DENTRO_ (99 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • Perchè disegno sempre cubi?

    Perchè disegno sempre cubi?

    Perchè disegno sempre fiori? Perchè disegno sempre cuori? Perchè disegno sempre cubi? Perchè disegno sempre occhi? Perchè disegno sempre frecce? Perchè disegno sempre alberi?

    Abbiamo ricopiato i primi sei suggerimenti di Google qualora iniziate a cercare la frase “perchè disegno“.

    Come vedete Google aggiunge la parola sempre, e successivamente – in un delirio tecnico-onanistico di soddisfacimento dell’utente – si diverte a disseminare quella ricerca con vari termini. Pressappoco, le domande più frequenti sull’argomento fatte dai suoi stessi utenti, precedentemente memorizzate e qui riproposte. Restiamo seri per un attimo e distacchiamoci dal contesto puramente tecnologico o di marketing: ci chiediamo, ma scusate, che cosa ci spinge a disegnare? È una domanda serissima, in realtà. Google lo sa?

    Abbiamo un’idea, a questo punto. Che non sia un modo per comunicare con il nostro inconscio, disseppellendo desideri repressi, o magari – come certa psicoanalisi moderna a volte suggerisce – si arriva alla definizione del senso solo mediante tanti passaggi, da una forma all’altra, da un significante al prossimo, passando per domini diversi tra loro fino ad arrivare alla sudatissima… “verità”?

    Disegno sempre fiori, ad esempio, perchè ho un animo sensibile. Disegno sempre cuori, a questo punto, perchè desidero essere amato e sono probabilmente vittima di un qualche amore non corrisposto. Se disegno cubi desidero riorganizzare la mia esistenza, trovare gli scomparti scomparsi, rieleggere qualcosa o qualcuno a barlume della mia esistenza. Se invece disegno pupille di occhi, evidentemente, desidero sedurre l’Altro, trovare una persona con cui condividere un’intimità, guardarla dentro. Se disegno frecce – hai visto mai – possiedo un’aggressività latente. Se disegno triangoli sono perfezionista; se disegno alberi avrò volto lo sguardo all’origine stessa dell’esistenza, addirittura.

    Dare risposte così nette è quantomeno azzardato ed è impressionante come, ad oggi, nessuno si sia posto il problema delle risposte facilone ai problemi esistenziali; se sono spariti da Google i risultati di ricerca che suggerivano di curare col bicarbonato molte delle malattie più gravi, è davvero strano che non si sia usata la medesima cura per i problemi esistenziali. L’esempio è stato sfruttato come starter di un modo diverso di affrontare la questione che ci apprestiamo a mostrare qui, oggi.

    Lungi da noi, per intenderci, addentrarci nei meandri delle spiegazioni letterali o puntuali dei fenomeni: l’ottica sarebbe prettamente fuorviante, e potrebbe convincere qualcuno un metodo di auto-analisi che troveremmo, da profani, quantomeno improprio. Tantomeno possiamo eccedere all’opposto: se è vero che disegnare cilindri non presuppone necessariamente una mancanza di tipo fallico, così come disegnare spirali ne implichi una di tipo uterino, non possiamo cavarcela semplicemente con l’eccesso contrapposto di un qualche approccio olistico alla questione.

    Non è proprio il caso, tanto è vero che rigettiamo con forza sia le interpretazioni letterali delle cose che quelle fantasiosamente omnicomprensive, in grado di generare titoli ad effetto come “la mano invisibile del destino” o “la psico-analisi del mercato liberista“.

    Nel quinto libro di Jacques Lacan sulle formazioni dell’inconscio l’autore – psicoanalista, medico e rivoluzionario filosofo del Novecento – riprende il noto concetto freudiano del motto di spirito (Der Witz, in tedesco “lo scherzo”, traduzione neanche a dirlo letterale), e lo estende in lungo e in largo lavorando, soprattutto, sulla figura retorica della metonimia. Non c’è oggetto del desiderio che non sia metonimico, scrive Lacan, l’oggetto del desiderio è sempre oggetto del desiderio dell’Altro, di quello che manca attraverso l’Altro, di ciò che viene chiamato “a piccolo”, l’oggetto smarrito da ritrovare in fase di analisi. Il senso nasce, a questo punto, da una catena di sostituzioni, passando da un significante all’altro mediante passaggi successivi e dall’alto valore simbolico (nonchè metaforico). A questo punto un discorso non potrà, scrive Lacan, mai essere un “evento puntiforme”: esso non è fatto solo da mera materia e tessitura, ma anche da tempo, spessore. Prova ne sia che se inizio una frase, riuscirete a capirla soltanto dopo che io l’avrò davvero finita.

    E questa è in un certo senso una autentica condanna, dato che ogni discorso si porterà dietro “la ruota della macina” di parole, ed il discorso finirà sempre per dire più di quanto suggeriscano le apparenze. Motivo per cui, per chiudere il cerchio, è chiaro che le parole caricate da Google a titolo – e solo a titolo – di risposte a profonde domande esistenziali, o per dare soddisfazione alle ricerche annoiate di soggetti diversissimi che cercano “perchè disegno sempre ornitorinchi” e simili, debbano essere rivalutate nell’ottica di una concatenazione di sensi. Della serie: invece di fermarmi a considerare quella domanda, tanto varrebbe interrogarsi sulle origini, seguire la catena di associazioni mentali e provare, una buona volta, a trovare una risposta anche negli atti più semplici: passeggiare senza pensare, rinviare la risposta su WhatsApp al giorno dopo, non auto-riferirsi qualsiasi male dell’universo, respirare senza pensare continuamente al lavoro del giorno dopo. Attraverso l’analisi delle metafore che ci vengono suggerite dalla mente, sembra suggerire Lacan, sarà possibile trovare finalmente uno o più sensi a cui appellarsi. Il primo punto della nostra risposta al perchè disegnare, in effetti, potrebbe stare qui.

    Non proprio un approccio per spiegare la questione al bar tra amici, a meno che non siano tutti filosofi e psicoanalisti (e anche in questo caso non ci sentiamo sicuri del successo dell’idea), ma sicuramente performante nell’esprimere l’idea del nostro articolo di oggi. Che parte dalle ricerche bislacche e inconcepibili che Google suggerisce, e che cercano ed esprimono la necessità di trovare un “senso” mediante l’analisi di una singola, puntuale abitudine come quella di fare disegni in astratto mentre si fa una call col capo o si fa finta – rigorosamente – di lavorare.

    Nella struttura generale della frase Perchè disegno sempre X, dove X varia su un range sterminato che abbiamo voluto ridurre a cinque parole per amor di brevità, emerge un “sempre” che suggerisce un assolutismo, una generalizzazione probabilmente impropria: a meno che uno non sia seriamente problematizzato (cosa che potrebbe anche essere, in effetti) non sembra così comune che uno disegni “sempre” la stessa cosa. Non quanto le ricerche più frequenti di Google possano in tal caso suggerire, quantomeno. E qui si arriva, finalmente, al secondo punto importante del nostro discorso.

    La tendenza ad assolutizzare i bisogni è tipica del marketing tecnologico, come dimostrano i casi di funzionalismo puro da cui siamo martellati: le app per fare incontri, le app per ordinare cibo, le app per assolvere a qualsiasi compito, sia anche il più perverso o non confessabile. Motivo per cui, forse, certe risposte andrebbero trovare più dentro noi stessi che attraverso una tecnologia solo in apparenza gratuita.

    sigmund freud drawing a cube, DALL E

     

    Foto di copertina: a portrait of jacques lacan in modern, cubism style, DALL E

  • L’orrore del semplicismo

    Per qualche strano motivo questo blog si è posizionato, per diversi mesi, sulla ricerca “Lacan spiegato semplicemente” (con questo articolo). Come tutti i contenuti del sito, per inciso, è stato modificato e aggiornato varie volte, e mai c’è stata l’esplicita intenzione di posizionarlo su quella ricerca. Per cui non interessa troppo da un punto di vista della SEO tecnica quanto, più sottilmente, da quello del novero dei tutorial “X spiegato semplicemente“, con X variabile da “carbonara” a “filosofia zen”.

    X spiegato semplicemente è parte dello zeitgeist che stiamo attraversando, lo spirito di un tempo che aborre (come avrebbe detto Mughini) la complessità, e vorrebbe spingere il riduzionismo al punto di rendere elementare ogni concetto, ogni idea, ogni cosa, anche a costo di stravolgerne la sintassi o la semantica. Il frutto marcio di questo atteggiamento è spiegato almeno in parte dal semplicismo che spinge milioni di persone a seguire gli influencer più improbabili, che fanno del semplicismo bandiera. Viene in mente l’account Youtube dal nome How To Basic che, in tempi non sospetti – andiamo a memoria, almeno una decina di anni fa – propose uno dei tutorial fake più visti di sempre: un iPhone che veniva utilizzato per preparare una ricetta, per essere sbattuto nell’uovo, impanato, impastato e infine demolito a martellate (il video purtroppo sembra scomparso dalla rete, ed è stato rimpiazzato da un “how to basic” molto più serio). Era un video non sense che mescolava la manìa evergreen per i prodotti Apple (e la loro presunta “sacralità”) con quella emergente delle video-ricette, che spiegano passo passo e in modo semplice (aridaje) come preparare qualsiasi tipo di piatto. Quel canale prendeva in giro, a suo modo, la tendenza al semplicismo che la rete ha sempre preteso di avere, in fondo, e a cui nessuno che compaia nel mondo dei tutorial / how to sembra essere immune.

    Sono tantissime le persone che cercano spiegazioni comprensibili a cose per le quali non hanno tempo, voglia e modo di approfondire. Non mancano le suggestioni che arrivano da Google Suggest: stoicismo, induismo, buddismo, p value (sic), effetto serra, spiegati semplicemente. Vale anche per cose come il sesso, neanche troppo paradossalmente, come è possibile rendersi conto spulciando un po’ Google. Spiegare tutto in modo semplice – qualsiasi cosa significhi – è il mantra della rete e di gran parte di quella più pop, senza contare che secondo autori come Ceruti/Bellusci (nel saggio Abitare la complessità) il semplicismo può diventare una potenziale anticamera del populismo e della sua annessa normalizzazione.

    Il tema del semplicismo è stato trattato variamente in letteratura scientifica, e trova tra i suoi principali esponenti Paul Watzlawick e la scuola di Palo Alto: nel libro Change si riferisce la ricorrenza di quelle che gli autori chiamano “semplificazioni terribili“, le quali si riducono in nuce al meccanismo della negazione. Un meccanismo di protezione dell’Io variamente studiato dalla psicoanalisi, del resto, che qui trova espressione in forma duplice: non si tratta, infatti, solo di semplificare la complessità (il che spesso si traduce, a livello pratico, nell’aggirare le regole o negare i diritti altrui), ma anche di aggredire chiunque faccia notare il diniego. Una negazione che, spiegano gli autori, si traduce a più livelli, dato che si nega la complessità e al tempo stesso si nega di averla negata, il che in termini prettamente logici porterebbe ad una affermazione. Il semplicismo ortodosso, in un tragico e grottesco contrappasso, il più delle volte finisce puer per complicare o aggravare il problema originario, quando non generare frustrazione a più livelli (ad esempio se si partiva da preconcetti o ipotesi semplicemente sbagliate, senza riconoscerlo).

    Il ricorso al semplcismo nasconde una forma di negazione della complessità del mondo che, lungi dall’essere di nicchia, è molto diffusa e radicata in parte di noi. Invece di affrontare le sfide intellettuali con serietà e approfondimento, si preferisce “sbrigarsi”, riducendo ogni argomento a qualcosa che, proprio per la sua superficialità, diventa più facile da digerire. Ma questa facilità è ingannevole. La spinta del semplicismo non è innocua e non andrebbe sottovalutata. Il rischio è che, a forza di semplificare, ci priviamo di ciò che conta.

  • Guida pratica alla società senza memoria

    Immagina un mondo in cui il passato evapora, un mondo in cui ogni mattina è una pagina bianca e la memoria una reliquia inutile, vivi il presente come un sussurro costante, non c’è storia, non c’è identità, solo flussi infiniti di dati che si cancellano, costruire una società senza radici non è un paradosso, è un metodo, e questa guida è la mappa per camminare in un tempo che non lascia tracce, sei pronto a dimenticare per davvero?

    “Guida pratica alla società senza memoria” potrebbe essere un titolo evocativo per affrontare il tema del progressivo declino della memoria collettiva nella società contemporanea. Potremmo strutturare questa guida per analizzare le cause, gli effetti e le possibili strategie per contrastare tale tendenza.

    Ecco una possibile traccia:


    Guida Pratica alla Società Senza Memoria

    1. Introduzione

    • Cos’è una società senza memoria?
      • Definizione e implicazioni.
      • Il ruolo della memoria collettiva nella costruzione dell’identità culturale.
    • Perché questo tema è importante oggi?
      • Velocità dell’informazione e cultura dell’oblio.

    2. Le Cause del Declino della Memoria

    • La tecnologia e l’oblio digitale
      • Dominio dei social media e frammentazione dell’attenzione.
      • L’archiviazione infinita come paradosso: troppi dati, poca memoria.
    • La perdita delle tradizioni
      • Globalizzazione e omogeneizzazione culturale.
      • Diminuzione della trasmissione orale e delle pratiche rituali.
    • Educazione e memoria storica
      • Programmi scolastici impoveriti.
      • Focus su competenze tecniche a scapito della formazione umanistica.

    3. Le Conseguenze della Dimenticanza Collettiva

    • Crisi identitaria
      • Smarrimento delle radici culturali e storiche.
      • Difficoltà a riconoscere errori passati per evitarli in futuro.
    • Manipolazione e disinformazione
      • La vulnerabilità a fake news e revisionismo storico.
    • Disinteresse per il futuro
      • Mancanza di una visione a lungo termine.

    4. Strategie per Ricostruire la Memoria Collettiva

    • Promuovere la consapevolezza storica
      • Valorizzare le celebrazioni e le commemorazioni.
      • Investire nella ricerca storica e nella divulgazione.
    • Innovare il sistema educativo
      • Includere l’educazione storica e culturale in modo trasversale.
      • Utilizzare la tecnologia come strumento di memoria, non di oblio.
    • Coinvolgere la comunità
      • Progetti locali di raccolta e condivisione delle memorie (archivi di quartiere, podcast, documentari).
      • Incentivare il dialogo intergenerazionale.

    5. Conclusione

    • La memoria come bussola
      • L’importanza di un equilibrio tra passato e presente.
      • La memoria non è solo un bagaglio, ma uno strumento per costruire un futuro più consapevole.

    Ti piacerebbe che sviluppassimo insieme uno dei punti di questa guida o che arricchissimo il contenuto con esempi pratici e consigli concreti?

     

  • Essere sapiosessuale

    Una volta un amico mi ha confidato di “essere sapiosessuale” – di sentirsi attratto da partner con cui possiede interessi in comune in termini culturali. Il sapiosessuale è infatti attratto dal cervello dell’altra persona, al punto di sognare di farlo proprio, di farselo, di renderlo organo sessuale.

    Il concetto mi sembrava affascinante e, qualche mese dopo, mi è capitato di metterlo alla prova: per mesi ho frequentato assiduamente una collega con cui vado molto d’accordo e c’è tuttora intesa mentale considerevole. Ogni aspetto del reale era motivo di confronto, diventava la scusa per parlare di libri, di film, di musica; per raccontare di noi, aprirci l’un l’altro. E poi condividere conoscenza, raccontarci storie, essere trasparenti, sinceri l’uno con l’altra, infarcite di autori che avevamo letto e cose che avevamo studiato. Sembrava il preludio di una delle più belle storie sapiosessuali mai raccontate, ma non è andata come si sperava: la persona in questione si è rivelata più attratta dai miei ragionamenti che da me, e il suo interesse era sinceramente lavorativo e non sentimentale o sessuale. L’altra persona che parlava di sapiosessualità, del resto, non ha mai esibito troppa cultura con la propria compagna, anzi ha sempre insistito su un registro colloquiale anche piuttosto banale, stantìo, nulla di elaborato. Mi venne il dubbio, a quel punto, che la sapiosessualità di fatto non esista, o al limite che si tratti di un modo per abbellire la propria narrazione emotiva (nulla di male nel farlo, intendiamoci).

    Di per sè, se andiamo ad indagare, la sapiosessualità sembra un neologismo senza alcun fondamento scientifico, al contrario di altri fenomeni come la demisessualità che sono attualmente allo studio. Può anche darsi che in futuro vengano fatti studi approfonditi anche sulla sapiosessualità e si possa saperne di più, ma ad oggi è bene sapere che il termine “sapiosexualcompare sul web sul finire degli anni Novanta, sul blog dell’utente con nickname wolfieboy. L’autore si considerava “entusiasta della sapiosessualità“, e del fatto “che parecchie persone stiano annoverando la sapiosessualità come interesse“. Nel blog, l’autore si attribuisce di aver “inventato” questato parola nel 1998, a seguito di una discussione con una blogger (nickname Jadine), con cui – in era pre-social / web 1.0 – era solito comunicare e scambiarsi idee.

    La sapiosessualità veniva definita da wolfieboy come un qualcosa di diagonale rispetto al sesso biologico, dato che (scrive l’autore)

    Non mi interessa molto “l’impianto idraulico”

    nel senso che non gli interessava il sesso del partner, probabilmente. L’autore specifica poco dopo la propria lista della spesa in fatto d’amore:

    Vorrei una mente incisiva, curiosa, perspicace e irriverente. Qualcuno per cui la discussione filosofica sia un preliminare. Qualcuno che a volte mi faccia venire il voltastomaco per la sua arguzia e il suo senso dell’umorismo maligno. Qualcuno che possa raggiungere e toccare dove capita. Qualcuno con cui potermi fare le coccole.

    Ho deciso che tutto ciò significa che sono sapiosessuale, conclude in modo lapidario.

    Se ammettiamo che questa dichiarazione possa essere una sorta di “manifesto” della sapiosessualità (termine popolarizzato ulteriormente, per inciso, dalla scrittrice erotica Kayar Silkenvoice), bisognerebbe premettere che quella wishlist interminabile di desiderata per un partner sia probabilmente irrealistica. Questo anche solo per il fatto che si basa su una lista della spesa discorsiva, poco applicabile alla realtà, e perchè – da che mondo è mondo, diremmo – ognuno trova i partner che trova, senza programmi, senza scadenze e soprattutto se li trova. Questo ci riconduce a pensare il problema della sapiosessualità in termini cognitivi, perchè sembrerebbe plausibile che si tratti di un paravento, un bias cognitivo che ci risparmia di fare i conti con la realtà e la sua irriducibilità ad una formula matematica. Molto più semplice pensare, per intenderci, che sono un/una nerd incallita e voglio un/una nerd incallita come me.

    Viene altresì il sospetto che la sapiosessualità possa essere un costrutto sociale, dai tratti molto semplicistici nel suo concepimento, in netta opposizione alle caratteristiche sfuggenti della realtà in cui viviamo. Una realtà in cui – lo sappiamo bene – è complicato trovare un partner adeguato, soprattutto (ma non solo) in pianta stabile e se le nostre esigenze cozzano con le tendenze maggioritarie della società. Molti trovano subito in modo spontaneo nonostante varie disregolazioni emotive e caratteriali, altri lavorano su se stessi per anni senza trovare nulla. Questo aspetto è fonte di sofferenza per tanti, e spiega il discreto successo di cose come i corsi di seduzione online che, il più delle volte, si prefigurano come saggi incel riduzionisti per maschi bianchi etero. Sono dotati di dialettica argomentativa accattivante quanto semplificata, che sia in grado di catturare la mente delusa del single, ma non rendono (ed è questo il loro limite sostanziale) l’idea della soggettività dell’incontro, dell’irripetibilità della circostanza, della risonanza del contatto fisico e forse neanche della possibilità che possano esistere molte forme di amore, tra cui quelle non necessariamente sessuali. Non è poco, ed è sempre meglio di nulla per chi non trova davvero nient’altro. Viene insomma il dubbio che dire “sapiosessuale” sia un travestimento emotivo per suggerire alle persone che “mi considero degno e voglio una persona degna come me“. Vale la pena seguire la falsariga dell’anti-semplicismo e provare a capire meglio dove ci porta, a questo punto.

    Nel saggio “Abitare la complessità” Mauro Ceruti e Francesco Bellusci evidenziano come sia cresciuta, negli ultimi anni, la diffidenza generale nei confronti della complessità del reale, in favore di una tendenza a trovare una logica forzosa in ogni cosa. Al netto dei complottismi che giustificano sempre qualsiasi cosa, si finisce spesso per applicare criteri brutalmente cartesiani ad un mondo che, di suo, rifiuta questa categorizzazione, perchè è troppo sfuggente e complesso perchè si possa esprimere in termini deterministici. Gli autori si spingono a scrivere, in merito, che

    il semplice non esiste, ovvero è sempre il semplificato

    nel senso che qualsiasi schema mentale applichiamo alla realtà rivela null’altro che la nostra utilità, ciò che a noi serve, o anche la nostra ansia nell’accettare o meno quella benedetta complessità. Complessità che, a sua volta, non vuole essere sinonimo di complicanza, bensì rilancia la propria effettività in favore di scelte operate, in risposta alla giungla del reale, in maniera più flessibile, dalle conseguenze imprevedibili e non per forza funzionali ad una narrazione preconcetta.

    “La prima regola del club di Dunning–Kruger è che non sai di farne parte” (D. Dunning).

    Al tempo stesso, gli studi di David Dunning e Justin Kruger avevano analizzato ad inizio anni Novanta un campione di studenti universitari che sostenevano un esame, osservando un singolare fenomeno: la performance media effettiva, a confronto di quella auto-percepita, tendeva a presentare un divario sostanziale. Più nello specifico, sembrava che i meno studiosi tendessero a sopravvalutarsi e, al contrario, quelli con voti più alti a sottovalutare le proprie capacità.

    Un fenomeno dai tratti grotteschi che i due autori citano nel proprio articolo “Non qualificati e inconsapevoli: come le difficoltà nel riconoscere la propria incompetenza portano a autovalutazioni esagerate“, diventato un vero classico del pensiero razionale, dello studio dei bias cognitivi e del debunking in genere. Chi riferisce la sapiosessualità come una caratteristica di se stesso e del proprio potenziale partner (o meglio, del proprio io ideale e della proiezione idealizzata del futuro partner) potrebbe essere parte del club di cui nessuno è consapevole di essere, quello di Dunning e Kruger: potrebbe insomma considerarsi più intelligente di quanto non sia, e sovrastimare le doti del (o della) partner.

  • La questione di genere dentro Nosferatu di Robert Eggers

    Per l’osservatorio EIGE qualsiasi questione di genere può essere definita come qualsiasi questione o tematica determinata da differenze basate sul genere e/o sul sesso tra donne e uomini. Non è atipico che questa tematica venga riprodotta all’interno del recente horror di Eggers, diventando oggetto di una vera e propria sottonarrazione rispetto alla trama principale. Da sempre – e un po’ meccanicamente – si considera Thomas Hutter, agente immobiliare inviato nel castello del conte Orlok per fargli firmare un contratto, il vero protagonista della storia in sè. In realtà nella versione di Eggers è anche Ellen a relegarsi un ruolo di protagonista duale, rispetto alle vicende sanguinose che vengono richiamate nella trama e per l’aspetto legato proprio al sangue: del resto il sangue è vita, e sarà mia, viene ripetuto da McBurney (il capo di Thomas) più volte. (attenzione: il saggio contiene spoiler della trama)

    Inizialmente vediamo la città di Wisborg, in Germania, con Ellen che sembrerebbe vivere felicemente assieme al marito Thomas Hutter. La relazione tra i due viene delineata come profonda, toccante e romantica, ma suggerisce anche implicitamente che non sia una relazione fisica: i due coniugi sembrano non avere tempo e/o modo di avvicinare troppo i loro corpi, vuoi per il lavoro frenetico di Thomas (che arriverà in ritardo dopo essersi trattenuto in effusioni con la moglie), vuoi per una relazione di stampo tradizionalista improntata sull’inibizione reciproca, vuoi perchè (dice apertamente Thomas, ad un certo punto) non potrebbero mantenere un eventuale figlio, cosa che invece possono tranquillamente la coppia benestante di amici (che ne hanno anche un terzo in arrivo). Ellen appare intrappolata in questa visione angusta della relazione e della sessualità, e infatti la vive in maniera controversa: la prospettiva che Thomas vada via per un lungo viaggio la turba, riferisce terribili incubi (uno davvero spaventoso: sogna di sposare la Morte in persona, di voltare le spalle all’altare e constatare che tutti gli invitati sono deceduti all’improvviso), ma viene costantemente minimizzata e quasi ostracizzata nel manifestare il malessere interiore. È il tema legato ad ogni questione di genere: la donna come eterna Cassandra, condannata a non essere creduta nelle proprie affermazioni, che il pubblico sa avere un fondamento. In un momento storico in cui la psicologia e la psichiatria erano ancora ai primi passi, di fatto, non meraviglia che Ellen dopo alcune crisi di sonnambulismo venga semplicemente legata al letto, e solo l’atteggiamento progressista di Von Franz (che evoca grottescamente conoscenze occultistiche nel farlo) la libera da questo gioco.

    Vale la pena di osservare che Ellen ad un certo punto avrà una discussione con il ricco amico del marito, accusando l’uomo di essere responsabile del contagio della peste nei confronti della moglie di lui: l’uomo si limita a richiamare la donna all’ordine, e a restare al suo posto. Ellen non sembra disposta a farlo e, a quel punto, finirà per inseguire il proprio destino che è quello di redimere l’umanità con il suo sacrificio. Nel frattempo Thomas proverà gelosia per le intenzioni del Conte Orlok e si precipiterà a casa, una volta evaso disperatamente dal castello, per evitare di farli incontrare. Tuttavia la connessione tra Ellen e il villain della storia è soprattutto mentale, prima ancora che fisica, al punto che Ellen anela inconsciamente ricongiungersi al conte – con cui, si scoprirà in seguito, ha avuto una storia da giovane. Questa rivelazione cambia radicalmente il rapporto tra i due, facendolo diventare apertamente conflittuale ed instillando il sesso nella relazione nel modo più diretto: in una sequenza che non sappiamo essere o meno condizionata dall’influsso a distanza del conte, Ellen viene posseduta con brutalità dal marito (in modo traumatico per lo spettatore, che non si aspetta un’evoluzione del genere), in funzione della gelosia che prova e della “minaccia” che possa avere un rapporto con il conte. Il vampiro portatore di peste arriva, finalmente, a casa di Ellen, assicurandosi che il patto firmato subdolamente dal marito di lei venga rispettato: la terza notte la donna accetta, ma ha già concordato il proprio sacrificio con Von Franz, l’unico a conoscere le sue intenzioni. Così mentre Von Franz, Sievers e Thomas trovano Knock nella bara del conte e danno fuoco al rifugio del conte per garantire che possa scomparire con la luce del sole, non avendo più dove nascondersi, Ellen si concede al conte più volte, per tutta la notte. Continuerà a ripetere “ancora” e a farsi mordere alle prime luci dell’alba, stremata e morente, consapevole di aver salvato il mondo con la sua prima (e autentica) libera scelta.

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