Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Il serpente di fuoco: uno dei primi film autenticamente psichedelici

    Il serpente di fuoco: uno dei primi film autenticamente psichedelici

    Paul Groves è prossimo al divorzio, disorientato dalla circostanza e restìo ad affrontare la realtà: decide di sperimentare un acido per la prima volta in vita sua, dando vita ad un interminabile trip allucinato.

    In breve. È il racconto di un trip lisergico da parte di un protagonista alla prima esperienza in assoluto. Vivido, a tratti oscuro e vagamente autoironico, è noto per essere uno dei primi film a riportare le allucinazioni da LSD su pellicola, a quanto pare auto-sperimentate da alcuni attori e dal regista.

    Si potrebbero citare mille trame di film relazionate all’esperienza di assunzione di LSD, la nota droga dagli effetti imprevedibili – oltre che ideale, ovviamente solo dal punto di vista narrativo, per sviluppare originali variazioni sui soliti temi. “Il serpente di fuoco” – titolo con cui è circolata l’opera in Italia, al netto di un doppiaggio un po’ approssimativo o poco convincente – è una delle opere di Roger Corman più famose, oltre ad essere uno dei primi film (se non il primo in assoluto: siamo nel 1967) a trattare il tema della psichedelia in modo netto oltre che “sentito”.

    Tanto esplicito che venne inserita una minacciosa introduzione, a quanto pare non prettamente voluta dal regista, con una voce fuori campo che parla degli effetti delle droghe e la loro pericolosità, la quale evoca un po’ (per modi e toni utilizzati) l’introduzione de L’ultima casa a sinistra di Wes Craven.

    Il focus è incentrato sulla sindrome dell’abbandono che attanaglia il personaggio di un regista (interpretato da Peter Fonda che, qualche tempo dopo, girò Easy Rider), ormai prossimo al divorzio e deciso a sperimentare LSD, per la prima volta in vita sua, con la supervisione di un amico che gli fa da “guida”. Ulteriore perla: la sceneggiatura venne scritta da Jack Nicholson, sulla base di assunzione di LSD controllata da un gruppo di medici (e che fece parte dell’esperienza di Fonda, di Hooper e del regista stesso), ispirandosi alla vera storia che aveva portato Nicholson a divorziare dalla prima moglie (Sandra Knight).

    Vedevo fino in fondo al cervello… avevi ragione, è tutto nella testa.

    L’effetto dell’acido viene reso mediante un curioso gioco di caleidoscopi colorati, alternandolo con un girato allucinato di Fonda vestito in maniera diversa, all’interno di un esotico – e non meglio specificato – ambiente, caratterizzato da una spiaggia che velatamente vorrebbe omaggiare Il settimo sigillo di Ingrid Bergman. Non sappiamo se quelle esperienze furono effettivamente vissute e poi riprodotte sulla macchina da presa dal regista (come pare risaputo avessero fatto anche Kubrick e Noè, per inciso, girando rispettivamente 2001 Odissea nello spazio e Climax), o se si trattò solo di una manovra promozionale: comunque stiano le cose,  le immagini di Corman lasciano il segno – e rendono parecchio l’idea.

    È notevole come Corman abbia saputo destreggiarsi tra vari effetti psichedelici visuali, ben accompagnati dalle improvvisazioni dei The Electric Flag e di qualità davvero eccellente, considerando l’epoca ed il fatto che The trip è considerato un film low budget (costato appena 100.000 dollari, ne incassò ben 10 milioni al botteghino). Al netto della oggettiva pesantezza di alcune sequenze che appaiono davvero interminabili, è interessante come sia ricorrente il tema del sesso e del consumismo da un lato (simboleggiato da cartelloni luminosi, folla, ambienti cittadini e naturalmente tette), e quello della repressione dall’altro (gli incappucciati del trip, che poi “diventano” poliziotti probabilmente chiamati dal proprietario della casa in cui si era intrufolato). Corman non è Antonioni, ovviamente, ma il senso ribelle del suo film è puramente anni 60 (e permane ancora oggi, forse). Le esperienze raccontate, inoltre, puntano all’aspetto più vivido e realistico, ovvero rientrano in cose plausibili per chi sperimentava quelle sostanze (nella sua autobiografia The Lost Gospels, ad esempio, Al Jourgensen racconta un paio di episodi reali in cui, durante un trip, si era introfulato nelle case dei vicini credendo che fosse la propria, proprio come vediamo fare a Paul quando si ritrova a guardare la TV con una bambina).

    Soprattutto perché, al netto di un inizio di trip da autentico hippie (con una memorabile sequenza di “amplesso psichedelico” con la ex moglie), pian piano prende piede una sorta di coscienza di morte in Paul: tale mood è raffigurato da immagini dal sapore gotico di individui incappucciati che lo inseguono a cavallo e di altri oscuri figuri che, semplicemente, lo torturano. A quel punto Paul si risveglia nudo in piscina, attanagliato da un senso di minaccia e, in prenda al panico, abbandona la propria guida e si incammina per le strade, delirando. La trama del film è abbastanza difficile da raccontare, a questo punto, perchè continua a svolgersi su un doppio livello: Paul allucinato che rincorre mentalmente la donna da cui è ancora attratto (pagandone le conseguenze tra metafore di paure, sensi di colpa e via dicendo), e Paul nella vita reale che vive singolari esperienze fino ad incontrare un’altra donna, che (alla fine del viaggio) lascia un senso di parziale incompiutezza: il protagonista sembra sapere quello che vuole, a questo punto, ma un senso di vaghezza sembra impadronirsi del suo essere (il celebre “aspetta domani” pronunciato dalla donna). Il film si chiude su una singolare soluzione visiva (l’immagine di Paul che si spacca, come un vetro rotto), il che ne ricorda una analoga che userà Lucio Fulci nel finale di Paura nella città dei morti viventi.

    È molto significativa la sequenza del trip in cui Paul è seduto su una minacciosa sedia elettrica, e passa in rassegna varie fotografie collegate alla sua attività di regista: lo zio Sam, la bandiera USA, Sophia Loren. Quelle immagini, pero’, non significano nulla per lui, e lo afferma a chiare lettere, e quando inizia a discutere di pubblicità il focus sembra scivolare letteralmente sul meta-cinema. Il senso del discorso, che vede il protagonista alla fine su una giostra a discutere della propria vita con un hippie (che aveva conosciuto in precedenza) vestito da giudice, verte sul senso di colpa del protagonista e, in relazione al proprio divorzio, sul legame ancora vivido con la ex moglie – ma anche sulle responsabilità che non è disposto ad assumersi.

    Al netto del senso di disorientamento che il genere, di per sè, in questo caso non può fare altro che indurre anche nello spettatore – e con una solida regia alle spalle – The trip è una singolare gemma del periodo, un unicum da reperire ad ogni costo.

  • I nuovi mostri: il film collettivo a episodi che raccontava l’Italia anni 70

    Nel 1977 esce I nuovi mostri, sulla falsariga de I mostri e nuovamente incentrato su film costruiti a micro-episodi. Se il primo lavoro di questo tipo era stato diretto da Risi, questo è una regia collettiva, in cui curiosamente (ma non era insolito, per l’epoca) manca l’attribuzione degli episodi ai singoli registi coinvolti: Risi, Monicelli e Scola. Il film è stato anche recentemente proposto su Rai Movie qualche giorno fa, in una versione “intermedia” a livello di tagli, e come vedremo più avanti si tratta di uno dei film più arbitrariamente tagliuzzati dalla censura mai prodotti in Italia, e non è neanche chiaro se esista una versione realmente uncut.

    I nuovi mostri è anche l’espressione di un umorismo che stava cambiando nel cinema (e non solo lì): quello che all’epoca del suo omologo di metà anni sessanta era, al massimo, humor nero accennato ed implicito, qui si decide di renderlo esplicito. Nel 1974, ad esempio, gli USA avevano prodotto Fritz il gatto, anche lì un umorismo inedito e anti-moralista, destinato a fare scuola e a rendersi a suo modo memorabile. Certe forme di enfasi, peraltro, sono da sempre state considerate eccessive e fuori posto sia dalla critica media che dal pubblico, e questo sicuramente non ha sancito un successo che, probabilmente, il film avrebbe meritato. È quantomeno paradossale, nonostante tutto, che la critica dell’epoca denigrasse lo scarso valore sociologico degli episodi (che sono effettivamente più che altro riflessioni nichiliste sulla natura umana), che in confronto de I mostri di dieci anni prima è sicuramente difficile da paragonare.

    Il format in questione, per la verità, questa volta sembra reggere solo in parte: al netto di regie sempre solide ed efficaci, alcuni episodi sembrano “annacquati” ed appaiono quasi sconclusionati. Tant’è che la critica dell’epoca non si espresse in modo benevolo sul film, indicando al massimo un paio di episodi realmente memorabili (tra cui il pluri-citato Hostaria!), mentre il pubblico sembrò vedere il film con la stessa rapidità con cui lo dimenticò.

    Se una mancanza di ispirazione può per certi versi essere tollerabile (i film episodici con più registi ne soffrono quasi inevitabilmente, anche in altri contesti), quello che andrebbe valorizzato in questo film del 1977 è il sentimento anarchico che lega gli episodi, quasi da autentici Monty Python all’italiana, ed in cui è evidente che in molti degli episodi si sia alzata l’asticella dell’azzardo, dell’osare e di conseguenza del potenziale scandalo.Il film è questo, alla fine, ed esprime le proprie potenzialità in modo penalizzato anche per via dei tagli superficiali che, negli anni, impedirono di apprezzarlo come unicum.

    Gli episodi migliori de I nuovi mostri

    Come dimenticare L’elogio funebre con un incredibile Alberto Sordi? Il funerale apparentemente commosso e solenne del capocomico di una compagnia cede il passo al ricordo del repertorio dello stesso, che poi fa degenerare il funerale in un delirio di doppi sensi, battute di bassa lega e balletti, ed infrange uno dei tabù più classici: quello di ridere irrazionalmente durante le esequie di qualcuno, in omaggio ad uno dei cardini della Satira con la “S” maiuscola (che deride alternativamente politica, sesso, religione e morte).

    Senza parole è uno degli episodi forse più belli del film: una hostess a Fiumicino viene sedotta da un giovane mediorientale, mentre sentiamo due brani tipici di quegli anni per creare l’atmosfera (All by myself di Eric Carmen e Ti amo di Umberto Tozzi). L’amore sembra esclusivamente platonico e pare travolgere la donna, che riceve un mangiadischi con una delle due canzoni come dono: imbarcandosi poco dopo, provoca l’esplosione dell’aereo in volo dato che conteneva un ordigno. L’episodio è ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto, conclusosi fortunatamente senza vittime: con la stessa dinamica descritta nell’intreccio, fu un volo in partenza da Fiumicino ad essere bersaglio dell’attentato, che tuttavia fece in tempo a rientrare in aeroporto, a causa di un’esplosione nel bagagliaio qualche minuto dopo il decollo.

    Impossibile non citare, infine, Hostaria!, dove Gassman e Tognazzi interpretano il cuoco ed il proprietario di un’osteria tipica romana. I due sono estremamente litigiosi (e si capirà in seguito che sono una coppia) e, mentre discutono, continuano a preparare dei piatti che diventano disgustosi, in cui fanno cadere mozziconi di sigarette e scarpe: servono comunque quelle portate, e la clientela chic mostra comunque di apprezzarli.

    Gli episodi censurati de I nuovi mostri

    Il punto importante da inquadrare, a questo punto, è che la censura ha colpito duramente I nuovi mostri, e molti episodi, ancora oggi, si conoscono esclusivamente per le sinossi presenti su Wikipedia: quasi nessuno, di fatto, sembra averli visti. I nuovi mostri ad oggi, purtroppo, per la maggioranza degli italiani è una rubrica di Striscia la notizia, e ben pochi conoscono il film da cui quel nome è stato tratto quel nome.

    La censura è quasi sempre inaccettabile, in effetti, nella misura in cui decide arbitrariamente, sulla base di criteri del tutto soggettivi, cosa si possa vedere e cosa invece non si debba vedere – e ciò ha risvolti più pesanti di quello che sembra: in molti casi la censura ha colpito, in passato, cose ed aspetti sui quali oggi si sorvola tranquillamente. Del resto si tratta solo di film, ed il cinema non dovrebbe mai avere un ruolo troppo didascalico o “essere da esempio”, proprio perchè – citando il personaggio di Volontè in Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto – se ci convinciamo che il popolo è minorenne, diamo spazio a possibili espressioni di potere autoritarie e, soprattutto, quello che “ci va bene” censurare oggi, potrebbe rivoltarsi contro i nostri stessi gusti o preferenze un domani.

    Il vero punto critico del film è l’episodio Pornodiva: una storia amara e decisamente crudele, in cui una coppia viene ingaggiata per girare un porno contenente sesso con animali, e si scoprirà che arriveranno a coinvolgere la figlia di sette anni, con una piccola scimmia, per guadagnare il massimo dall’ingaggio. Non una storia per bambini, ovviamente, quanto molto realistica, che venne brutalmente rimossa nel passaggio televisivo, e a quanto pare anche in alcune versioni in DVD del film.

    Oppure pensiamo ad Autostop, dove Ornella Muti interpreta una avvenente autostoppista che viene molestata più volte dall’automobilista che le ha dato un passaggio, arrivando a fingere di essere evasa da un carcere femminile e di essere armata per difendersi. Senza troppi complimenti, a quel punto, l’uomo la uccide, facendo emergere un dramma di sessismo e prepotenza. Peraltro, resosi conto che la donna era disarmata, non mostra alcun rimorso davanti ai carabinieri (nella versione cut manca questo finale).

    Anche Cittadino esemplare è stato censurato ed è tremendamente incisivo, probabilmente inibito alla visione per via del suo pessimismo antropologico: vediamo un uomo assistere ad un delitto e rientrare a casa come se nulla fosse, gustandosi un bel piatto di amatriciana. Il sospetto è forse uno degli episodi meno efficaci del film, ma manca anch’esso da varie uscite in TV: si parla di un carabiniere infiltrato in un gruppo di contestatori dell’epoca, che durante un arresto di massa, propina una goliardica pernacchia contro il proprio superiore, venendo rimproverato bonariamente – e lasciando immaginare al pubblico cosa gli sarebbe successo se fosse stato un autentico contestatore.

    La cosa anomala del film, peraltro, è che molti episodi anche “innocenti” sono stati rimossi, forse perchè considerati inefficaci: molti italiani non hanno pertanto potuto godere dell’episodio Mammina e mammone, ad esempio, in cui Tognazzi è uno strepitoso caratterista che vive di espedienti. Stesso discorso per Sequestro di persona cara, in cui si evidenzia l’ipocrisia di un uomo a cui è stata rapita la moglie, che fa un appello accorato ai rapitori per riaverla indietro, quando in realtà aveva staccato i fili del telefono.

  • Metti, una sera a cena: amore e infedeltà secondo Giuseppe Patroni Griffi

    Film insolitamente popolare, e questo nonostante la profondità auto-indulgente dei temi che lo caratterizzano: il tutto grazie al successo della sua versione teatrale, ma soprattutto per la componente piccante che lo accompagnò. Metti, una sera a cena evidenzia così un mood che sembra il manifesto della decadenza, in particolare di quella che all’epoca si chiamava – secondo una terminologia oggi desueta – borghesia.

    Noto per essere stato l’esordio sia di Florinda Bolkan (che poi sublimerà la propria presenza in Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto e, forse soprattutto, nel fulciano e mai abbastanza lodato Non si sevizia un paperino) che di Lino Capolicchio (La casa dalle finestre che ridono), il film divenne celebre per i dialoghi concettuali e speculativi che molti, probabilmente, hanno più finto di capire che apprezzare e saper discutere. Diretto nel 1969 da Giuseppe Patroni Griffi, venne da lui sceneggiato sulla base di un suo omonomico copione teatrale, in collaborazione con l’allora esordiente Dario Argento.

    La scrittura del testo è drammaturgia elaborata e di concetto, che si basa su un’elaborata psicologia di fondo (o, alla peggio, una parvenza della stessa): un dramma concettuale improntato su cinque personaggi intorno ai quali si mostrano azioni (e soprattutto pensieri) rivolti all’ambito sentimentale e sessuale: da un classico menage a trois – fino ad un esacerbato ed ipotetico menage a cinq.

    “Il tuo amore è sporca prapaganda”

    Emerge in primis un complicato simbolismo figurativo, legato allo spettacolo teatrale di cui ricorsivamente Max fa parte per lavoro, il che si presta ad infinite elucubrazioni meta-filmiche, ma soprattutto per il dettaglio della bandiera nazista, con cui Ric si avvolge mentre dialoga con Nina. Si tratta forse di uno dei simboli più potenti e sottovalutati associati all’opera. È come se, in altri termini, l’unico coadiuvante erotico possibile (per quella borghesia pigra, viziosa ed avulsa all’amore sincero) fosse legata agli abusi, alla violenza, all’assolutismo. Simbolo reso ancora più esplicito dal fatto che si tratta della medesima bandiera con cui Ric, ad un certo punto, tenterà di suicidarsi. Si può certamente dire qualcosa in più del classico legame tra sesso & violenza: si può dire, ad esempio, che il sesso ha una valenza puntuale, risolve una noia di fondo dei personaggi e probabilmente smette, a momenti, di procurare piacere, essendo più un dovere da borghese che un sincerto impeto proletario (come dimenticare, a riguardo, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto della recentemente scomparsa Lina Wertmuller?)

    Anche l’idea classica che si tratti di “teatro borghese”, destinato ad un pubblico colto o per meglio dire presuntuoso, di fatto è smentita dalla pratica: proprio perchè il quadro che ne esce è, in fondo, tanto auto-indulgente quanto vanesio, inafferabile, difficile da formalizzare. Va specificato a chiare lettere che il film non possiede una forma narrativa troppo agevole: questo soprattutto per via del montaggio frammentato che lo rende, di fatto, sperimentale ad ogni latitudine. Molti, di fatto, lo troveranno pesante e difficile da cogliere in ogni sfumatura, soprattutto nel finale che è particolarmente criptico ed assume venature fataliste, probabilmente espressione di un senso di colpa radicato (Freud, Lacan, dove siete?). La lunghezza dell’opera in questo non aiuta, anzi da’ l’impressione di diluire e di non essere semanticamente indispensabile ma – come dire – il difetto più sostanziale dell’opera risiede proprio in questo.

    Cinema “da intellettuali”. o presunti tali

    Se è vero che la trama esibisce fin troppe forme di vezzi intellettualoidi e fumisterie assortite – ostentando una ricchezza di contenuto che non sempre trova riscontro nella sostanza – è altrettanto vero che il film funziona, specie se lo contestualizziamo in relazione all’era post-rivoluzionaria in cui uscì (1969). Funziona ancora oggi, a nostro avviso, in ottica provocatoria, un’ottica che un tempo avrebbero etichettato come piccolo-borghese, di un gruppo di persone edoniste, rigorosamente avulse dalla gelosia, che vivono le proprie relazioni come puro e semplice status sociale, senza neanche godersele. Anche se, in tutta onestà, quel finale speculativo e logorroico rischia di sembrare quasi inconcludente, perso tra allusioni più o meno esplicite a Platone, Omero e alla Cina dell’epoca.

    Il montaggio del film venne realizzato da Franco Arcalli, noto per lo stile non lineare che aveva utilizzato anche in altri film (Il portiere di notte, Zabrieske Point, Ultimo tango a Parigi e Se sei vivo spara). Qui  in effetti trova una sua collocazione ideale: non vediamo, infatti, la sequenza di eventi in modo coerente con la relazione causa-effetto: vediamo una sequenza di flashforward e flashback dai quali riusciamo a costruire la trama solo un pezzo per volta, per quanto il clou della storia appaia evidente a metà dell’opera.

    Ric, che ha probabilmente avuto una relazione anche con Max in passato, si è innamorato di Nina, e questo sentimento terrorizza e fa istintivamente ritrarre la donna. Che non è sessuofoba come la protagonista di Repulsion (tutt’altro), ma sembra intimorita dalla sincerità dell’uomo, dalla purezza di quel sentimento, che non viene pero’ mai idealizzato ma anzi, addotto a causa di mera infelicità collettiva. Tanto che poi il passivo marito di lei, Michele, quasi per riparare quell’infiltrazione lacerante, finirà per ricorrere al blob conformista che conosce meglio: invitare a cena Ric, facendolo così diventare uno di “loro”.

    Le musiche, indimenticabili ed altamente evocative, vennero firmate da Ennio Morricone.

    Tra decadenza e astrattismo

    Il rischio di un film del genere è quello di goderselo “per sentito dire”, perdendo di vista la logica comportamentale dei personaggi e la narrativa in ballo. Ma il punto probabilmente è proprio questo: alla base dell’opera vi sono vari concetti non ovvi (alcuni dei quali, francamente, sono più fumosi e salottieri che altro), derivati in parte dalla sociologia, dalla fanta-politica e dalla psicologia moderna – uno su tutti: accettare che i personaggi possano avere comportamenti illogici, perchè pensare il contrario è un retaggio tipico del pensiero retrò. Se accettiamo quest’ultimo assunto, il flusso narrativo diventa (forse) più agevole da decifrare.

    Ric, Max, Nina, Michele e Giovanna sono del resto, in senso figurato, puri adepti del culto della decadenza, il che viene testimoniato da frasi significative come, ad esempio, l’unica salvezza sta nel vizio. Il loro agire non è tanto basato sulla logica o sull’istinto, ma serve a scuotere il pubblico in maniera indiretta, giocando su vari sottintesi e suggerendo, in qualche modo, che più di qualcuno possa specchiarsi in quegli intrighi di amanti e gelosie malcelate. Tutt’altro che reali visto che si tratta di un film sperimentale, eppure tutt’altro che irrealistici, date le storie di “corna” – come la vulgata spesso racconta ad ognuno di noi in modo un po’ becero – che conosciamo tutti più o meno per sentito dire.

    La borghesia in cui si muovono i personaggi è mediocre quanto inebriata del proprio status, annebbiata da una visione nichilista sul matrimonio o, ad esempio, dal fatto che una madre non possa che essere madre single (da cui l’ossessione per l’idea, rivolta a Giovanna, di trovare un uomo che debba farle fare un figlio e poi scomparire). I personaggi sembrano comunque trascorrere più tempo a discutere che ad agire, e anche quando agiscono vediamo sempre il fatto compiuto: anche questa (oltre ad essere essenza del teatro moderno) è una cristalizzazione del pensiero in cui finzione e realtà, a momenti, finiscono per miscelarsi in una dimensione possibilista, perennemente erotizzata ed in tensione (per non dire meramente di facciata o ipocrita).

    Addirittura l’erotismo di Metti, una sera a cena è pura e insopportabile formalità: deve esserci, ma la regia sembra aver fatto di tutto per renderlo simbolico e scarsamente stimolante, per quanto poi i nudi di alcuni personaggi siano affascinanti, oltre che causa non indifferente di successo della pellicola.

    L’inutilità del mondo esterno

    Se l’intreccio del film, di per sè, deve moltissimo alla rispettiva forma teatrale (ai suoi spazi ridotti ed alla sua ambientazione quasi sempre collocata in un appartamento angusto, quasi inospitale), risalta molto una sostanziale inutilità del mondo esterno. Questo tema emerge in maniera indiretta fin da subito, a cominciare dalla sequenza del trio che guarda un incontro di pugilato in modo distaccato, e se a qualche spettatore potrà sembrare puro snobismo, serve a focalizzare l’attenzione su una trama che funziona accettando la succitata cristallizzazione dei pensieri dei protagonisti.

    Ai cinque personaggi della storia (Ric, Max, Nina, Michele e Giovanna) non serve altro: si nutrono di sè stessi, della propria capacità di maneggiare una sintassi elaborata quanto vuota, dei propri vezzi, delle rispettive attrazioni mal celate o mal espresse – conducendo nel contempo una vita pigra e orientata al pettegolezzo, alla passività e alla decadenza.

    Cinque solitari che giocano ad accompagnarsi nella noia

    I personaggi vivono un singolare status di solitudine sempre marcata e costante, poco cambia se si trovino in più di una tresca oppure, come Giovanna, siano tormentati ed irrigiditi dalla solitudine. Viene parzialmente in mente la figura de Il solitario di Ionesco, un romanzo breve del 1973 (dalla lettura, per inciso, abbastanza ostica) in cui il protagonista eredita una grossa somma da uno zio d’America, e decide così di ritirarsi a vita privata, abbandonando il lavoro dipendente. Il protagonista sembra proprio come il quintetto del film: scettico, disilluso, facile a stancarsi e stanco, uno che vive senza scopi, che lavora il meno possibile, e che trova rifugio nell’alcol e nel cibo, come i protagonisti che spesso vediamo a tavola, assimilati ad una ritualità puramente formale che, di fatto, espone i rispettivi vizi ed ipocrisie quotidiane.

    Vediamo così la figura di Nina (Florinda Bolkan), che si reca a casa di Ric, una sorta di artista bohémien, il quale si esercita (e si sfoga) sparando con una pistola contro una figura ritratta sul muro. Ric è stato scritturato dall’amante di Nina, Max, per ravvivare un rapporto clandestino che la donna considera scarsamente stimolante. Formalmente, poi, continua ad essere la moglie di Michele, un autore teatrale che sta immaginando, guarda caso che non è un caso, di scrivere un’opera incentrata su una relazione a tre.

    Al netto dei succitati (e ben noti) difetti, è da considerarsi un esperimento riuscito: lo è anche perchè i film derivati dal teatro sono raramente ben riusciti, e Metti, una sera a cena ha un peso specifico sostanziale e la propria importanza, per quanto recondita. Al tempo stesso è una forma seminale di cinema filosofico o speculativo a cui probabilmente molti autori, dal Von Trier di Melancholia e Dogville a Elio Petri, hanno finito per ispirarsi in un modo o nell’altro.

  • The imitation game è il film su Alan Turing che appassiona e commuove ancora oggi

    Alan Turing tenta di decifrare il funzionamento della macchina crittografica tedesca Enigma, con l’aiuto di un team di altri matematici. “The Imitation Game” è un film del 2014 che racconta la storia di Alan Turing, un matematico britannico che ha svolto un ruolo fondamentale nella decrittazione del codice Enigma tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale.

    In breve. La vera storia (sia pur romanzata, per certi tratti) del crittografo e matematico Alan Turing, considerato il padre putativo dell’informatica, e le cui speculazioni avvenieristiche sulla omonima “macchina” sopravvivono ancora oggi alla prova del tempo. Grazie al suo lavoro, il dispositivo elettromeccanico Enigma usato dai nazisti venne decifrato, impedendo di fatto il prolungamento della seconda guerra mondiale. Quale grottesco paradosso e tragico contrappasso, Turing venne condannato per omosessualità dal proprio governo, finendo suicida i propri giorni.

    Alan Turing, classe 1912, considerato uno dei padri dell’informatica nonchè matematico e crittografo tra i più celebri di ogni tempo: grazie ai suoi studi pioneristici sulla decifratura della macchina Enigma (un dispositivo elettromeccanico usato dai nazisti per trasmettere e ricevere messaggi) fu possibile anticipare la chiusura della seconda guerra mondiale. Non solo: la sua macchina di Turing, uno splendido quanto inossidabile modello teorico di dispositivo informatico, un archetipo su cui si può risolvere un problema di decisione di Hilbert e su cui, alla lunga, hanno finito per basarsi gli algoritmi che tutti conosciamo ed utilizziamo.

    All’epoca in cui è ambientato il film (che è un biopic in cui meno la metà degli avvenimenti – precisamente il 42,3% – è realmente accaduto, come studiato accuratamente dal sito informationisbeatiful.net), la parola ‘computer’ era un aggettivo riferibile ad una persona, non un dispositivo univoco come sarebbe avvenuto soltanto anni dopo. Alan Turing viene mostrato come personalità complessa e sensibile, appassionato del proprio lavoro oltre che runner ostinato (fatto storicamente accreditato, tanto che riuscì a correre una maratona nel 1946 in sole 2 ore, 46 minuti e 3 secondi). L’interpretazione del protagonista (Benedict Cumberbatch) fu talmente intensa, del resto, nel riprodurre una realtà storica in cui lo scienziato venne prima incensato e poi condannato per omosessualità e probabilmente indotto al suicidio, che l’attore che lo interpretò ammise, a fine delle riprese, di aver avuto una sorta di burnout. Peraltro le responsabilità politiche dell’epoca furono considerevoli nei termini di questa assurda condanna, che portò ad una riabilitazione e una grazia postuma solo nel 2013 non prima di averne ufficializzato la natura omofobica.

    L’unica persona che dovrebbe perdonare qualcuno è proprio Turing. Spero che il film possa portare alla luce quanto straordinario sia stato come persona, e quanto sia stato spaventosamente trattato dal governo dell’epoca. È stata una pagina vergognosa della nostra storia (Benedict Cumberbatch)

    The imitation game è diretto da una regia solida ed efficace (il norvegese Morten Tyldum), ruotando sul ruolo del protagonista mentre lavora in team (molto prima, in effetti, che farlo diventasse una moda effimera da startupper) alla ricerca delle chiavi crittografiche di Enigma, ricerca che lo scienziato cerca di automatizzare. Il limite del film è ovviamente nei suoi aspetti romanzati, che sembrano voler iper-personalizzare la vicenda umana mettendo in quasi in secondo piano l’ingiustizia politica e sociale nonchè le responsabilità del governo dell’epoca. Farne un film politico, del resto, sarebbe stato meno emozionale e quasi fuori tempo massimo, data la riabilitazione del personaggio Turing in tempi recenti, sia pur dopo molti anni dal tragico accaduto. Il Turing di Cumberbatch è l’archetipo del genio discreto, incompreso e valorizzato solo dai posteri, ai quali tocca l’ardua sentenza di giudicarne i meriti, nello specifico mediante un biopic sceneggiato sulla base del libro di Andrew Hodges Alan Turing, storia di un enigma.

    Non era agevole realizzare un film del genere senza romanzare le relazioni tra i personaggi, e molto di questo feeling umanizzato passa dal personaggio di Joan Elisabeth Lowther Clarke, personaggio realmente esistito e crittografa che sostiene il protagonista nei momenti più bui (interpretata da Keira Knightley). Dopo il successo dell’operazione Enigma, dopo aver superato mille diffidenze sulla propria scienza e coscienza, dopo essere stato eletto membro della Royal Society, avviene il breakdown: nel 1952 Turing viene additato dalle autorità come criminale, per via della propria omosessualità e nell’estremo paradosso di aver lottato contro i nazisti, ritrovandosi sulla gogna di un tribunale quasi equivalente a quello tedesco dell’epoca. Stando alla ricostruzione ufficiale, Turing morì nel proprio letto a soli 41 anni ingerendo una mela al cianuro, per quanto all’epoca il suicidio non venne neanche ufficialmente riconosciuto dalle autorità. Il suo modello di macchina di Turing ed il suo articolo pioneristico Computer machinery and intelligence del 1954 sono, ancora oggi, modelli riveriti e rispettati dai fatti per quello che riguarda la scienza informatica come la conosciamo e la utilizziamo ai giorni nostri.

    Il film The imitation game , uscito nel 2014, è disponibile in streaming gratuito su RaiPlay fino a fine 2021, e viene periodicamente trasmesso in TV.

    Di che parla il film?

    “The Imitation Game” è un film del 2014 diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. Il film si concentra sulla vita di Alan Turing, un matematico britannico noto per il suo contributo fondamentale alla decrittazione del codice Enigma durante la Seconda Guerra Mondiale. Il titolo del film, “The Imitation Game” (in italiano, “Il gioco dell’imitazione”), si riferisce al concetto centrale del film: la ricerca di Turing per creare una macchina che possa imitare il pensiero umano, una macchina che alla fine è diventata il precursore dei computer moderni.

    Il film esplora anche la difficile vita personale di Turing, incluso il suo status di omosessuale in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito. La sua storia è quindi un racconto sia di genio matematico che di lotta contro la discriminazione e l’intolleranza. L’opera è stata ben accolto dalla critica ed è stato candidato a diversi premi, vincendo l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 2015. Benedict Cumberbatch ha interpretato il ruolo di Alan Turing, e il suo lavoro è stato più volte elogiato per la sua interpretazione del personaggio.

    Ecco una panoramica della trama, del cast, di alcune curiosità e della produzione del film:

    Trama: Il film è incentrato sulla vita di Alan Turing, interpretato da Benedict Cumberbatch, dalla sua infanzia fino alla sua carriera adulta. La narrazione salta avanti e indietro nel tempo, mostrando i momenti chiave della sua vita. Gran parte della trama si concentra sulla sua esperienza lavorativa durante la guerra, quando è stato incaricato di decifrare il codice Enigma, una macchina crittografica tedesca considerata inarrivabile. Turing si unisce a un gruppo di matematici e crittografi a Bletchley Park, inclusa Joan Clarke (interpretata da Keira Knightley), per lavorare al progetto.

    Mentre lavorano contro il tempo e l’ostilità dei superiori militari, Turing e il suo team cercano di risolvere l’Enigma. Nel frattempo, il film esplora anche il passato di Turing, inclusa la sua difficile infanzia e il suo rapporto con la sua sessualità, che in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata nel Regno Unito, ha avuto gravi conseguenze sulla sua vita.

    Cast principale:

    • Benedict Cumberbatch come Alan Turing
    • Keira Knightley come Joan Clarke
    • Matthew Goode come Hugh Alexander
    • Rory Kinnear come detective Nock
    • Charles Dance come comandante Denniston
    • Mark Strong come Stewart Menzies

    Curiosità:

    • Il film è basato sulla biografia di Alan Turing, “Alan Turing: The Enigma” scritta da Andrew Hodges.
    • Benedict Cumberbatch ha ricevuto una nomination all’Oscar per la sua interpretazione di Alan Turing.
    • Il titolo “The Imitation Game” si riferisce al concetto centrale del film: la creazione di una macchina che può imitare il pensiero umano.
    • Alan Turing è considerato uno dei padri fondatori dell’informatica e della scienza dei computer, e la sua macchina Turing è un precursore dei computer moderni.
    • Il film esplora il trattamento ingiusto e discriminatorio che Turing ha subito a causa della sua omosessualità, e ha contribuito a sollevare l’attenzione sull’ingiustizia subita da Turing e da altri a causa delle leggi contro l’omosessualità nel Regno Unito.

    Produzione: Il film è stato diretto da Morten Tyldum e scritto da Graham Moore. È stato girato principalmente nel Regno Unito, tra cui Bletchley Park, il luogo storico in cui Turing e il suo team lavoravano per decifrare l’Enigma. “The Imitation Game” ha ricevuto recensioni positive da parte della critica ed è stato un successo al botteghino. Ha anche vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

  • Godsend: clonazione e identità

    Si tratta di un film del 2004 diretto da Nick Hamm. Il film è un thriller psicologico con elementi di orrore e fantascienza. La trama ruota attorno a una coppia che perde il loro figlio in un incidente tragico e poi accetta l’offerta di un medico di clonare il figlio defunto. La storia esplora le conseguenze etiche e emotive di questa scelta, oltre a presentare elementi di suspense e mistero legati alla natura della clonazione e ai segreti del medico.

    Il cast del film includeva attori come Robert De Niro, Greg Kinnear e Rebecca Romijn. “Godsend” è stato accolto in modo misto dalla critica, con alcune lodi per le performance degli attori ma anche alcune critiche per la trama e la sua esecuzione.

    Nel complesso, “Godsend” affronta temi complessi attraverso un mix di elementi psicologici, thriller e orrore, concentrando l’attenzione su come le decisioni scientifiche e morali possano avere conseguenze inaspettate e profonde.

    Sinossi del film

    Il film inizia con la famiglia Duncan, composta da Paul (interpretato da Greg Kinnear) e Jessie (interpretata da Rebecca Romijn), che vivono felicemente con il loro figlio ottantenne, Adam (interpretato da Cameron Bright). Tuttavia, la loro vita viene sconvolta quando Adam muore in un tragico incidente. Devastati dal dolore, vengono avvicinati dal Dr. Richard Wells (interpretato da Robert De Niro), un esperto di clonazione umana. Il dottore offre loro l’opportunità di clonare Adam e dare così loro la possibilità di avere di nuovo il loro figlio.

    La coppia accetta l’offerta e Adam viene clonato con successo. Tuttavia, la situazione si complica quando la nuova versione di Adam, chiamata Ethan, inizia a mostrare comportamenti inquietanti e inspiegabili. La famiglia si rende conto che il processo di clonazione potrebbe avere effetti imprevisti sulla personalità e il comportamento del nuovo Adam.

    Paul e Jessie cercano di scoprire la verità dietro il programma di clonazione del dottor Wells, e scoprono che il dottore aveva già sperimentato la clonazione su altri bambini, con risultati altrettanto inquietanti. Man mano che la situazione peggiora, Paul e Jessie si sforzano di proteggere il loro nuovo figlio da ciò che potrebbe nascondersi dietro il suo comportamento inquietante.

    La trama si sviluppa in un crescendo di suspense mentre la famiglia cerca di affrontare i segreti scioccanti che circondano la clonazione e i rischi che hanno accettato di correre. Il film esplora le sfide etiche e morali legate alla clonazione umana e mette in discussione la natura dell’identità e dell’anima.

    Cast del film

    • Robert De Niro nel ruolo del Dr. Richard Wells
    • Greg Kinnear nel ruolo di Paul Duncan
    • Rebecca Romijn nel ruolo di Jessie Duncan
    • Cameron Bright nel ruolo di Adam Duncan / Ethan
    • Jenny Levine nel ruolo di Barbara Clark
    • Deborah Odell nel ruolo di Elaine
    • Henry Czerny nel ruolo del Prete
    • Jake Simons nel ruolo di Max Shaw
    • Miko Hughes nel ruolo di Jake Duncan

    Spiegazione del finale

    Nel finale di “Godsend”, Paul e Jessie scoprono che il dottor Wells aveva clonato numerosi bambini in passato, cercando di creare una mente geniale ma con risultati disturbanti. I bambini clonati manifestavano comportamenti instabili a causa del tentativo di condizionamento del dottor Wells.

    Paul e Jessie cercano di liberare Ethan dall’influenza del dottor Wells. Nel culmine, affrontano il dottore nel suo laboratorio e una lotta fisica ne risulta. Durante la lotta, Paul accidentalmente uccide il dottor Wells. Rendendosi conto dell’orrore degli esperimenti del dottore, Paul e Jessie decidono di distruggere tutte le prove dell’esperimento bruciando l’istituto di ricerca.

    Nel finale, la famiglia cerca di ricostruire la loro vita lontano dall’orrore della clonazione e delle manipolazioni genetiche. Sembra che stiano cercando di iniziare una nuova vita insieme, affrontando le sfide come una famiglia unita.

    Il film si conclude sulla nota di speranza mentre la famiglia si impegna a lasciarsi alle spalle gli orrori del passato e a guardare verso il futuro.

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