Salvatore

  • Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

    Razzismo, horror e tema del doppio: “Noi – Us” (J. Peele, 2019)

    La vacanza di una famiglia americana viene bruscamente interrotta dalla presenza di alcuni estranei: sembrerebbe la più classica home invasion, ma si tratta di veri e propri “gemelli cattivi“.

    In breve. Horror diretto e coinvolgente, privo degli eccessi che – in questi casi – li caratterizzano, interpretato e diretto con grande stile. Alla base del soggetto varie suggestioni tratte dal meglio del genere horror e slasher.

    Scritto e diretto da Jordan Peele (noto per l’esordio Scappa – Get Out, un horror satirico ispirato al primo Romero), Noi è un film dalle svariate suggestioni, dotato anche di una buona dose di equilibrio: a differenza della media dei casi, infatti, riesce a bilanciare diverse componenti, senza mai appesantire la visione. Si prende spunto dagli stereotipi classici da thriller/horror, che poi vengono declinate con modalità slasher (o multi-slasher, dato che ogni personaggio ha il proprio antagonista). Tanto che, prima di iniziare le riprese, Peele distribuì una lista di undici horror al cast, in modo da disporre di un linguaggio condiviso ed una serie di punti comuni di riferimento. Un focus che nel film si evidenzia con una certa lucidità, e che attraversa Gli uccelli, Lo squalo, Shining, Babadook, passando per It Follows, Martyrs, Il sesto senso, Lasciami entrare e così via.

    Il film è, come nella tradizione carpenteriana, ripreso da continui ed insistenti simbolismi, spesso di natura biblica (Geremia 11:11: Perciò, così parla il SIGNORE: “Ecco, io faccio venir su di loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”) ma anche spudoratamente cinefila: Jason, ad esempio, è uno dei giovani protagonisti ed è un chiaro riferimento al cult Venerdì 13 (molte scene sono girate su un lago), e anche la continua comparsa della t-shirt di Thriller di Michael Jackson sembra avere più di una motivazione simbolica.

    Se all’inizio Noi non evoca suggestioni coinvolgenti – e anzi rischia di sembrare stereotipato o “già visto” – basta attendere i primi twist della pellicola per cambiare radicalmente idea: l’horror di Peele non solo è ben realizzato, ma è anche caratterizzato da una gradevole venatura di humour nero (il regista è anche un comico ed un produttore, per inciso, e la sequenza dell’aggressione a due personaggi con dispositivo simil-Alexa a supporto è, in ogni senso, magistrale). Il sarcasmo, del resto, aiuta a superare un problema (o almeno, ciò che potrebbe rivelarsi tale per alcuni spettatori) che affligge questo sottogenere fin dalle prime uscite, ovvero l’abuso del senso di sospensione (il piano sequenza disperato, drammatico e interminabile in Funny Games) e la facile degenerazione in sequenze inutilmente exploitation o torture porn (una tentazione a cui pochi registi, trattando questo genere, hanno saputo resistere). Peele fa la differenza: non solo ribalta l’assunto narrativo, mostrando dei protagonisti afro-americani e relegando agli attori bianchi un ruolo secondario, ma riesce a bilanciare ogni componente dell’intreccio, senza abusare del comico (il che avrebbe reso ridicolo o poco credibile il risultato) nè eccedere nella violenza (che in Us ovviamente c’è, ma è sempre funzionale alla storia).

    Dopo averci suggestionato con una sequenza chiave, quasi onirica –  che sembra citare Il tunnel dell’orrore, siamo proiettati in una dimensione nuova: una famigliola in vacanza in preda ai consueti alti e bassi (Adelaide, la madre, è la ragazzina dell’episodio visto all’inizio, ed è tormentata da un trauma infantile: si era persa in un labirinto di specchi deformanti, ha smesso di parlare ed è convinta di aver incontrario una propria gemella). Il tormento viene brutalmente interrotto da un problema nuovo: quattro estranei, sinistri e perfettamente immobili, si sono posizionati di notte all’esterno della loro casa, minacciando di entrarvi. Qui il riferimento più evidente sembra essere a film come You’re the next, ma bisognerebbe citare, come minimo, anche l’attitudine dei ragazzi di Funny Games. L’atmosfera diventa più rarefatta e sinistra, l’aggressività degli estranei sembra poco giustificabile ma, soprattutto, notiamo una particolare ritualità nei loro gesti. Proprio in questa teatralità mimica, in effetti, che caratterizzerà i villain con una particolarissima forma di coreografia, risiede uno dei punti di forza del film di Peele, unita alla particolare forma di disfonia di cui soffre il “doppio” del personaggio interpretato da Lupita Nyong.

    Una famiglia contro i rispettivi “gemelli cattivi”: un’idea semplice, funzionale quanto originale nelle conseguenze. Se l’impianto generale potrebbe essere tratto da un episodio de Ai confini della realtà (e in effetti esiste un episodio di una serie di fantascienza anni ’60, Lost in Space, dal nome The anti matter man, il quale racconta del viaggio dei due protagonisti in un mondo parallelo, in cui dovranno fronteggiare i rispettivi doppelgänger), concettualmente Peele si ispira anche all’horror alla Romero, in un modo che diventerà particolarmente evidente nella seconda metà del film. E se la sua conoscenza del genere (e relativa attitudine) è autentica, originale e più che degna di nota, bisognerebbe citare almeno un ulteriore film che potrebbe averlo ispirato, ovvero il cult Doppia immagine nello spazio – Doppelganger.

    Se il film riprende e rielabora i più classici stereotipi del genere, quindi, va anche specificato che lo svolgimento della trama si basa anche sul mito della caverna, di cui scrisse Platone nell’opera filosofica La repubblica. Insomma quello di Peele è un horror autoriale, compatto e credibile, sostanzialmente privo di difetti e con tanto di doppio finale: una piccola perla di cui il genere, ad oggi, sembra avere un bisogno vitale.

  • The Green Inferno: l’horror più politico di Eli Roth

    The Green Inferno: l’horror più politico di Eli Roth

    Un gruppo di attivisti parte per il Perù, al fine di fermare le ruspe di una società che vuole radere al suolo parte della foresta e proteggere la tribù del posto: l’azione sembra riuscire, ma l’imprevisto è in agguato…

    In breve. Horror ispirato e di buona fattura. Da Eli Roth normalmente escono fuori film che si apprezzano di più se si conoscono le fonti di ispirazione classiche: diversamente, passa un’idea di “cosa” poco conto, ed in questo particolare contesto, dato il richiamo ad un sottogenere come quello cannibalico, non può che essere così. The Green Inferno merita appieno la visione, e non è banale nel suo concepimento nonostante qualche apparenza contraria, e soprattutto per il finale.

    The Green Inferno di Eli Roth ha segnato il ritorno al cinema del regista americano, noto ai più per il primo Hostel (2005), un fake trailer di Grindhouse (2007) ed il meno noto (ma non trascurabile) Cabin Fever (2002). The Green Inferno è uscito nelle sale due anni dopo la sua uscita, per inciso, per via di vari problemi distribuitivi.

    The Green Inferno è un horror, più precisamente appartiene ad un sottogenere molto ben delineato negli anni ’70: la tradizione cannibal (Deodato ne fu un po’ il padre fondatore), e Roth modernizza e rielabora quegli stessi canoni, sia a livello narrativo che concettuale, al netto di qualche “licenza poetica” niente male. Di fatto, la violenza dei cannibal è vivida, realistica, fuori norma rispetto a quello che si vede anche nell’horror più truce e scorretto: in certi momenti, qui, sembra di assistere ad un documentario in HD per quanto è esplicito, per quanto manchino gli eccessi snuff (sugli animali) che hanno reso celebre, nel bene o nel male, altre pellicole del genere in passato.

    Nonostante questi presupposti inquietanti, The Green Inferno riesce a non essere troppo pesante, tantomeno fuori luogo (il rischio era altissimo, data la particolare venatura del sottogenere di riferimento) o privo di ritmo (come a volte accadeva anche nei cult del passato). Lo sbadiglio è prevenuto dal nuovo, onnipresente, colpo di scena, e questo è già importante di suo. Roth non delude, Lorenza Izzo (Justine) fornisce una buona interpretazione, c’è in generale un’accattivante (per quanto vagamente stereotipata) caratterizzazione dei personaggi. Non manca un certo tocco grottesco (che molti hanno frainteso come trash) che caratterizza tutta la filmografia del regista di Hostel. Intuizione molto attuale, ed in linea con l’oggi, peraltro, il riferimento drammatico alla pratica dell’infibulazione, e la presenza di una vegana dichiarata tra gli attivisti, il che creerà un bel po’ di “dilemmi morali” (dato che si parla di cannibalismo).

    Roth sembra avere le idee chiare sul tipo di film da girare, mostrando di conoscerne appieno i canoni; parte da Cannibal Holocaust (1980) e lo ristruttura con elementi politici (la critica alla politica militante in certe accezioni è sostanziale), ambientandolo ai giorni d’oggi e inserendo idee fresche e innovative.

    Per farlo, ha avuto bisogno di recarsi nella foresta amazzonica, e non solo: per risolvere il problema di far recitare degli indigeni che non avevano idea di cosa volesse dire farlo – e prima che venga un colpo a qualcuno, è bene specificare che non esiste alcuna tribù cannibale da quelle parti – gli ha proposto (suggerisce IMDB) la visione proprio della celebre pellicola di Deodato, in modo che avessero idea di che cosa avrebbero dovuto fare. Un modo originale che è risultato tremendamente efficace, soprattutto per i due “capi” (l’indigeno truccato della copertina, e naturalmente l’inquietante sciamana), mentre in più occasioni l’orda cannibale sembra evocare quella dei feroci non-morti di Romero e compagnia (vi risparmio i parallelismi ovvi del caso). Tra l’altro, un curioso aneddoto racconta della tribù che vive realmente da quelle parti, la quale a fine riprese avrebbe offerto un bambino di due anni come “regalo d’addio” alla troupe, se servisse dirlo, non accettato.

    Del resto – e questo è sfuggito clamorosamente, secondo me, a molti recensori – Roth non vuole osannare banalmente la tribù come espressione del “buono” e l’uomo occidentale come “cattivo”: anzi, si guarda bene dal farlo. Forse sarebbe bene liberarsi delle contrapposizioni da social network, o da analoghe polarizzazioni, perchè The Green Inferno è ricco di sfumature non scontate e poco marketizzabili. Mescola le carte proprio per togliere qualsiasi punto di riferimento, al fine di esprimere la medesima disillusione che guidò Deodato nel suo film misto 16/32 mm, circa 35 anni fa. Al posto dei giornalisti a caccia di scoop facili, stavolta, c’è la pluri-osannata informazione del “popolo del web”, il citizien journalism (forse più in voga negli USA che da noi), il totem del pensiero progressista; ma anche strumento improprio, il web, con cui si diffondono messe in scena e bufale da parte di personaggi senza scrupoli.

    Gli attivisti che usano cellulari connessi ad internet come “armi”, suggerisce il regista (che ha anche scritto il soggetto), finiscono per specchiare tristemente una propria auto-referenziale vanità, con la quale si limitano a lavarsi la coscienza mediante slogan politici o indossando magliette del proprio guru. Il ritratto degli attivisti, volutamente imbarazzante per certi versi, serve a mostrare allo spettatore da dove arrivino le vittime, al fine di massimizzare il contrasto con la seconda parte del film.

    Da un alto, quindi, abbiamo degli attivisti intenzionati a fermare la devastazione delle ruspe, animati da ottime intenzioni (che saranno in massima parte deluse): dall’altro i cannibali, che mostrano poca o nessuna comprensione per i propri “liberatori” i quali, a quel punto, non avranno modo di far capire la propria buonafede. Eli Roth ci tiene a mostrare le massime efferatezze, lo fa con lo stile e la credibilità visiva che conosciamo, e realizza essenzialmente un film molto politico (alla Romero o Carpenter, per intenderci), più politico anche di Cannibal Holocaust (che certo non scherzava, per l’epoca), in cui – mutatis mutandis  – ne fuoriescono disillusione e nichilismo.

    Gli indigeni, ripresi per la prima volta in una pellicola, ben figurano in un film del genere, ed in numerose sequenze sono suggestivi e spaventosi come poche volte (o da troppo tempo) si era visto al cinema. Molte sequenze sembrano prese pari-pari da Cannibal Ferox e dal pluri-citato Cannibal Holocaust, addirittura la fisionomia e le azioni di certi attori evocano quelle dei precedenti interpreti e situazioni.

    Si vorrebbe quindi far passare una certa critica ai movimenti no global, accusati di scarsa efficacia, di fare politica solo per capriccio o senso di colpa, e di accettare un idealismo cieco, quando non del tutto opportunista (le figure dell’indecisa Justine e dell’ambiguo Alejandro, paragonabile all’idolatrato Cuervo Jones di Fuga da Los Angeles, la dicono lunga in merito). Le medesime figure di attivisti, il cui “capo” mostrerà solo in seguito la propria natura, saranno vittime designate della tribù, in una sorta di vendetta rituale vera e propria. Il messaggio è quasi ovvio: devastiamo il mondo con la presunta civiltà, ci affidiamo a parti politiche ipocrite ed anticonformiste solo di facciata, la natura ce la farà pagare.

    Dipende dallo spettatore, a quel punto: se apprezzate escursioni ideologiche del genere, tanto di cappello – amerete quasi certamente The Green Inferno, criticandone al più una certa estetica che non è vintage e, a confronto col passato, non sempre spaventa come dovrebbe (è molto relativo, mi rendo conto: per parecchi di noi, l’idea dei cannibali è da relegare alle vignette dei giornalini). Se non digerite questo tipo di horror brutali con tanto concetto dietro, vi conviene restare lontani, lontanissimi dalle sale (e dai DVD che usciranno), perchè alla fine prevarrebbero le solite critiche di “pesantezza”, nonchè la discussione eterna se un horror abbia o meno gli strumenti semantici (parolone) per mandare messaggi del genere (risposta breve: li ha sempre avuti, ma questo mi permetto di pensarlo personalmente).

    Non abbiamo bisogno di parlare di questo, in fondo: abbiamo bisogno di buoni horror, e secondo me Roth ne ha fatto uno niente male.

  • Nonostante le apparenze e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne: il Fulci satirico anni 70

    Nonostante le apparenze e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne: il Fulci satirico anni 70

    Feroce commedia satirica del regista romano, che narra la storia di un politico italiano piuttosto famoso, vicinissimo alla presidenza della repubblica, follemente erotomane ma apparentemente irreprensibile. Chi vi ricorda? Sia chiaro che ogni riferimento è puramente casuale, come viene specificato poco dopo la comparsa del titolo chilometrico. Al di là di alcuni dettagli, qualcuno parlerebbe seriamente di un’incredibile coincidenza, o di una pazzesca profezia, su un certo andazzo della politica italiana odierna.

    In breve. Uno spaccato sarcastico del Parlamento all’italiana, visto dall’occhio del regista forse più anarchico del cinema di genere nostrano. Con le dovute proporzioni e precisazioni, è una versione grottesca e scollacciata  del celebre “Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto“, priva ovviamente di attori del calibro di Volontè. Il messaggio sociale è fin troppo chiaro, bisogna fare tabula rasa e rifondare la politica: non c’è la poetica sottile di Petri, ma colpisce nel modo giusto ugualmente, tanto che venne sequestrato per oscenità e censurato.

    Il Fulci più (anti)politico di sempre inserisce Lando Buzzanca come protagonista, e secondo alcuni vorrebbe riferirsi all’allora presidente Emilio Colombo, esponente della DC. Sceneggiato da Ottavio Jemma assieme al regista, narra la storia di tale Giacinto Puppis, un economista cresciuto con educazione rigidamente cattolica, apparentemente casto e religioso, erotomane incallito. Girando per le strade di Roma è attratto morbosamente dai fondoschiena femminili, vede donne nude in ogni dove, ha continui sogni di natura sessuale,  ed arriva a far fare una figuraccia alla nazione per via di un video in cui sono stati ripresi i suoi palpeggiamenti ai danni della presidente di uno stato estero.

    Puppis presto viene ricattato, e si scoprirà che è solamente un burattino: mentre il buon amico padre Luciòn cerca in ogni modo di farlo guarire dai suoi raptus erotici, il cardinale Maravidi spinge perchè diventi Presidente della Repubblica, e la chiesa possa così influenzarne l’operato. Per ritrovare se stesso il frate lo porta in convento, sotto le cure di un monaco tedesco e di alcune giovani suore, ma l’unico risultato sarà che, in una notte di passione, finirà a letto con quasi ognuna di loro. Imperdibili i siparietti del candidato rivale Torsello, le battute miratissime e fieramente anti-politiche, le spassose allucinazioni erotiche di Puppis (girate con stile quasi felliniano) e la chicca finale: il cardinale che parla in siciliano come se fosse “Il Padrino“, mentre i boss si rivolgono a lui come dei semplici picciotti.

    Forse il film calca troppo la mano sull’aspetto da puro b-movie, con tutte le esagerazioni del caso, ma complessivamente il messaggio sovversivo resta intatto. Un Fulci anarcoide, che si fida poco della politica e ancor meno del Vaticano, rappresentato come una forza collusa e tendente all’eversione per sua stessa natura. A fare scandalo non furono, in effetti, le scene erotiche accennate o le grazie della Antonelli in vista parziale, quanto l’idea che alcune rappresentazioni fossero destabilizzanti per l’immagine della DC dell’epoca (e, a quanto pare, vennero rimosse del tutto pur rimanendo nella sceneggiatura).

    Da vedere, anche solo per ridere di gusto e cogliere alcuni inquientanti parallelismi con la storia recente.

  • Cani arrabbiati: il cult di Bava che terrorizza ancora oggi

    Cani arrabbiati: il cult di Bava che terrorizza ancora oggi

    Una rapina finita male è l’inizio di un road movie da incubo: uno dei migliori cult del cinema estremo all’italiana.

    In breve: cinismo, claustrofobia, personaggi molto caratterizzati e finalone a sorpresa costituiscono i quattro ingredienti di “Cani arrabbiati” di Mario Bava. Per chi volesse vedere i film più controversi è un vero e proprio must, più solido come narrazione rispetto a troppi successori/imitatori.

    Partendo dal titolo del film, e pensando al fatto che è stato inedito per anni, ristampato in versione edulcorata nel finale solo anni fa, viene subito da pensare che si tratta dell’essenza della “metà oscura” di Mario Bava. Il regista ha infatti diretto prevalentemente horror, ma è stato artefice in uno dei suoi momenti più ispirati dello slasher-movie per eccellenza Reazione a catena. In breve è stato un terrorista dei generi come Fulci, e Cani arrabbiati è l’esposizione alla luce solare di tutti gli archetipi di crudeltà umana, dove non esiste speranza di salvezza e a trionfare sono la violenza ed il mero interesse economico. Il tutto usando il linguaggio della violenza e dell’exploitation, raramente a livelli tanto lucidi quanto insostenibili.

    Si tratta di un thriller atipico, per il fatto che è ambientato quasi interamente nello spazio ristretto di una macchina, nella quale tre criminali prendono in ostaggio un uomo, una donna ed un bambino che hanno la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. I tre cattivi della storia (“Dottore”, “Trentadue” e “Bisturi”) non sono che degli avidi psicopatici che uccidono senza rimorso, in nome di uno sgangherato ed imprescindibile “mors tua, vita mea”: al tempo stesso dimostrano di possedere un lato prettamente umano, che spiazza ed inchioda lo spettatore alla poltrona fino all’ultima scena.

    Ed in quella lotta all’ultimo sangue per “tutto o niente”, che ricorda vagamente il discorso di Giulio Sacchi in “Milano odia…”, risiede il significato di questo Bava nichilista e profondamente pessimista. A cominciare dall’inaspettato e pazzesco finale, in cui si scopre un velo di Maya che mostra una realtà inaspettata, forse ancora meno sostenibile del racconto in sè. Il che significa, in altri termini, l’impossibilità di catalogare i comportamenti per divisioni preconcette tra bene e male, oltre a rappresentare il prezzo da pagare per sopravvivere, che è spesso – per assurdo – moralmente inaccettabile. Ognuno lotta per se stesso, e lo sforzo finisce beffardamente per non essere quasi mai correlato all’effetto finale che provoca.

    Tra gli attori, da ricordare Riccardo Cucciolla in una delle sue migliori interpretazioni, e Don Backy che interpreta il crudele “Bisturi”, le cui confusioni mentali vengono bizzarramente (e in modo geniale) rese da una pallina di flipper che rimbalza mediante un frenetico montaggio. Claustrofobia su pellicola senza contaminazioni, se non quelle suggerite dalla strada – e parlare solo di road-movie appare quantomeno limitativo. Realizzato nel 1974, in realtà non uscì all’epoca (la casa di produzione fallì), e soltanto anni fa è stato recuperato con il titolo Semaforo rosso e riproposto in DVD; ad oggi, è un titolo piuttosto agevole da reperire (RaroVideo). Probabilmente le tematiche trattate, unite al lugubre pessimismo sull’uomo che accompagna il film, non furono incentivi alla pubblicazione e diffusione dell’opera, rimasta semi-sconosciuta per molto, troppo tempo.

    Le musiche sono di Stelvio Cipriani, uno dei più grandi musicisti di cinema anni 70 ed autore di numerose altre colonne sonore (Incubo sulla città contaminata, La morte cammina con i tacchi alti e lo stesso Reazione a catena).

  • Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Morituris: il film di Raffaele Picchio è stato uno dei più massacrati dalla censura di ogni tempo (purtroppo)

    Tre giovani e due donne si recano in macchina ad un rave: questo è quanto fanno credere…

    In breve. Un film crudo e terrificante, un saggio magistrale di decadenza come non se ne vedevano da anni: censurato in Italia con poco giustificabili toni inquisitori, ed ingiustamente maltrattato da chi non ha saputo neanche vederlo, è uno slasher quasi revenge movie che gioca a decostruire il genere, meritevole di rispetto e di una riscoperta. Un vortice di nichilismo, realismo e ferocia umana, ispirato parecchio al primo Wes Craven.

    Abbiamo trascorso anni della nostra vita da recensori a farci affascinare, deprimere o esaltare da prodotti cinematografici al limite dell’amatoriale, spesso qualitativamente non eccelsi, con l’etichetta cult appiccicata a volte meritatamente, altre a casaccio. Abbiamo sofferto nel vedere certe produzioni, soprattutto quando le idee non mancavano, provando a salvare il salvabile – e stroncando ove e quando necessario lo stroncabile (difetti di recitazione e buchi narrativi, in primis). Abbiamo trascorsi serate tra amici e conoscenti a raccontare quante sorprese sappia riservare il cinema di genere, sentendoci fare “spallucce” un numero innominabile di volte. Di una cosa, pero’, potete stare certi: il cinema di genere exploitation non sarà più quello di prima, per voi, dopo aver visto questa opera prima di Raffaele Picchio. Morituris è libero da qualsiasi carattere di amatorialità e mostra che, una volta nelle sale, ogni film può possedere pari dignità: peccato che questo film non abbia avuto questa opportunità, visto che è stato bloccato dalla censura italiana e ne è stata vietata la proiezione in qualsiasi cinema (festival esclusi).

    Un film sporco, violento e destinato a lasciare il segno sullo spettatore, prendendo abbastanza evidentemente ispirazione dal primo Wes Craven (quello del cult L’ultima casa a sinistra), ma andrebbero citati anche L’ultimo treno della notte di Aldo Lado ed il torbido Cani arrabbiati di Mario Bava. Picchio non ama scherzare col cinema, in tutti i sensi: se da un lato infatti mostra una certa maestria nel riprendere (considerando che moltissime scene sono girate al buio), dall’altro evita di virare sui toni da cine-fumetto che tendono, in questi casi, ad ammorbidire il contesto mediante le solite abusate dicotomie Buoni/Cattivi o Indiani/Cow-Boys. Morituris è un horror slasher in cui non devi parteggiare per nessuno, non puoi farlo perchè è un prodotto talmente atipico ed originale da non consentirtelo. Il risultato, certo, potrà sembrare visivamente eccessivo ad alcuni, ma a ben vedere l’insistere sulla violenza (e le accuse di misoginia conseguenti) è un ingrediente necessario, parte dell’intreccio stesso (e della decadenza che condanna), necessario per generare un climax di tensione che giunge all’estremo nella (parecchio emblematica) scena finale.

    La tagline del film è “il male ha la meglio“, ed è così. Non volevamo fare una commedia horror, bensì una metafora surreale di ciò che, realisticamente, producono le azioni malvagie. Quando una bomba nucleare esplode, muoiono tutti (R. Picchio)

    Girato con spirito antropologicamente pessimista (la tagline del film non poteva che essere “evil prevails”) Picchio mostra non solo di conoscere “tarantinamente” il cinema di genere – ed in particolare l’exploitation – ma anche di saperlo rielaborare, usando bene i mezzi a sua disposizione ed esplicitando l’orrore in modo sorprendentemente equilibrato. Nonostante la violenza sia spesso ben visibile (e questo ovviamente, non lo rende un film da guardare “a cena coi parenti“: del resto, quale horror di qualità lo è?), si gioca sapientemente sul “non visto” e sugli sguardi malati (oltre che sulle perversioni) dei protagonisti: no violence for free, at all, per usare le parole del regista stesso, perchè tutto ciò che si mostra è necessario al contesto. Il quadro che ne esce è notevole: non solo i carnefici subiscono un violento contrappasso (che non dovrebbe essere una novità), ma anche le vittime non sono risparmiate da un culto della vendetta assoluto ed al di sopra di tutto, e che si propaga evidentemente da millenni.

    Vagamente ispirato al massacro del Circeo (il terribile fatto di cronaca nera avvenuto nel settembre 1975), Morituris si avvenutra in una storia di violenza girata con taglio quasi documentaristico, cupo e molto realistico, con tre giovani romani che adescano, con la scusa di un rave, due ragazze.  Dopo averle ferocemente violentate, scopriranno un Male assoluto (un gruppo di feroci gladiatori non morti) in grado di colpire con una cattiveria ben più grande della loro.

    Si ibridano nel film due componenti principali: da un lato la exploitation più cruda, dall’altro (abbastanza curiosamente per il contesto) l’horror a tinte sovrannaturali: il risultato di questo intelligente mix è uno slasher efficace, realistico quanto legato alla teatralità mitologica dei gladiatori dell’Antica Roma, ed alla rivolta di Spartaco in particolare. La scelta di attenuare l’elemento revenge dalla storia – che comunque, a suo modo, è presente quanto abbreviato dalle circostanze – è spiazziante, almeno quanto la citatissima sequenza dello stupro con le forbici (tensione allo stato puro). Al tempo stesso, Picchio riesce a non appesantire il contesto, che resta ovviamente più nero della notte ma che mostra qualche accenno di un sentire più vario, dagli aggressori che non capiscono il latino fino all’avviso finale, che ricorda agli spettatori che nessun animale è stato maltrattato in questo film (solo vedendo la scena del topolino, altra sequenza spoilerata senza pietà dal vituperato “popolo del web“, si può afferrare l’ironia).

    Al tempo stesso, al netto delle sproporzionate polemiche da parte di chi aveva stabilito non potesse andare nelle sale (c’è una Commissione Censura che lo ha fatto) Picchio e Perrone sono stati inequivocabili sul messaggio sottinteso (i personaggi non si chiamano mai per nome, perchè rappresentano archetipi universali di umanità; per non parlare del sulfureo in memory of mankind visibile sui titoli di coda), ma non c’è dubbio nemmeno sul contesto narrativo (i protagonisti sono three young, rich-upper class, fascist roman guys pick up two Italian girls), sulla caratterizzazione dei personaggi (la loro doppiezza è inquietante quanto realistica), ed infine sul genere, che è un thriller-slasher a tinte fosche girato quasi come uno snuff (molte riprese in movimento, ma nessun effetto “mal di mare” ed altrettanta perizia nel riprendere e nessuna inutile pornografia della violenza, per inciso).

    Non vi è alcuna speranza di redenzione o di vendetta in Morituris, il che è probabilmente sottinteso nel nome stesso del film: forse è questo, più di tutti, a rendere il film destabilizzante quanto preda di polemiche feroci, spesso da parte di webeti e a volte inappropriate. Certo, probabilmente il film non è perfetto, ma è pur sempre un’opera prima, non presenta momenti di calo, è ben recitato (e questo è un punto a favore considerevole), ma credo in tutta franchezza che farlo passare per uno snuff di bassa lega (come anche testate horror normalmente competenti e sempre sul pezzo hanno fatto) sia fuori luogo quanto profondamente ingiusto. Guardatelo con l’idea di assistere ad uno spettacolo estremo, certo, ma anche ricco di qualità e di idee, ed ovviamente preparatevi a soffrire (nel senso migliore del termine).

    Morituris si trova in DVD su Amazon (la versione che ho linkato è la francese uncut in lingua italiana di 90 minuti, della Elephant Films), mentre quella tagliata ne dura solo 83, ed è uscita per la Sinister Film.

    Nota: le parole del regista sono tratte da una interessante intervista al sito Bloody Disgusting.