Parlare oggi di Avere vent’anni di Fernando Di Leo non può che passare, ancora una volta, per la rievocazione di un contesto in cui si girava, spesso e volentieri, per esprimere idee politiche o sociologiche. Era impossibile girare senza farlo, e molto numerosi furono gli esempi nel cinema italiano. Erano anni pregni di contestazione della cultura ufficiale, ben prima che diventasse goffo complottismo da social, quasi chiunque sapeva cosa fosse una comune (anche in Italia, dove ci fu quella di Ovada) e in cosa consistessero rivoluzione, capitalismo, femminismo.
C’era un mondo che tuttavia non sembrava accettare quelle idee e la loro contestazioni, e che in pochi anni riuscì a reprimerle con la violenza, normalizzando l’idea del mondo in cui viviamo come l’unico possibile. In questo contesto storico e culturale andrebbe collocato anche questo film, che può essere visto come una sorprendente (quanto amara) exploitation sullo stile del primo Craven. Il film è molto imprevedibile ed è piuttosto diverso anche dalle dinamiche stesse del sottogenere, che costruisce i presupposti della storia come climax di tensione oppure, al limite, mostra la violenza subita e successivamente inflitta dalla vittima al carnefice. Di Leo mette da parte questi assunti standard e costruisce Avere vent’anni come una vicenda da commedia all’italiana, la quale vira improvvisamente su toni oscuri e macabri solo in seguito (guarda caso da un episodio di repressione poliziesca in poi). La storia è quella di due ragazze in cerca di una dimensione di vita diversa da quella imposta dal conformismo della società in cui viviamo: sono in cerca di avventure e, del resto, una di loro dice apertamente che “la rivoluzione sessuale non l’ho letta, l’ho fatta“.
Avere vent’anni è anche un film diverso dalla media girata da Di Leo, che è noto per i polizieschi all’italiana (Milano calibro 9): qui presenta la storia di queste ragazze che scappano di casa, si conoscono in una spiaggia per nudisti e iniziano a vagare in cerca di un passaggio per Roma. Le scopriamo essere anticonformiste e provocatorie, oltre che rapite dall’inconscienza tipica dell’età, sfrontate, più aggressive di quanto non ci si aspetterebbe. Lia e Tina non sono semplicemente due belle ragazze in cerca di avventure: sono determinate, sfrontate, non sempre hanno le idee chiare ma si divertono a mandare in crisi il mondo che le circonda (soprattutto se si tratta di un maschio rigido e antiquato). L’accoglienza nella comune non sembra pero’ trovare una dimensione alle due protagoniste, che si aggirano senza legare strettamente con nessuno, partecipando ad un documentario verità nel quale sentiamo le loro storie come un flusso di coscienza in diretta (forse la parte più significativa del film).
Scopriamo anche che Tina e Lia provengono da famiglie all’antica, conservatrici, cattoliche, moraliste, in alcuni casi abusanti: Lia (Gloria Guida) mostra un carattere mite ed è in cerca di una liberazione personale, Tina (Lilli Carati) si pone verso il mondo sicura di sè, grintosa, emancipata. Sono giovani, belle e incazzate, come ribadiscono a più riprese, e finiscono per ingannare lo spettatore facendogli credere di assistere ad una commedia leggera, come tante ne abbiamo viste. Quelle in cui sì, potrà anche esserci un cattivo, ma ci penserà qualche buono di turno ad aggiustare le cose. Del resto ci sono gli hippies stereotipati, un simpatico gestore di una comune, vari caratteristi e macchiette all’italiana che spesso esibiscono un goffo interesse per le nuove arrivate. Non può che finire bene, si potrebbe pensare, al massimo con una tirata d’orecchie.
Ma poi qualcosa non va. Qualcosa nel film progressivamente non quadra. Disturba lo spettatore. Ma non si capisce cosa sia. Ci sono due ragazzi che se le portano a letto, ma vanno via senza concludere l’atto. C’è il gestore della comune che sulle prime vorrebbe metterle a fare le pulizie, come a dire – c’è qualcosa da rivedere, culturalmente, anche qui. C’è una donna in giro con la compagna che rifiuta di dare loro un passaggio, adducendo motivazioni moraliste. C’è un uomo che interessa Tina da cui non viene ricambiato, perchè perennemente sotto l’effetto di droghe. C’è la scoperta del sesso saffico tra le due, oltre che di una relazione poli-amorosa, e c’è una relazione che tra loro si consolida. C’è quello strano guru pacifista che rimane immobile per tutto il tempo, indifferente a ciò che lo circonda (anche quando viene arrestato). Sì, perchè ad un certo punto la polizia irrompe ed arresta tutti, si scopre che uno dei personaggi più simpatici era un infiltrato e, a quel punto, capiamo che il progetto di libertà delle protagoniste non può funzionare.
C’è più di quanto certa critica ha scritto e ribadito su questo film, fatto passare ingiustamente come il film con quel finale violento e la scena dell’impalamento, che in effetti fa sembrare Avere vent’anni una versione italiana più di Easy rider che di Thelma & Louise. Si trattava, per l’appunto, di illusione e disillusione, come ci ricorda la citazione di Paul Nizan: Avevo vent’anni… Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita. Non può infatti essere tutto oro ciò che luccica, specialmente nel ritratto pessimista che ne fa la regia: le due ragazzi sono ambite da tutti esclusivamente per il proprio aspetto, vengono sessualizzate anche quando provano a vendere enciclopedie porta a porta (Tina usa la sessualità a proprio vantaggio, mentre Lia è più a disagio), quando la polizia arriverà nella comune saranno rimandate a casa come due bambine e senza troppe spiegazioni. Sulla via del ritorno si imbattono in un gruppo di soli uomini dall’aria truce e patriarcale: dopo aver ballato con loro ma averne rifiutato le avances, come nell’incubo finale di Non aprite quella porta si ritrovano le macchine con gli uomini, i quali le aggrediscono violentemente, le violentano, le uccidono e le lasciano nel bosco. Quello che sembra il boss del gruppo – viene il sospetto che si trattasse di un gruppo di criminali – sottolinea il proprio fastidio e la propria intolleranza per la libertà espressa dalle due, e come quel doppio omicidio fosse un modo per riportare l’ordine, dal suo punto di vista. Mentre le macchine vanno via e i corpi di due icone sexy per eccellenza giacciono nel bosco male illuminato, la parola FINE appare sullo schermo.
Avere vent’anni è il manifesto della disillusione di Di Leo, che scrive soggetto e sceneggiatura suddiviso in due parti: nella prima abbiamo assistito alle classiche incursioni da commedia sexy, dove non mancano ironia, sarcasmo, sequenze paradossali, scene di nudo e di sesso (non esplicito, ma piuttosto chiaro). La sfida di Lia e Tina era quella di trovare un modo per vivere alternativo a quello di restare a casa, fare la moglie, fare dei figli, lavare i piatti – come Tina ricorda esplicitamente partecipando al documentario verità che vediamo essere girato all’interno della comune. Al netto delle singole sequenze che certa critica ricorda morbosamente, infatti, la chiave del film sta probabilmente proprio in quella sequenza in cui si “confessano” davanti ad una telecamera: Tina era oppressa dalla famiglia ed è scappata per farsi una vita, Lia è cresciuta da orfana con una donna autoritaria che la molestava sessualmente. La banda che le uccide è, a questo punto, l’espressione della violenza patriarcale che si oppone al cambiamento, e questo rende il film estremamente interessante anche oggi – per quanto, ovviamente, non tutte le femministe concorderanno con le modalità scelte dalla regia per esprimersi.
Non va dimenticato che Carati e Guida sono state due icone della commedia sexy all’italiana, e che la scelta di metterle in panni così diversi è stata inaccettabile per parte del pubblico (quantomeno quello dei fan o di chi, beata ingenuità, sperava che fosse l’ennesima commedia spensierata). Questa scelta coraggiosa da un lato le ha rese più umane, più vicine al pubblico, dall’altro la morte improvvisa delle protagonista (qualsiasi altro film sarebbe finito con le ragazze che tornano a casa e, al limite, promettono di rivedersi in futuro) cambia totalmente il senso del film e sembra raccontarci, ancora oggi, che la nostra società deve essere cambiato o può essere omolto meglio di così.
Del resto non si tratta di uno shock fine a se stesso come avveniva in parte della exploitation: è uno shock politico, è il trauma generazionale di chi voleva provare a cambiare le cose ed è stato represso con la violenza, non è stato ascoltato, è stato sminuito o svilito negli intenti. È il trauma di chi ha riportato l’ordine, alla fine, forse addirittura col beneplacito delle stesse famiglie da cui le ragazze stavano scappando. La director’s cut di Avere vent’anni è riconoscibile perchè più lunga, e perchè contiene tutte le scene girate da Di Leo, incluso il finale, e vale la pena reperirlo ancora oggi.
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