CULT_ (114 articoli)

Gli imperdibili: una selezione di pellicole da non perdere per qualsiasi appassionato del genere horror, commedia, thriller, trash.

  • Quando Pleasantville raccontava le sfide alle norme sociali

    Quando Pleasantville raccontava le sfide alle norme sociali

    Pleasantville” è un film del 1998 diretto da Gary Ross. La trama del film ruota attorno a due adolescenti, David e Jennifer, interpretati rispettivamente da Tobey Maguire e Reese Witherspoon, che vengono magicamente trasportati all’interno di un programma televisivo in bianco e nero degli anni ’50 chiamato “Pleasantville”.

    Nel mondo di Pleasantville, tutto è perfetto, ordinato e apparentemente privo di conflitti. Tuttavia, quando David e Jennifer arrivano, iniziano a influenzare il mondo circostante introducendo idee e cambiamenti che sfidano il conformismo e la rigidità della società dell’epoca. Col passare del tempo, il colore inizia a emergere nel mondo in bianco e nero del programma televisivo, simboleggiando l’apertura alla diversità, all’individualità e all’esplorazione della sessualità.

    Il film affronta temi come l’importanza dell’individualità, la sfida alle norme sociali, l’accettazione delle differenze e la comprensione dell’importanza della conoscenza e dell’esperienza. La trama serve anche da metafora per esplorare il cambiamento sociale, il razzismo, la sessualità e l’evoluzione culturale.

    Cast

    Il cast principale di “Pleasantville” include diversi attori noti. Ecco alcuni dei membri del cast e i personaggi che interpretano nel film:

    • Tobey Maguire: David / Bud Parker
    • Reese Witherspoon: Jennifer / Mary Sue Parker
    • Joan Allen: Betty Parker / Joan Allen
    • William H. Macy: George Parker / William H. Macy
    • Jeff Daniels: Bill Johnson / Jeff Daniels
    • Don Knotts: TV Repairman / Don Knotts
    • J.T. Walsh: Big Bob
    • Paul Walker: Skip Martin
    • Marley Shelton: Margaret Henderson
    • Jane Kaczmarek: David e Jennifer’s Mother
    • Giorgio Cantarini: Lover’s Lane Guy
    • Jenny Lewis: Christinains / Girl in Car
    • Marc Blucas: Basketball Hero

    Questi sono solo alcuni dei membri del cast del film “Pleasantville”. Ognuno di loro contribuisce alla rappresentazione dei vari personaggi nel mondo in bianco e nero di Pleasantville e nel mondo a colori che evolve man mano che la storia si svolge.

    Sulla regia

    Il regista del film “Pleasantville” è Gary Ross. Il film è stato scritto e diretto da lui ed è stato rilasciato nel 1998. Gary Ross è noto anche per aver diretto altri film come “Seabiscuit – Un mito senza tempo” e “Hunger Games”.

    Spiegazione del film (spoiler alert)

    Il finale di “Pleasantville” è ricco di significati e simbolismi che riflettono le tematiche del film. Verso la fine del film, il mondo di Pleasantville è passato da uno stato in bianco e nero a uno a colori, simboleggiando la trasformazione sociale e culturale che si è verificata nella comunità. Questo cambiamento è avvenuto a causa dell’influenza delle nuove idee, della conoscenza e dell’apertura alla diversità introdotti dai protagonisti, David e Jennifer.

    Il passaggio al colore rappresenta l’abbattimento delle barriere sociali e culturali che limitavano l’espressione individuale, la sessualità e la creatività. Rappresenta anche l’accettazione delle emozioni umane complesse e dei conflitti che prima erano repressi. Questa trasformazione simboleggia il progresso e il cambiamento necessari per una società più inclusiva e aperta.

    Inoltre, il cambiamento nei colori riflette anche il processo di crescita personale e di scoperta attraverso l’esperienza. I personaggi nel film imparano a essere veramente se stessi, a esplorare la loro individualità e a connettersi con gli altri in modi autentici. La diversità di idee e identità viene finalmente abbracciata.

    In sintesi, il finale di “Pleasantville” trasmette un messaggio di speranza, cambiamento e progresso, sottolineando l’importanza dell’apertura mentale, dell’accettazione delle differenze e dell’esplorazione personale.

    Omonimie

    “Pleasantville” è il titolo di una canzone dell’artista indie pop Dodie Clark. Tuttavia, la canzone non è stata inclusa in uno dei suoi album ufficiali, ma è stata pubblicata come singolo indipendente nel 2013. La canzone riflette sul tema della ricerca dell’innocenza e della purezza in un mondo complesso e spesso confuso. La canzone potrebbe non essere molto conosciuta a meno che tu sia un fan dell’artista o del genere musicale indie pop.

  • Una lucertola con la pelle di donna: quando il thriller psicologico era made in Italy

    Una lucertola con la pelle di donna: quando il thriller psicologico era made in Italy

    Thriller dalle tinte enigmatiche, con ottimi sprazzi horror che devono, onestamente, più di qualcosa ad un certo Dario Argento: l’altro regista romano era appena entrato sulle scene, circa un anno prima, con “L’uccello dalle piume di cristallo“. Ovviamente, in questa sede, Fulci veniva da altre apprezzate escursioni nel genere (“Non si sevizia un paperino” su tutti), per cui scrive e dirige questo film con massima perizia e intelligenza, senza cadere nelle banalità e negli stereotipi tanto frequenti in quegli anni.

    In breve: un cult del giallo all’italiana, con una certa contaminazione poliziesca e suggestive allucinazioni.

    Una lucertola con la pelle di donna è probabilmente il giallo anni Settanta per eccellenza: o quantomeno, lo è nel suo incedere psichedelico e imprevedibile, dove la struttura narrativa è spesso affidata ad una specie di flusso di coscienza. La prima sequenza è magistrale in tal senso: vediamo il personaggio interpretato da Florinda Bolkan muoversi a fatica in una folla che sembra ignorarne le difficoltà. Una folla che è prima quella di un treno, poi una massa di uomini e donne nude in un corridoio, poi – ancora – il vuoto delle tenebre, in cui fa la propria comparsa una donna misteriosa (Anita Strindberg, non accreditata ufficialmente nei titoli) che ride e suscita quel singolare mix di repulsione, attrattività e spavento tipici del sesso e dell’amore. La sequenza diventa erotica, con primi piani sul volto dell’attrice che si risveglia da quello che sembra essere stato un sogno, e si scopre avere una chiave di lettura psicoanalitica. Un giallo erotico, per molti versi, nel quale la componente di questo tipo è sostanziale e non preponderante.

    Ambientato nella Londra settantiana, Una lucertola con la pelle di donna narra di questa donna benestante (Carol) che viene accusata di aver assassinato la propria vicina, una hippie libertina ai suoi antipodi, forse in preda a un raptus omicida. La donna non sembra consapevole di ciò che potrebbe aver fatto, che sembra provenire dal proprio inconscio e trova una sorta di reazione violenta o una forma di gelosia per la vita libertina della vicina dicasa. Poi racconta di aver sognato l’omicidio giusto nel momento in cui avveniva, il che incrementa i sospetti e suggerisce una narrazione in bilico tra realtà e sogno. Il film di Fulci, all’epoca ancora nel mood puramente giallistico, diventa soprattutto un gioco di specchi e di sospetti: come nella tradizione argentiana, chiunque (o quasi) dei personaggi potrebbe essere responsabile del delitto, per quanto lo spettatore sia spinto a sospettare esclusivamente di Carol. Che ad un certo punto verrà pure, kafkianamente, arrestata, fino alla imprevedibile conclusione della storia.

    Fulci gioca per tutto il film a farci credere che le cose non stiano come sembra, mescolando con intelligenza realtà e fantasia, sogno e verità, fino a lasciarci un messaggio di fondo: tutto quello che sognamo di fare, in fondo, siamo nelle condizioni di realizzarlo, anche se dobbiamo essere disposti a pagarne le conseguenze.

    La celebre scena di questo film, che vede la Bolkan aggirarsi all’interno della clinica in cui è ricoverata (e che ricorda per certi versi quanto vedremo nella sequenza dell’ospedale de “L’Aldilà…“) è un autentico capolavoro del cinema di genere.

    La scena censurata

    In particolare, l’allucinazione con i cinque cani smembrati vivi (presente ad esempio nel sito movie-censorship.com), con tanto di organi palpitanti bene in vista, assume anch’essa nel suo orrore una valenza fortemente simbolica.

    All’epoca fu considerata talmente realistica per l’epoca che Fulci fu costretto a ricreare l’effetto in tribunale per mostrare che non ci fosse stato maltrattamento di animali: tutto si risolse al meglio per il regista romano, che riuscì a provare la propria innocenza. Ma l’effetto rimane crudo, sostanziale, difficile da guardare senza ricordarsi che si tratta solo di un film.

    Una lucertola con la pelle di donna, in definitiva, è il thriller anni Settanta italiano che strizza l’occhio alla psicoanalisi, la stessa che Fulci non sembrava amare (come testimoniato in un’intervista molto citata sul cinema horror). Uno di quei film immarcescibili, di culto, condito di elementi surreali e simbolici e focalizzato sull’equilibrio tra vite contrapposto: quelle di un personaggio libertino e quella di una donna frustrata, che probabilmente uccide per una forma di odio sociologico per l’altro. Tematiche che, sia pure con toni saggistici, sono stati affrontati ad esempio da film come Metti, una sera a cena.

  • La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    La morte ha sorriso all’assassino: l’horror gotico di Massaccesi del 1973

    L’algida Greta sopravvive ad un incidente in carrozza, e si fa ospitare da una coppia di coniugi. Ma chi è veramente?

    In breve. B-movie con alcuni punti di interesse, minato da un montaggio poco comprensibile ed uno script tirato troppo per le lunghe. Incuriosisce ancora oggi, forse, ma va contestualizzato all’epoca e ai mezzi, oltre che al regista (Joe D’Amato di Buio Omega).

    Noto con svariati titoli tra cui Death Smiles on a Murderer, viene prodotto da Franco Gaudenzi ed è noto per essere stato il primo film in cui D’Amato si firma come Aristide Massaccesi, sfruttando un budget di 150 milioni di lire dell’epoca (1973). La villa che compare nel girato è Villa Parisi a Frascati, location di innumerevoli b-movie dell’epoca ed in parte riconoscibile da alcune inquadrature. La locandina del film ritrae una sequenza specifica, in parte rivelatrice della trama quanto debitrice dei classici di Edgar Allan Poe, citato più volte in tutto il film.

    La morte ha sorriso all’assassino potrebbe evocare un giallo classico, almeno a partire dal titolo, ma assume piuttosto la forma di un horror gotico, in cui montaggio e regia provano ad evocare qualche suggestione surrealista. Uno stile complessivamente lento, inesorabile e che insiste sui primi piani ai protagonisti, ognuno dei quali sembra custodire un segreto: sorvolando sull’ovvio (questo approccio lo fa sembrare un po’ datato, visto oggi), si nota come buona parte del suo fascino sopravviva intatta, soprattutto per il modo decisamente curioso di iniziare la trama e svilupparla, così come per il susseguirsi frammentario, apparentemente illogico delle prime sequenze. La figura di Greta von Holstein è meravigliosamente orrorifica, evoca quasi una delle Madri argentiane ed è un archetipo di personaggio: manipola la storia, seduce, uccide, cambia aspetto.

    Certo il film presenta dei limiti sostanziali – soprattutto a livello visuale, spesso molto artigianale, ma anche narrativo – ma al tempo stesso colpisce per un paio di trovate interessanti: in primis la figura mortifera di Greta (candida, sensuale e spaventosa al tempo stesso), la suggestiva festa in maschera (grottesca e quasi felliniana, ispirata a La maschera della morte rossa di E. A. Poe), la sepoltura in casa (un tributo a Il barile di Amontillado e Il gatto nero), le fattezze di Walter (coi baffi che richiamano molto l’aspetto dello scrittore statunitense), e poi il finale a sorpresa – che può sembrare artefatto nella sua bizzarria, ma chiude comunque il cerchio. Se il livello attoriale è accettabile, permane un intreccio scritto interamente da Massacesi-Scandariato-Bernabei interessante solo come idea, di fatto troppo diluito in sequenze insistite, astratte e interminabili. Peraltro alcuni trovate non sono il massimo (la sequenza del gatto citata nella locandina, il montaggio alternato sul viso normale / cadaverico) e più in generale lo splatter non sembra sempre giustificato dalle circostanze. A confronto con Buio Omega, del resto, si intuisce come l’approccio più congeniale al regista resti quello di storie sviluppate in modo più moderno (e più morboso, peraltro).

    La critica più sostanziale può essere ricondotta a La morte ha sorriso all’assassino, del resto, oltre alla curiosa scelta di sfruttare un gigante come Klaus Kinski per un personaggio che sembra (e che poi non è) centrale nella storia, si lega alla ricostruzione temporale della vicenda, presentata in modo anti-causale e che – almeno fino a metà film – sembra incentrata su una surreale vicenda romantica, che deve qualcosa al Dracula di Bram Stoker e qualcos’altro al Frankenstein di Mary Shelley. La narrazione prende una piega differente e non sempre è agevole seguire, con il risultato che molti potrebbero non capire, e che molte delle sinossi che si trovano sul web, tra blog anche autorevoli e Wikipedia, sono in parte fuorvianti (addirittura quella di IMDB non sembra troppo azzeccata: di fatto scambia una sotto-trama per la trama principale). Non mancano ovviamente i riferimenti ai grandi classici appena citati, e Massacesi mostra di ispirarsi ai migliori luoghi comuni dell’orrore classico: necrofilia, claustrofobia, allucinazioni. Con un po’ più di unità narrativa sarebbe stato un grandissimo film: così è solo un film non banale (ovviamente), ma non abbastanza focalizzato per parlare di un vero e proprio cult.

  • Le Vergini di Dunwich (The Dunwich Horror): orrore lovecraftiano anni 70

    Le Vergini di Dunwich (The Dunwich Horror): orrore lovecraftiano anni 70

    Dunwich è il nome di un piccolo villaggio inglese della contea di Suffolk; nell’immaginario lovecraftiano che richiama il film, si fa riferimento all’orrore di Dunwich, una forza invisibile aliena che si manifesta agli esseri umani dopo molteplici presagi, nella forma di un mostro ciclopico dalle fattezze di una testa umana ingigantita. È il mostro che potrebbe, peraltro, a sua volta aver ispirato le caratteristiche de La cosa di John Carpenter, e su cui si è creato un vero e proprio archetipo del genere, a cominciare dalla presenza di un libro proibito scritto in crittogrammi, che scatenerà il villain infernale del titolo. All’interno di questo luogo, ancora oggi, vive la famiglia Whateley, di cui sono sopravvissuti solo due componenti che vengono visti, a causa di inquietanti precedenti, con grande sospetto dalla comunità cristiana del luogo. Tanto più che un loro avo, anni prima, sembra che sia stato assassino per via di alcuni esoterici culti a cui si dichiarava adepto.

    Parliamo di un film del 1970 storicamente poco amato dai fan dello scrittore, sul quale pero’ (da appassionato lettore delle sue opere) mi permetto di rilanciare e proporre una lettura diversa del film, con il quale certa critica a mio paree è stata poco appropriata. Tanto per cominciare un racconto di Lovecraft al cinema in genere è soggetto a più o meno libere intepretazioni, se vogliamo “licenze” registiche quasi sempre sgradevoli per i fan letterari: da Dagon a Re-animator, passando per Il colore venuto dallo spazio e Quella villa accanto al cimitero. La vergine di Dunwich , al contrario, sembra insolitamente coerente con il racconto, a cominciare dai personaggi e dalle atmosfere. L’orrore è pura idea, suggeriva Lucio Fulci in una celebre e citatissima intervista: e probabilmente questo film è un po’ la concretizzazione di quella frase. Il mostro che si manifesterà nel film, infatti, è una causa invisibile ed intangibile, di cui vediamo gli effetti ma non cogliamo la presenza, e viene brillantemente filmato come un villain in soggettiva, mantenendo una coltre di mistero, mai risolta, sul suo reale aspetto (tranne nel finale, solo per qualche secondo). Tanto del racconto di Lovecraft, coerentemente con lo script del film, è incentrato sull’ossessione frustrata dell’io narrante nel definire, senza riuscirci, la forma del mostro.

    La vergine di Dunwich fin da subito si permea di un alone di mistero: vediamo senza preamboli una ragazza sofferente a letto, assistita da quello che sembra un medico, in presenza di altre misteriose – e non meglio specificate – figure. È poi la volta della comparsa del protagonista, il sinistro Wilbur Whateley, in visita alla Miskatonic University alla ricerca del libro proibito dei morti: il Necronomicon.

    Il Necronomicon è il libro inventato, o pseudo-biblia, citato in più racconti lovecraftiani, scritto dall’arabo pazzo (Adbul Alhazred, molto probabilmente un gioco di parole con All Has Read, lett. “ha letto di tutto”) espressione dei rituali indispensabili per evocare i Grandi Antichi (gli “Anziani”, come vengono citati nel doppiaggio italiano), creature mostruose oltre che divinità aliene.

    Wilbur sembra essere ossessionato da questo libro, che vorrebbe freneticamente consultare o trafugare: si definisce uno studioso di scienze occulte, con obiettivi non esplicitati ma, al tempo stesso, con le idee chiare. La versione uncut del film, per la cronaca, è quella con alcune parti non doppiate (e sottotitolate), ed è in grado di esplicare molti dei dettagli necessari a cogliere il senso della storia raccontata. Tra le scene tagliate, ad esempio, emerge una sostanziale (e purtroppo consueta) arbitrarietà nel montaggio italiano: l’intero macabro rituale da parte di Wilbur, ad esempio, con tanto di riferimento a Yog-Sototh, è da gustare nella sua interezza, ma a quanto risulta il pubblico italiano dell’epoca ha potuto vederlo solo in parte.

    Originariamente annunciato come film assegnato a Mario Bava, venne poi girato da Daniel Haller, il quale conferisce un’atmosfera sinistra e occulta, oltre ad un fantasioso uso della fotografia, all’intero film. In tal senso il lavoro è molto lovecraftiano, abile a costruire un climax di tensione che poi, ovviamente, sarà destinato a crescere sul finale. La scelta registica è quella di non esplicitare la mostruosità del racconto, mantenendo una sostanziale fedeltà al mood di sospensione che lo caratterizza, il che è forse la caratteristica più appagante del film stesso – a differenza di altri epigoni dello scrittore di Providence che quasi sempre, anche senza malizia a volte, finivano per buttarla sul trash.

    L’orrore invece qui si svela progressivamente in forma di demoni-satiri grotteschi ed inquietanti, conferendo ad alcune sequente una sorta di allucinazione (da parte della protagonista femminile) dai caratteri prevalentemente horror-psichedelici. La musica di Les Baxter, in tal senso, è una scelta molto adeguata, e sembra anticipare – e potrebbe avere ispirato – quelle create da Fabio Frizzi per molti dei film fulciani più celebri, ovvero la cosiddetta Trilogia della Morte: L’aldilà, Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero.

    Vale la pena spendere qualche parola anche sul finale del film, che è di natura dichiaratamente ciclica: viene infatti ufficializzata la provenienza aliena della famiglia Wilbur, e mentre Nancy viene aiutata a scendere le scale del “giardino” in cui stava per completarsi il rituale di evocazione, la regia evidenzia che sia incinta di Wilbur, a voler evidenziare che la sua stirpe continuerà a propagare il male sulla terra. Questo, peraltro, spiega il perchè del suo interessamento verso la donna: poter dare continuità alla propria famiglia.

    Non sono poche le differenze con la versione letteraria, e quelle più rilevanti che ho trovato sono le seguenti:

    • la storia è ambientata negli anni 60, mentre nel racconto eravamo nel 1928;
    • parte dell’intreccio è una metafora della sessualità ritrovata (assente nel racconto), ed è incentrata su una vaga sessuofobia della protagonista (da cui la sua verginità), e sulla potente attrazione e condizionamento che Wilbur esercita nei suoi confronti;
    • Wilbur ha un ruolo differente, tant’è che nel racconto muore (nel tentativo di rubare il libro dei morti), ed è lì che si evidenzia la sua natura aliena; inoltre la sua relazione con il nonno è rappresentata in modo differente, rispetto al racconto;
    • c’è la figura di una donna sopravvissuta ad uno dei rituali magici precedenti, ormai impazzita e invecchiata precocemente, assente nel racconto ma decisamente azzeccata e affascinante;
    • i due assistenti uomini del professor Armitage, nel film, sono sostituiti da due donne, probabilmente per facilitare l’intrigo amoroso il quale, a sua volta, finisce per fungere da MacGuffin della storia;
    • gli Antichi sono rappresentati come streghe danzanti dalla forma umana, scelta forse semplicistica che farà rabbrividere (in senso negativo) i fan dello scrittore;
    • lo stesso mostro di Dunwich, dall’effetto ben più apocalittico nel racconto, nella versione cinematografica appare più ridimensionato, probabilmente per motivi di budget;
    • il mostro viene “allevato” da nonno e nipote in una soffitta esclusa dall’accesso di chiunque altro: nel film è una sorta di elegante palazzo gotico, nel racconto una umile fattoria. Vedremo a lungo solo una semplice porta che vibra, in omaggio all’essenzialità simbolista tipica degli horror del periodo.

    Per quello che valgono questo genere di confronti, ed in relazione al fatto che Lovecraft difficilmente avrebbe apprezzato il cinema in toto, emerge che la rilettura proposta nel film è più che accettabile, offrendo più di uno spunto degno di nota. Non credo del resto che esista un solo film nella storia del cinema che abbia potuto riprodurre in modo fedele un romanzo o un racconto, per cui tanto varrebbe porre la questione in termini differenti.

    Al netto di qualche interpretazione arbitraria (il Male lovecraftiano, a cominciare dai titoli, viene visto come una sorta di generico “demone satanico”, probabilmente per esasperare la contrapposizione con gli abitanti cristiani e non proprio di larghe vedute), il film è ricchissimo di suggestioni, simbolismi e scenari dal sapore esoterico, con un uso sapiente della fotografia – soprattutto nelle sequenze più orrorifiche – senza dimenticare che il mostro da rappresentare, originariamente, era quasi sempre invisibile e per questo, sostanzialmente, nel film viene rispettato.

    Su tutti, a parte gli archetipi classici del genere, ne La vergine di Dunwich emerge una componente di horror psichedelico molto originale, quasi innovativa per l’epoca e sfoggiata nella sequenza in cui una delle assistenti del professor Armitage apre la porta che custodisce la mostruosità, e vive il contatto con il mostro come una specie di allucinazione caleidoscopica fatta di urla disperate ed immagini colorate e convulse, che potrebbe quasi essere tratta da Il serpente di fuoco, il film su un trip da LSD diretto dallo stesso Roger Corman che qui è solo produttore, ma che forse non avrebbe sfigurato alla regia.

    E anche la metafora amorosa e sessuale alla base dell’intreccio, da cui trasuda una sincera sensualità mai fine a se stessa (Sandra Dee non volle apparire nuda, per cui ricorse ad una controfigura per scene che, ad oggi, non risulterebbero certo pornografiche), sembra sposarsi perfettamente con il clima del film, che evoca per certi versi il feeling degli “amori impossibili”, tipici della letteratura gotica a partire dal Dracula di Bram Stoker.

  • Io la conoscevo bene: il dramma di Antonio Pietrangeli che ha lasciato il segno

    Io la conoscevo bene: il dramma di Antonio Pietrangeli che ha lasciato il segno

    Adriana è una ragazza di provincia con un sogno nel cassetto: fare l’attrice.

    In breve. Un saggio intenso ed indimenticabile sulla società dello spettacolo, in grado di rappresentarne il degrado e l’ipocrisia. Il tutto dal punto di vista di un’ambiziosa quanto sprovveduta Adriana, aspirante attrice.

    Selezionato di recente tra i 100 film italiani da salvare, Io la conoscevo bene pone le basi concettuali di un’intera generazione di registi: un concept lungimirante, cinico e realista che sarebbe stato imitato e ripreso più volte in seguito. La storia è quella di Adriana, avvenente giovane donne nonchè aspirante attrice di provincia, la quale cerca di mantenersi tra mille lavori diversi, facendosi regolarmente sfruttare da individui uno peggio dell’altro, che il suo istinto la porta tragicamente a selezionare con cura. In questo, ovviamente, è evidente come il suo personaggio sia simbolico e, al tempo stesso, realistico, tanto che il film viene spesso annoverato nel filone neo-realista a cui Pietrangeli (padre del cantautore Paolo) viene associato. Un filone, quello della decadenza e delle illusioni della società delle apparente, che avrebbe contaminato in seguito anche l’horror – da Society al nostrano Ubaldo Terzani Horror Show.

    Ambientato in larga parte a Roma (due scene emblematiche sono state girate a Lungotevere Portuense e a Ponte Testaccio), Io la conoscevo bene rappresenta in modo efficace il degrado e la decadenza del mondo dello spettacolo dell’epoca. Un mondo nel quale il talento conta poco o nulla, e si cerca solo l’ennesimo burattino da illudere, umiliare e sfruttare all’osso. In questo, ancor prima del personaggio di Adriana Astarelli (Stefania Sandrelli), si erge la figura di Gigi Baggini (Ugo Tognazzi, vincitore anche del Nastro d’Argento quale miglior attore non protagonista nel 1965): un misero lacchè e passacarte dei potenti, disposto a qualsiasi cosa pur di lavorare (“ti faccio pure da autista!“), ridotto addirittura a buffone di corte dall’attore che aveva, a suo tempo, lanciato (di cui conosciamo solo il nome, Roberto, e che è stato interpretato da Enrico Maria Salerno).

    Baggini, un po’ come Adriana (per quanto privo di quel minimo pudore che si porta dietro dalla propria educazione di provincia), farebbe qualsiasi cosa pur di restare nel mondo dello spettacolo. Un mondo che, per età avanzata, sembra averlo definitivamente escluso: e per ingraziarsi il potente si mette a ballare in modo instancabile fino quasi a svenire, ed arriva a corteggiare la protagonista – e questo esclusivamente per conto del Roberto che ossequia.

    Per lei ieri e domani non esistono, non vive neanche giorno per giorno perché già questo la costringerebbe a programmi troppo complicati.

    Adriana, dal canto suo, è archetipica della ragazza di provincia ingenua e priva di esperienza, in grado soltanto di passare da un letto all’altro senza mai progredire nella propria carriera, anzi venendo umiliata e sbeffeggiata per la sua origine e scarsa cultura. In questo, privilegia come partner personaggi potenti, infimi quanto degradati, per quanto qualcosa (che non riuscirà a focalizzare) le suggerisca che sia vagamente sbagliato farlo. Nel farlo, vive passivamente dei flirt e storie occasionali che ama procurarsi con personaggi di bassa estrazione sociale (il pugile, il parcheggiatore), da cui pero’ diffida e a sua volta illude senza dare null’altro.

    Il suo dramma di solitudine, sottolineato elegantemente dalle musiche d’epoca, viene vissuto con la stessa inconsapevolezza con cui vive la vita, ed descritta acutamente dal monologo dello scrittore suo amante e conoscente.

    Il fatto è che le va bene tutto, è sempre contenta, non desidera mai niente, non invidia nessuno, è senza curiosità, non si sorprende mai. Le umiliazioni non le sente… Eppure, povera figlia, dico io, gliene capitano tutti i giorni… le scivola tutto addosso senza lasciare traccia, come su certe stoffe impermeabilizzate. Ambizioni zero, morale nessuna, neppure quella dei soldi perché non è nemmeno una puttana.

    Se oggi un ritratto del genere può sembrare scontato, oltre che emblematico di un certo modo di fare casting e di scritturare soubrette ed attrici, all’epoca dovette fare un certo scalpore, nonostante l’elegante capacità e sensibilità di Pietrangeli di scegliere le musiche d’epoca più adatte, e di non mostrare mai nè sesso (ripreso sempre fuori camera, come nella prima sequenza in cui Adriana alza semplicemente il volume della radio), nè l’unica scena realmente violenta (quella dell’imprevedibile finale della storia, ripreso in soggettiva).

    Del resto è potentissima l’essenza del personaggio interpretato dalla Sandrelli: perchè domina e sarebbe in grado di sottomettere qualsiasi uomo, ma non ha realmente il carattere nè la malizia per riuscire a mettere in atto il piano. Un personaggio del genere, come in una tragedia greca, non può fare altro, alla fine, che soccombere e decidere di farla finita, creando un contrasto raggelante con il resto dell’edonismo sfrenato, pacchiano e spensierato della sua narrazione.

    Perciò vive minuto per minuto: prendere il sole, sentire i dischi e ballare sono le sue uniche attività. Per il resto è volubile, incostante, ha sempre bisogno di incontri nuovi e brevi, non importa con chi. Con se stessa, mai. […] Forse sei tu la più saggia di tutti.