libertà di script di troppo, prodotto dal regista del primo episodio) tratto dall’originale di Cunnigham del 1980, per la verità un po’ da tutta la saga, e rielaborato secondo standard più moderni. A cominciare dal prologo, che dura ben 25 minuti prima che si veda effettivamente il titolo del film: insomma, una specie di riassunto piuttosto efficace di quella che è stata la saga di Venerdì 13 fino ad oggi, e che crea facilmente i presupposti per il resto del film anche per il pubblico che non dovesse saperne nulla.
Un film dal budget di 42 milioni di dollari, in grado di innestare una nuova storia nel mito horror di Jason e, al netto di qualche idea “telefonata” e prevedibile, innesta un’interessante trovata narrativa: i gruppi di giovincelli in vacanza sono due, il che sdoppia la narrazione pur a costo di renderla leggermente meno claustrofobica, forse. E soprattutto, si gira rispettando i dettami del brand anni ’80: la maschera da hockey, la devozione di Jason per la madre, l’acqua del lago come elemento magico e sinistro (cosa resa lampante dall’incisivo finale, che cita spudoratamente il primo episodio della saga). Una sorta di sintesi di tutti gli episodi precedenti, insomma, che rappresenta un’operazione alquanto simile, mutatis mutandis, a quella già fatta da Alvarez per il remake de La casa (uscito quattro anni dopo), che ha rifatto il classico di Raimi in modo personale e senza azzardi.
IMDB si è anche preso la briga di effettuare il body count delle vittime complessive di Jason, che ammonta a 167 persone incluso questo film, mentre il produttore Michael Bay pare sia andato via durante la premiere esclusiva di presentazione del film, infastidito, a suo dire, dal troppo sesso presente nella pellicola. Sesso che, per inciso, è da sempre una componente della saga (ed in questa sede svetta la scena hot con Julianna Guill, peraltro tagliata in alcune versioni, quanto presente in quella su Netflix ed addirittura su Youporn): Jason sembra punire le coppie goderecce – un po’ come il “parente” Michael Myers – con la differenza che la parte erotica non è accessoria come nei casi ottantiani: Nispel insiste su scene prolungate, corpi muscolosi e fitness, rendendo la visione esplicita quanto, al netto del contesto, tutt’altro che fuori luogo.
Questo nuovo Jason è un vero e proprio cacciatore che ha delimitato il proprio territorio, che cattura le prede che abbiano osato invaderne il territorio con ogni mezzo: frecce, coltelli, asce e naturalmente il machete che lo ho collocato nell’immaginario horror anni ’80 assieme alla maschera da hockey. Insomma, gli assassini restano brutali, ma sembrano meno casuali di quanto potessero sembrare negli anni ’80. Come vi è venuto in mente di andare in vacanza a Crystal Lake?
Queste le intenzioni di Damian Shannon, autore dello script: rende Jason una sorta di Rambo versione horror, senza rinunciare a mostrare alcuni aspetti della sua personalità – cosa che, per inciso, era stata fatta splendidamente anche nel Leatherface di Bustillo-Maury per il personaggio protagonista. Caratteristiche che, del resto, non sono troppo tipiche del cinema americano, che non sempre insiste sul lato psicologico dei personaggi e, nel dubbio, preferisce concentrarsi su quello puramente visivo (violenza, sesso, splatter e azione sono equamente spartite all’interno del film). Il tutto, poi sfruttando alcuni espedienti e “trappole” concordate tra Shannon ed il regista, come le piante di mariujana lasciate crescere nel bosco per fare da esca alle nuove vittime.
L’atteggiamento dei protagonisti, del resto, risente di dialoghi non proprio al top, a partire dalle azioni intraprese (esplorare case abbandonate di notte senza motivo, ad esempio) ed osservazioni banalotte annesse alle situazioni (“questa casa deve essere vecchissima” è quella che mi è rimasta più impressa, in negativo): come da copione, si attende solo l’arrivo di Jason, che prima arriva e meglio è, in questi casi. Nonostante tutto, poi, ed al netto di un’overdose di fuck, shit, man, fuck you, hell tipico dei dettami da horror USA, bisogna riconoscere che il film funziona, ed omaggia in modo adeguato la saga originale di Jason. Al netto di un seguito ulteriore, annunciato inizialmente, ma poi ufficialmente smentito dal produttore Brad Fuller.
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