Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Horror Hospital: il diario proibito di un collegio femminile

    Horror Hospital: il diario proibito di un collegio femminile

    Sintesi: un chirurgo pazzo sottomette alla propria volontà, con l’inganno di una vacanza rilassante, orde di hippy flaccidi. Ed un po’ rincoglioniti. E ricordate di lavare sempre i denti…

    In sintesi: mediocre prodotto settantiano, senza infamia e con pochissima lode. Questo è un film proveniente dagli anni ’70 che vede la partecipazione di Michael Gough nella parte del diabolico (?) Dottor Storm. E gli unici stormi che svolazzano in questo film sono i dubbi degli spettatori, che non potranno fare a meno di notare qualche incongruenza nel campo della medicina, della fisica e della logica. Se poi siete scazzati, senza pretese meta-filmiche e volete un’opera tutto fumo e pochissimo arrosto, giusto per soddisfare la vostra fame da cannibale di splatter, accomodatevi pure. In fondo è cosa buona e giusta anche questa, ogni tanto.

    Cosa succede in questo film? Un cantante rock sull’orlo di un esaurimento nervoso decide di andare in vacanza: cosa c’è di meglio di un castello sperduto in mezzo alla natura incontaminata? Sul treno incontra una giovane ragazza che si sta recando nello stesso luogo per avere notizie della zia: arrivati sul luogo trovano dei personaggi alquanto bizzarri, tra cui una signora nevrastenica, un nanetto ambiguo ed un folle chirurgo. Essi, si scoprirà a breve, non aspettano altro che di torturarli e di annichilire la loro volontà. Mentre i nuovi arrivati visitano la loro nuova residenza notano (epica l’espressione da ebeti con cui lo fanno) che in una stanza c’è un letto d’ospedale grondante sangue: invece di darsela a gambe, decidono di prenderla con nichilismo e rimangono beatamente dove sono. Il fatto è che ci sono delle priorità, e quella di tipo sessuale va in primo piano, al di là di qualsiasi istinto di sopravvivenza.

    Mettendo la parte la filosofia spicciola, la regia è abbastanza solida, e le riprese sono sempre all’altezza della situazione: peccato per gli interpreti non proprio brillanti (eccezion fatta per il mitico Dennis Price e per il succitato dottore) e per la trama molto, molto confusa. L’ambientazione non potrà non piacere agli amanti del cinema di genere degli anni ’70: colori forti (con predominanza del rosso), accenni di tensione ed oscurità. Il cast, invece, sembra uscito letteralmente fuori dal nulla, nel senso che si trova a recitare parti che probabilmente non erano nemmeno troppo chiare nella sceneggiatura: uno script che sembra improvvisato, tenuto insieme con lo sputo, e che presenta delle “pezze colorate” quasi sempre fuori luogo.

    Leggendari (da vero z-movie) alcuni dialoghi senza capo nè coda, tra cui ricordiamo il nanetto-custode dell’albergo che invita gli ospiti più volte di “ricordare di lavarsi di denti“, come se questa cosa dovesse far ridere o spaventare. Misteri. Non posso fare a meno di citare, poi, il sangue che esce dal rubinetto dell’hotel senza un contesto, una giustificazione o un riferimento che sia uno, e soprattutto che il diabolico Dottor Storm che è costretto da una sedia a rotelle durante tutto il film, tranne nel finale in cui saltella allegramente per il bosco con uno scatto degno de “Il maratoneta“.

    In sintesi: siamo molto lontani dal capolavoro, ma molto vicini al film divertente a basso costo che vuole dire tanto senza riuscire a dire granchè. Risparmio a tutti, prima che a me stesso, la trafila di retorica hippy sull’alienazione dell’individuo e sulla perdita di coscienza della generazione odierna. Film curioso, ma nulla più.

  • Autostop rosso sangue è quasi “Cani arrabbiati” 2

    Autostop rosso sangue percorre le spinose vie del cosiddetto “rape ‘n revenge” attraverso i suoi tipici temi improntati su cinismo e claustrofobia, avvalendosi di interpretazioni piuttosto all’altezza. In più, la conclusione della storia suggerisce un doppio finale davvero incredibile, che – come tradizione del genere a volte impone – finisce per ribaltare i ruoli dei vari protagonisti.

     In breve: una buona chicca nel panorama di genere all’italiana. Propone situazioni claustrofobiche e “stradaiole”, spesso molto crudeli ed esplicite. Piacerà ai fan di “Cani arrabbiati” di Mario Bava.

    Film crudele, dichiaratamente anti-eroico e manifesto dell’insensata cattiveria umana: narra la storia di una coppia di coniugi in crisi (Walter ed Eva, interpretati da Franco Nero e da Corinne Cléry), che cercano invano di risolvere i propri problemi durante un viaggio (vedi anche Vacancy). In giro con la propria roulotte, incrociano un autostoppista che, neanche a dirlo, non è altri che Adam Konitz (il David Hess de “La casa sperduta nel parco” e del cult “L’ultima casa a sinistra”). Quest’ultimo si spaccia per un commesso viaggiatore con l’auto in panne, mentre in realtà è un rapinatore che si porta dietro una valigia piena di dollari dopo aver miseramente tradito i propri compagni. Come se non bastasse, i reduci traditi sono già sulle tracce del criminale, e tutti giocheranno con la coppia come dei veri e propri burattinai.

    Il richiamo a “Cani arrabbiati” ci sta tutto, e chi conosce meno l’underground potrebbe pensare a “Duel” come termini di confronto: Campanile, nella sua unica incursione nel mondo del terrore (normalmente dirigeva commedie tipo “Adulterio all’italiana“) rappresenta come detestabili le caratteristiche più grette dell’uomo – ma anche della donna, a partire dal semi-alcolizzato e vagamente maniacale marito a finire al criminale in incognito, senza dimenticare l’imprevedibile Eva: rappresentata come una bambola senza cervello per tre quarti di film, paradossalmente determinante nell’uccidere il criminale dopo averlo sedotto.

    Walter è invece litigioso, egoista e quasi ubriaco: incapace di difendere se stesso, viene colpito nella sua debolezza più grande (il rapporto con la moglie) e costretto, in una scena pesantissima e lacerante, ad assistere addirittura al suo stupro. L’idea di avere a che fare con un film macho, nel quale la donna è un oggetto e le soluzioni devono trovarle gli uomini, sembra quindi perfettamente fondata fino all’agghiacciante – e stra-discussa – scena dello stupro, che contiene un ribaltamente assolutamente insperato ed insospettabile, e che stravolge radicalmente il senso della stessa. Grande importanza, poi, ha il rapporto tra i due, sulle cui incomprensioni si basa la brutalità di moltissime scene violente, che altrimenti passerebbero quasi indifferenti alla maggioranza del pubblico. In particolare, segnalo il dualismo tra l’atteggiamento rinunciatario delle vittime (vedi anche Funny Games) ed una sorta di masochistico compiacimento per la situazione (una caratteristica per la quale le accuse di sessismo alla sceneggiatura furono quasi automatiche). Del resto a Campanile piacque giocare coi doppi finali alla Dario Argento, e riserva una chicca finale che, a quanto pare, venne rimossa da alcune versioni del film perchè troppo anti-hollywoodiana. Forse non un capolavoro, ma certamente da tenere in considerazione per la propria videoteca di genere.

     

  • Unfriended: tra horror, webcam e social network

    Una videochat collettiva tra amici del college degenera, non appena un misterioso account si aggiunge alla conversazione, minacciando e seminando il panico.

    In breve. Per certi versi è uno dei migliori mockumentary sovrannaturali mai girati: narrazione pura, per quanto sia una sofferenza vederla relegata ad una minuscola chat, in molti passaggi, che viene puramente affidata ai social ed interamente ambientata dentro un computer (Youtube, Mac OS, Facebook, Skype come mezzi di comunicazione – e di condizionamento – del prossimo). Si lascia guardare fino alla fine, nonostante una parte visiva vagamente soffocante.

    Unfriended è l’horror ambientato dentro il computer, ovvero il Macbook Air della protagonista, Blaire: tutto inizia con la visione di un video snuff (il suicidio di una ragazza), una videochiamata al fidanzato su Skype, chiacchiere tra amici e così via. Quello che vediamo avviene sempre attraverso lo schermo della ragazza, e viene inesorabilmente filtrato dal computer. Nella videochat compare un utente che sembra un bot, immediatamente sbattuto fuori dai protagonisti, che pero’ rientra continuamente e sembra avere un atteggiamento inquietante. Dopo lo scetticismo iniziale, infatti, il villain non solo li minaccia, ma mostra di conoscere i loro segreti più imbarazzanti: video girati di nascosto, foto intime e via dicendo (se fosse una sorta di allegoria dei vari casi di revenge porn, sarebbe perfetta).

    L’idea di relegare l’intera dimensione narrativa alla chat di Skype può sembrare bizzarra, anche perchè si tratta di un film legato ai dialoghi, pochissimo all’azione (per quello che si vede, chi si muove troppo dall’inquadratura della propria webcam non avrà vita facile, nè lunga) e tanto alla parola (intesa come chat). Il punto non è tanto il come, ma il cosa: e per quanto questa presa di posizione possa sembrare fraccomoda per giustificare anche i più nefasti z-movie, è fondamentale per recepire ciò che questo mockumentary prova a trasmetterci. I cambi di scena, il montaggio, le sequenze e gli ammicamenti tra personaggi sono interamente affidati al multitasking: questo aspetto è interessante quanto originale, e va accettato a prescindere – altrimenti non si riuscirà ad arrivare alla fine senza maledire chi ce l’ha consigliato.

    Unfriended sostanzialmente funziona e tiene in tensione lo spettatore, nonostante finisca per essere paradossale (per non dire ricorsivo) che il pubblico guardi un film ambientato in un computer -usando a sua volta un computer: questo non aiuta a cogliere certe sfumature. Infatti è importante sapere che molti dettagli indispensabili per capire la storia sono affidati a minuscole chat – neanche tradotte in italiano, almeno nella versione che ho visto. Per cui, come si suol dire su La settimana enigmistica, aguzzate la vista – e in bocca al lupo, in un certo senso.

    Nonostante questo dettaglio che rende forse un po’ scomoda la visione, Unfriended resta un buon film – per quanto non sia un vero e proprio capolavoro del genere, è superiore alla media del sottogenere (che in molti casi sono riconducibili ad una sequenza senza logica di jump scares). Alla fine dei titoli di coda, per dire, nonostante le velleità forzose da film snuff e la buona caratterizzazione “spiritica” della storia, una scritta ci avvisa che tutti i personaggi citati non sono reali: insomma, abbiamo solo visto un film. Un po’ didascalico, secondo me – come a dire: ehi, abbiamo scherzato. Trovo questa cosa non proprio esaltante, e credo che questo faccia sospettare che sono passati i tempi in cui Wes Craven, con i suoi feroci saggi cinematografici homo homini lupus, era in grado di spaventarti fin dalla prima scena, anticipandoti che avresti visto “una storia vera” (che poi non era tale) e soprattutto facendotelo credere per decenni. Del resto qui, oggi, siamo su Facebook – e siamo più superficiali, sexy, presunti interessanti, meno interessati a queste storiacce e più ricchi di pregi di quanto vorremmo credere. Mi viene in mente anche un film più recente (sempre con la pretesa di essere una storia vera) quale Antrum, il quale cerca addirittura di convincere il pubblico che guardarlo possa materialmente nuocergli. Il tutto a testimonianza di come certo horror moderno debba, per forza di cose, prendersi sul serio, anche a costo di risultare greve o stucchevole. Per questo motivo, in definitiva, tantissimi parleranno per anni del film di Amito e Laicini, mentre probabilmente Unfriended, anche per questo suo auto-disinnescarsi, finirà per essere meno evocato e citato.

    Quello che non bisognerebbe fare, peraltro, è sopravvalutare lavori del genere (cosa che una certa critica nerdy tende a fare), quanto relegarli ad una più corretta dimensione sperimentale, quella di un horror che prova legittimamente ad aggiornarsi secondo le nuove tecnologie, con il rischio (consapevole, credo) di far venire il mal di mare allo spettatore. Per chi è abituato alle coreografie di Cronenberg e alle trovate di Mario Bava questo lavoro potrà sembrare fuori dal mondo, ma cambiano i tempi: se prima il mockumentary era The Blair Witch Project, oggi è probabilmente coerente (per non dire giusto) che il cinema dia spazio all’era social, e ne mostri le degenerazioni in questi termini. Se la mettiamo su questo piano, a questo punto, bisognerebbe per coerenza rivalutare (tanto per dire) Il cartaio di Dario Argento, che a certe soluzioni, come quella di mostrare gli omicidi in diretta webcam, era arrivato già nel 2004; opera pero’ – quest’ultima – ritenuta quasi unanimamente debole, proprio per via delle dinamiche argentiane più vivide sacrificate, in un certo senso, dai pochissimi (per l’epoca) pixel di una webcam.

    In Unfriended non sarebbe dispiaciuta un’alternanza frenetica (alla Rob Zombi, per capirci) tra scene dal vivo – magari in presa diretta – e videochat, ma rispetto comunque la coraggiosa scelta del regista, e devo riconoscere che gli spunti positivi non mancano: Unfriended offre, tra uno spavento e l’altro, una riflessione seria sul cyberbullismo, su come vivere il sesso online, sui rapporti “virtuali” e sul modo facilone di intendere internet da parte di molti giovani di tutto il mondo. Nonostante il taglio giovanilistico, gli ammiccamenti iniziali al cyber-sex ed alle goliardate alla Porky’s, la struttura narrativa è molto solida, visto che la situazione assurdamente claustrofobica tra i protagonisti offre l’occasione per metterne alla prova piccole ipocrisie, segreti e reali rapporti interpersonali. Forse Argento, all’epoca, non aveva abbastanza tecnologia per esprimersi (non ho trovato dati precisi in merito, ma con una webcam difficilmente si poteva andare oltre i 640×480 px), e sicuramente l’intuizione è stata giusta anche lì ed andrebbe, quantomeno, riconosciuto apertamente anche dalla critica.

    Unfriended (come l’originalissimo Cam, il sostanzialmente simile Smiley e mi viene in mente anche la bella trilogia di V/H/S) va relegato con massimo rispetto possibile all’indie horror a basso costo, riservato ad una nicchia che riusciremo ad apprezzare e capire completamente tra molti anni (forse), un po’ come è successo con la riscoperta dei b-movie anni ’70 ed ’80 da parte di Tarantino e Rodriguez.

    Sarà interessante scoprire, nel frattempo, come un lavoro del genere possa essere preso a modello per sviluppare qualcosa di nuovo che, ad oggi, è impossibile da immaginare: un Tron ambientato nel dark web? Un War Games attualizzato con smartphone? Un Brazil in cui le persone saranno schiavizzate da una tecnologie cloud? Anche solo per queste suggestioni, Unfriended meriterebbe di essere visto almeno una volta nella vita.

  • La sirenetta sovietica ci invitava a vedere le cose da due punti di vista diversi

    Di fronte a voi, signore e signori, la famosa sirenetta! Il modo in cui è stata scritta dal grande Hans Christian Andersen in una storia d’amore. Sì, signore e signori, ai bei vecchi tempi di Christian l’amore esisteva ancora. Queste stupide persone pensano che l’amore esista, e le sirene no! Ma io e te sappiamo che è l’esatto contrario! L’amore non esiste e le sirene sì.

    E tu sei pro o contro? Con noi o contro di noi? SDalla parte di X o di X primo?

    Sui social è sempre più comune imbattersi nel tipo di discussione polarizzante descritto, tra i primi, dai ricercatori Quattrociocchi/Vicini nel saggio Misinformation: già nel 2016, infatti, gli autori avevano colto le contraddizioni che portano alla formazione di opinioni (e alla fruzione di informazioni) da parte degli utenti di Facebook, Twitter e Youtube. Sono in gioco dinamiche del contagio e dell’influenza sociale, alimentando meccanismi per cui l’individuo forma la propria convinzione a prescindere dai fatti e facendosi condizionare dalla maggioranza .

    Gli autori avevano osservato che ogni discussione sui social, dati alla mano, tendeva a polarizzare le opinioni in modo binario, creando “tribù” di “pro” e “contro”, a prescindere dall’argomento di discussione, spingendosi a sostenere che il debunking non sia troppo utile alla causa, dato che le community su internet tendono finalmente a radicalizzare le opinioni (mentre chi legge una notizia antibufala su un fatto di cui è convinto finirà, in molti casi, per non cambiare idea, o addirittura esacerbare la fake news).

    La sirenetta ha cambiato colore (e non va bene?)

    Le discussioni su La sirenetta a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi erano un coacervo di presunta cancel culture, di culturina da 4chan, di atteggiamenti boomer e di grottesco allarmismo sociale. Del resto finivano per essere pilotate da persone autenticamente razziste – tanto razziste da porsi il problema (!) che un personaggio immaginario (!) fosse di colore, nel tentativo disperato di aizzare la folla e spingere ad un improbabile boicottaggio. Alle piattaforme social tutto questo è andato benissimo: è stata una garanzia di visualizzazioni e sponsorizzate, e poco importava che fosse una fiera contrapposizione tra democratici e repubblicani, tra razzisti vs antirazzisti, tra disneyani puri e disneyani revisionisti. Il tutto ha confermato il quadro binario “noi contro di voi, comunque vada” delineato in Misinformation. Questo genere di contrapposizione non è servita veramente nessun altro se non a sopravvivere della piattaforma stessa, un boicottaggio virtuale che è rimasto tale e che, al netto di titoli clickbait da cui siamo stati assilati per me, è servito solo a rimpolpare le casse delle aziende che hanno creato i social su cui quel “dibattito” avveniva.

    (Non) Mettere il lieto fine

    Quando uscì La sirenetta di Ron Clements e John Musker nel 1989 venne sancita la rinascita della Disney, tanto per restare in tema di rinascita per una multinazionale. All’epoca dell’uscita fu un gran vociare di recensioni positive, sia da parte della critica che del pubblico, e tutti si lasciarono incantare da quel film favolistico, spensierato e innovativo. E se nemmeno Roger Ebert ebbe nulla da obiettare a questo lavoro, le polemiche moraliste sulle presunte forme falliche tra le torri del castello, sulla prima copertina, si spensero progressivamente negli anni.

    Eppure quella versione de La sirenetta aveva un vero difetto, tutt’altro che urban legend: riusciva nell’impresa di perdersi sul finale dato che il soggetto era stato cambiato arbitrariamente, e fatto divenire puramente disneyano: la conclusione originale di Hans Christian Andersen venne rimpiazzata dal matrimonio della sirenetta con il principe (il che assume una valenza involontariamente grottesca se pensiamo alle accuse di aver rappresentato il prete che celebra quel matrimonio con una presunta erezione). Non sono mancate altre versioni della storia, che giocano con lo stesso mito della sirenetta e lo modernizzano e/o lo rielaborando in un altro paio di modi diversi. L’imposizione della regia, in questi casi, si colloca esattamente tra la scelta del finale originale (per “puristi”) e quella dell’happy end (per fan della Disney), e non è difficile immaginare qualche polemichella anche lì, nascosta nei social in qualche gruppo tematico, con qualche genitore indignato per il finale “cattivo”, con accuse di avergli traumatizzato i figli (la gente muore ma i bambini non devono saperlo: qualcuno salvi i bambini!) o in alternativa con il puro disincanto con cui tutti, generazione dopo generazione, abbiamo visto La sirenetta almeno una volta nella vita.

    L’opera originale del 1837

    La storia de La sirenetta venne scritta dal famoso scrittore danese Hans Christian Andersen, con titolo originale “Den lille Havfrue“: era il 1837, e Andersen si trovava nella condizione dolorosa dell’amante respinto, tragicamente accentuata dalla sua omosessualità. La sirenetta che perde la voce e non può parlare col principe (che così facendo alla fine non potrà innamorarsi di lei), finisce per essere un’allegoria dello stato d’animo dell’autore, cosa a cui il cinema non sempre ha reso giustizia.

    La risacca batte contro le rocce nere

    La vita è dura per gli umani, questa lotta eterna.

    Ma credo che, goccia dopo goccia, la tua vitalità tornerà,

    la prima goccia sarà la forza,

    la seconda sarà la gioia.

    Il bello non deve perire,

    il coraggioso non deve perire.

    Non dovrebbero, non dovrebbero morire.

    (La Sirenetta – regia di. Ivan Aksenchuk, 1968)

    Di più: il finale di Anderson era poetico quanto ambiguo, quasi dai tratti misticheggianti – e se è vero che la protagonista diventa schiuma di mare, al tempo stesso sopravvive come presenza eterea, destinata a diventare una prefigurazione dell’amore impossibile (quello vissuto dall’autore) da tramandare ai posteri. Non siamo poi così sicuri che si tratti veramente di una storia per bambini, se alimentiamo tale prospettiva parallattica. Perchè di parallasse si tratta, in particolare nel finale della versione sovietica del 1968 dell’opera, diretta da Ivan Aksenchuk e che propone due possibili interpretazioni dello stesso finale, che rimane sostanzialmente aperto.

    Che cos’è la parallasse

    Al fine di descrivere il funzionamento delle elezioni,  il filosofo sloveno Slavoj Žižek ricorre al concetto (mutuato dalla psicoanalisi di Lacan) di parallasse – la differenza tra ciò che crediamo o sappiamo su qualcosa e ciò che effettivamente accade. La spaccatura indotta dalla parallasse è lampante, ad esempio, quando un politico fa delle promesse in campagna elettorale salgo agire in maniera diversa una volta eletto. Žižek sottolinea più volte – il libro più completo che ne se ne interessa è La visione di parallasse – che la parallasse è una condizione costante, ineludibile,  che caratterizza la nostra esperienza soggettiva del mondo. Una volta si sarebbe detto: guardare oltre le apparenze, liberarsi della patina inibitoria dei nostri pregiudizi, rifiutando il costante obbligo a partecipare a discussioni stantìe e autocelebrative sui social, dove la realtà è 0 oppure 1 senza possibilità di sfumature e dove, naturalmente, lo zero è in lotta con l’uno.

    Rusalochka e il finale “doppio”

    Rusalochka è la versione de La sirenetta prodotta nell’allora URSS, anno 1968: dura appena 27 minuti, un nulla a confronto della versione disneyiana di fine anni 80 (che dura 1 ora e 22 minuti) e del revival in forma di musical del 2023 (che ne dura più di due).  L’opera è relativamente facile da reperire in rete, in Italia è comparsa come parte di un episodio nella serie Fiabe da terre lontane, distribuito dalla Avo Film nel DVD “La pentola magica“. Molto è stato scritto sul cinema di animazione russo di quegli anni, ed è interessante osservare che la narrazione prevede un finale doppio.

    Le opere brevi sono spesso difficili da decifrare, ma offrono l’enorme vantaggio di lasciare spazio alle riflessioni del pubblico: cosa che non succede con le serie TV e con le opere più lunghe di una certa durata, che molti casi tendono a dire tutto e a non lasciare spazio a possibilità ulteriori, doppi finali. Las viene spesso soppressa dalle opere più monumentali, e le varie fan theory che circolano per alcuni di questi lavori possono rientrare in una tentata visione parallattica (la nota fan theory su Mamma ho perso l’aereo, ad esempio).

    Il punto del finale aperto è cruciale: la parallasse del resto non nasconde verità segrete che sono note solo agli adepti (come avviene nelle teorie del complotto classiche), tantomeno invita a conformarsi alla visione più comune (come tende a fare il più delle volte implicitamente la cultura mainstream), ma invita ad oscillare, a saper accogliere punti di vista differenti dal proprio e discuterli, a vedere al di là dello spiraglio che ci propone una visione a prima vista di qualcosa. Da un lato, quindi, c’è il punto di vista dei pesci: la sirenetta è stata un’ingenua che sarebbe dovuta rimanere al proprio posto. Dall’altro, c’è la rivalutazione postuma da parte dei visitatori della statua a Copenaghen: questa storia non conosce confini, ed è la storia del coraggio, della saggezza e della gentilezza.

    E così, figli miei, è così che finisce la storia. La sciocca sirena voleva diventare un essere umano, ma come si suol dire, tutti dovrebbero conoscere il proprio posto (considerazione dei pesci).

    Questa, signore e signori, è una storia molto dolorosa,.triste, ma bellissima, una storia d’amore che non conosce confini. La storia del coraggio, della saggezza e della gentilezza. (considerazione della guida turistica)

    La versione russa de “La sirenetta” si distingue per la sua straordinaria animazione tradizionale. Gli animatori hanno saputo catturare l’essenza magica del mondo sottomarino, creando una serie di personaggi e scenari incantevoli. Ogni dettaglio è stato curato con grande precisione, dalle sfumature dei colori all’incantevole coreografia dei movimenti dei personaggi.

    E poi, quante possibilità avremmo di diffondere questa storia sui social e suscitare la polarizzazione da parte degli utenti di cui sopra?

  • La corazzata Potëmkin: trama, cast, analisi del film

    “La corazzata Potëmkin” (in russo: Броненосец Потёмкин) è un celebre film muto sovietico diretto dal regista Sergei Eisenstein e uscito nel 1925. Il film è noto per la sua importanza storica e cinematografica, ed è spesso considerato uno dei capolavori del cinema d’avanguardia e del montaggio cinematografico. La trama del film è basata su eventi reali, in particolare sulla rivolta della corazzata russa Potëmkin e dell’equipaggio contro gli ufficiali oppressivi nel 1905 durante la Rivoluzione russa. Il film racconta la storia della ribellione degli equipaggi e delle conseguenze che essa porta, inclusi momenti di violenza e oppressione brutale. “La corazzata Potëmkin” è noto per la sua straordinaria tecnica di montaggio e la sua capacità di creare tensione emotiva attraverso l’uso innovativo della cinematografia. Il film è stato influente nel campo del cinema ed è ancora oggi studiato e apprezzato per il suo contributo all’arte cinematografica.

    Titolo: La corazzata Potemkin (Броненосец Потёмкин)

    Anno di uscita: 1925

    Regia: Sergei Eisenstein

    Cast Principale: Il cast di “La corazzata Potemkin” è principalmente composto da attori sconosciuti, poiché il film fu realizzato con attori non professionisti. Non ci sono attori famosi nel cast.

    Storia: “La corazzata Potemkin” è un film muto sovietico diretto da Sergei Eisenstein. Il film è basato su eventi storici e rappresenta la rivolta dell’equipaggio della corazzata russa Potemkin contro gli ufficiali oppressivi nel 1905 durante la Rivoluzione russa. La storia si concentra sulla ribellione dell’equipaggio e le conseguenze che essa porta, inclusi momenti di violenza e oppressione brutale.

    Produzione: Il film fu prodotto dall’associazione di produzione cinematografica “Mosfilm” in Unione Sovietica.

    Stile: “La corazzata Potemkin” è noto per il suo stile distintivo, che include l’uso innovativo del montaggio cinematografico. Sergei Eisenstein è considerato uno dei pionieri del montaggio e del cinema d’avanguardia, e il film è un esempio chiave del suo lavoro. Il film presenta una forte enfasi sull’uso delle immagini per creare emozioni e messaggi politici, ed è caratterizzato da una struttura narrativa non lineare.

    Sinossi: Il film racconta la storia dell’equipaggio della corazzata Potemkin, che si ribella contro i loro ufficiali dopo essere stati costretti a mangiare carne infetta. La ribellione si trasforma in una rivolta contro l’oppressione più ampia e la corruzione dell’impero russo. Il film culmina con la famosa sequenza della scalinata di Odessa, in cui l’esercito apre il fuoco contro una folla di manifestanti innocenti.

    Curiosità:

    • “La corazzata Potemkin” è considerato uno dei più grandi capolavori della storia del cinema ed è un’icona del cinema d’avanguardia e del cinema politico.
    • La sequenza della scalinata di Odessa è una delle scene più famose nella storia del cinema ed è stata ampiamente citata e omaggiata in altri film e opere cinematografiche.
    • Il film è noto per il suo impatto sulla cinematografia e il montaggio, ed è stato studiato e apprezzato in tutto il mondo per il suo contributo all’arte cinematografica.

    Spiegazione Dettagliata del Finale con Pre-Avviso Spoiler: Il film si conclude con la famosa sequenza della scalinata di Odessa, in cui l’esercito russo apre il fuoco contro una folla di manifestanti innocenti. La sequenza è notevole per la sua intensità emotiva e il montaggio rapido delle immagini.

    Alla fine della sequenza, un’immagine iconica mostra un bambino morto e la madre disperata che tiene in braccio il suo corpo. Questa immagine simbolizza la tragedia e l’ingiustizia dell’oppressione e della violenza. Il finale del film è una dichiarazione potente sulla lotta per la giustizia sociale e la resistenza contro l’oppressione.

    “La corazzata Potemkin” è un film politico e viscerale che riflette l’ideologia e le speranze della Rivoluzione russa. La sequenza della scalinata di Odessa è spesso interpretata come una metafora della lotta del popolo contro le forze oppressive, e il film nel suo complesso rappresenta un appello per il cambiamento sociale e politico.

Exit mobile version