BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Ultracorpo: una fantascienza intelligente che riflette sulla discriminazione di genere

    Ultracorpo: una fantascienza intelligente che riflette sulla discriminazione di genere

    Umberto lavora come idraulico, è il classico “uomo medio” insicuro e al tempo stesso affetto da machismo, il quale soddisfa la propria sessualità barcamenandosi, con pochi soldi, tra prostitute e pornografia. Per pura necessità un giorno finisce a casa di un ragazzo all’interno di un quartiere popolare: questi è omosessuale dichiarato, e la situazione provocherà una forte mutazione interiore…

    In breve. Interessante cortometraggio thriller cosparso di citazioni (a partire ovviamente dal cult dei celebri body snatchers, e finendo con una rappresentazione dell’orrore interiore da vero cinema d’autore), viene proposto come forte atto di denuncia anti-omofoba. Non tutti i personaggi sono curati con la stessa intensità, ed esiste per la verità qualche pecca a livello narrativo: ma il risultato colpisce dritto nel segno ugualmente, pur contenendo una sola vera sequenza allucinatoria riconducibile all’horror. Il resto è psicologia, e riesce a fare molta più paura.

    All’interno del mercato globalizzato e conformistico all’italiana, una ventata di aria fresca fa sempre piacere. E questo piccolo gioiello del regista Michele Pastrello certamente riesce ad andare orgogliosamente (e con intelligenza: non era facile) in controtendenza rispetto al “volemose-bene” che regna sovrano da diversi anni nelle nostre distribuzioni più grosse, riuscendo a farsi carico di un importante messaggio sociale senza alcun appesantimento. Film tecnicamente notevole, dotato di una fotografia suggestiva e tipicamente metropolitana, Ultracorpo parte da una celebre citazione del quasi omonimo film per arrivare a collegare, in modo forse prevedibile, il “baccello” alieno con una trasformazione interiore del protagonista. Una mutazione facile da indovinare, così come non sarà difficile intuire lo sviluppo delle vicende: un uomo come tanti, vittima delle proprie assurde convizioni che viene sopraffatto dal lato oscuro del cambiamento, e finisce per cambiare per sempre. Un passaggio che merita una visione per sua fortissima attualità: perchè la solitudine di Umberto, costellata di cura per il corpo nella palestra di casa e istinti repressi che tardano ad uscire fuori, esplode nella violenza nel modo più inatteso, e lascia un messaggio forte e chiaro. Un qualcosa che, nell’Italia delle aggressioni facili contro i “diversi”, lascia svariati spunti di riflessione.

    Il mio nome è Umberto. E sta succedendo qualcosa in me. Sì, c’è qualcosa che non va. Non ho un soldo in questi tempi di crisi, vivo in una vecchia casa che mi ha lasciato mia madre e devo accettare qualsiasi sporco lavoro pur di non sprofondare. Ma lì, in quel cesso di posto non dovevo andarci, non dovevo accettare. Maledetti soldi. Ora sono qui, con lui. No, ora se n’è andato, ma sento che i suoi occhi continuano ad osservarmi. Ce ne sono altri come lui in giro, ti attraggono a loro, l’ho capito ora ma non mi faccio ingannare. Sento che vuole il mio corpo: sento che può entrare. E’ un incubo. Devo rimanere sveglio e all’erta.

  • Strange Circus: un trip filmico tra cosa è reale e cosa non lo è

    Una storia cattiva e ricca di shock emotivi per un ennesimo, incredibile, film sui generis.

    In breve. Riduttivo definirlo horror: un film completo, coinvolgente e altamente disturbing (sfido chiunque a proseguire la visione entro la prima mezz’ora). Per il pubblico dallo stomaco d’acciaio, s’intende, un’opera perfetta e riuscitissima, che metaforizza l’esistenza come se fosse un’esibizione circense. Da giudicare dopo averlo visto per intero o, in alternativa, rinunciare del tutto all’impresa.

    Dopo aver assistito a quello che molti indicano come il capolavoro spiazzante di Shion Sono, non mi sento in piena coscienza di consigliare questo film al primo che passa per la strada. Non che sia brutto, intendiamoci, ma è davvero una cosa che tocca le viscere per la sua crudeltà. Un po’ come avvenuto per Il centipede umano e per A Serbian Film – due “pugni nello stomaco” tutto sommato visionabili con qualche precauzione; qui siamo di fronte ad un film che esprime l’eccesso della violenza domestica, espressa in tutte le forme possibili (padre-figlia, madre-figlia, padre-madre). Il contorno grottesco delle figure circensi, del resto, servono molto poco a creare un clima caricaturale, perchè nessuno – credo –  avrà niente di cui sorridere per circa due ore. Soprattutto in Italia, dove siamo molto poco abituati a vedere film impostati in questi termini brutali, presi come siamo dai rigurgiti pseudo-intellettualistici dei trentenni che si comportano da tredicenni (ed al massimo accettiamo parte della produzione di Tarantino), e questo dovrebbe mettere in guardia il pubblico meno avvezzo al cinismo su pellicola. E attenzione, non parlo della violenza bizzarra alla Tarantino bensì di quella realistica, cattiva ed amara di American History X, per fare un esempio ben noto, elevata all’ennesima potenza.

    Stange circus narra, molto in breve, la vita di una povera ragazzina di appena dodici anni (Mitsuko), turbata dal padre pervertito – il quale non solo la obbliga ad assistere ai rapporti sessuali con la madre, ma inizia a dedicarsi attivamente all’incesto. Il segno di questa esistenza terrificante sembra riversarsi nel racconto di una scrittrice disabile: dunque tra uno scambio di identità e l’altro, come chiedono nel film stesso, “cosa è reale e cosa non lo è“?

    La cosa davvero sconvolgente, al di là dell’argomento decisamente morboso – che nel nostro paese avrebbe implicato articoli velenosi, polemiche nella TV spazzatura, richieste di ritiro dalla circolazione, accuse di oltraggio alla decenza, agli uomini, agli animali ed agli Dei – è stata a mio parere la capacità di Shion Sono di affrontare il tema spinoso (la pedofilia) senza sconfinare in dinamiche che qualcuno avrebbe trovato quantomeno ambigue o peggio autocompiaciute. Sì, perchè le scene più spaventose vedono il cinico preside (il padre), poco prima intento a fare moralismo sul bene e sul male e ad inneggiare all’amore verso i fanciulli – fare sesso con la consorte (la bella Masumi Miyazaki) mentre è in corso uno scambio di ruoli tra madre e figlia. Lo scambio avviene perchè il brutale padre-padrone rinchiude l’osservatrice (moglie o figlia, a turno) dentro la custodia di una viola, nella quale ha praticato un buco, e forzandola ad assistere all’amplesso.

    Tutto appare stravolto, a quel punto, per la piccola Mitsuko: anche il rapporto con la madre, inizialmente mite ed affettuosa, che diventa gelosa e indisponente nei suoi confronti. È l’idea di fondo ad essere profondamente disgustosa: e il tutto non diventa un mero pretesto per fare snuff, sia ben chiaro, perchè costruisce i presupposti solidi per un finale che, alla fine, compare limpido sotto gli occhi dello spettatore. Non aggiungo altro, per non rovinare la visione a nessuno, permettendomi di ricordare che lo stesso regista ha affermato che non è l’amore morboso verso i fanciulli ad essere il fulcro di questo suo lavoro.

    Del resto, circa trenta anni fa, per il semplice sospetto che un minorenne avesse visto il bel corpo di Barbara Bouchet (cosa che avrebbe potuto fare ugualmente con una rivista qualunque, per la verità) Lucio Fulci subì un processo in piena regola, nel quale dovette dimostrare che il minore che porta l’aranciata alla procace protagonista di “Non si sevizia un paperino” fosse stato sostituito da una controfigura. Nessuno vuole processare, si spera, Shion Sono, osannato come regista horror ma, in verità, autentico cinesta fuori dalle righe, capace di strutturare le sequenze, creare ambienti da sogno (o da incubo), confondere i livelli della realtà e dare il giusto input agli interpreti. Qualche reminiscenza che sconfina in Shining di Kubrick (i corridoi lunghissimi nei quali si consumano i misfatti) e qualche altra chicca sparsa nel film contribuiscono ad autorizzarmi ad affermare che “Strange circus” sia un grandissimo (e molto incompreso) lavoro. Non per tutti, anzi i più sensibili stiano alla larga, questo è certo, ma qui resto dell’idea che Sono abbia girato il suo personale “Arancia Meccanica“; e, in caso, scusate se è poco.

  • Chi è l’altro: trama, cast, produzione, spiegazione finale

    La storia si svolge in una fattoria nel New England negli anni ’30 e segue i gemelli Niles e Holland Perry. I due sono legati da un forte legame, ma le loro personalità sono completamente diverse: Niles è dolce e sensibile, mentre Holland è malvagio e crudele. La loro nonna, Ada, introduce Niles a una serie di giochi che coinvolgono poteri psichici, ma questi giochi diventano sempre più sinistri e pericolosi. Nel frattempo, eventi tragici iniziano a verificarsi nella comunità locale, portando alla luce oscuri segreti familiari.

    “The Other” è un film del 1972 diretto da Robert Mulligan basato sul romanzo omonimo di Tom Tryon. Il film è un thriller psicologico e horror che combina elementi di mistero e dramma familiare. Di seguito, troverai una sintesi della trama, il cast principale, una breve analisi, alcune informazioni sulla produzione e una nota sull’accoglienza critica. Avviso spoiler: la trama verrà descritta in modo generale senza rivelare dettagli fondamentali.

    Cast

    • Chris Udvarnoky nel ruolo di Niles Perry
    • Martin Udvarnoky nel ruolo di Holland Perry
    • Diana Muldaur nel ruolo di Alexandra, la madre dei gemelli
    • Uta Hagen nel ruolo di Ada, la nonna
    • Norma Connolly nel ruolo di Vee, la madre di Alexandra
    • Victor French nel ruolo di Rider, l’amico della famiglia

    “The Other” è un film che affronta temi complessi legati all’infanzia, all’identità, alla fragilità interiore dei personaggi. Il regista Robert Mulligan utilizza un tono “intimista” e misurato per creare una tensione sottile durante tutto il film. La trama si sviluppa gradualmente, con il pubblico che inizia a sospettare sempre di più degli eventi inquietanti che coinvolgono i gemelli.

    Il film è stato girato in California e presenta una fotografia suggestiva che contribuisce a creare l’atmosfera inquietante della storia.

    “The Other” è stato generalmente ben accolto dalla critica all’uscita. È stato elogiato per la sua atmosfera cupa e per le performance convincenti dei giovani attori che interpretano i gemelli. Tuttavia, alcuni critici hanno notato che il film potrebbe risultare prevedibile per alcuni spettatori.

    Finale (senza spoiler)

    Il finale di “The Other” è sorprendente e drammatico. Rivelazioni scioccanti cambiano radicalmente la percezione della trama e dei personaggi. Senza entrare nei dettagli specifici, il finale offre una chiusura inaspettata alla storia e solleva importanti domande sull’innocenza e la malvagità nell’infanzia. È uno dei momenti chiave del film che lascia una forte impressione.

  • The Guest è il film di Adam Wingard che cambierà la vostra idea di film d’azione

    Il militare David si reca in visita dai genitori di un commilitone morto in battaglia, venendo accolto con commozione e stabilendo un legame emotivo con i familiari: ma chi si nasconde davvero dietro di lui?

    In breve. Sano action-movie come da tradizione ottantiana (si parte dagli stessi presupposti del primo Rambo): trama accattivante e divertimento per il pubblico, a cominciare dalle citazioni a finire dai dialoghi essenziali ed ontologicamente tamarri (nel senso migliore del termine). Ci si diverte con stile, e solo questo conta.

    Girato da Adam Wingard (giovane guru dell’horror noto per You’re Next, The ABCs of Death e recentemente Death Note) con un budget di circa 5 milioni di dollari, The Guest è strutturato con le dinamiche di un film del terrore – tranquillità iniziale, crescendo di tensione e rivelazione/i finale/i – senza pero’ sfruttarne pienamente le dinamiche espressive. Ciò che emerge è un buon thriller molto contenuto (stranamente per Wingard) a livello di sangue e violenza, girato con gusto e recitato in modo gradevole, ben calato nella realtà americana – e strizzando l’occhio ad Halloween (nella sequenza finale, soprattutto). L’idea del film arriva dalla penna di Simon Barret, partito da un’idea di classico film a sfondo revenge, che poi è stata abbandonata causa complicazioni e trasformata dal regista in ciò che il film è: in parte prevedibile dopo un po’, forse, ma assolutamente dignitoso.

    La cosa più affascinante di The guest è legata sicuramente al suo rendersi inclassificabile per circa un’ora di film, almeno fin quando iniziano a delinearsi i tratti essenziali della trama; lo guardi con interesse, e non riesci a capire se vedrai uno slasher, una spy-story, un action puro o un horror cruento. La verità è che non importa granchè, perchè la trama incuriosisce ed avvince lo spettatore, che difficilmente potrà immaginare la sorpresa finale (per quanto, ripensadoci, abbia un che di “grezzo” nel senso accennato all’inizio, tutto sommato divertente). Certo Wingard ama il cinema di genere, anzi in certe sequenze lo venera spudoratamente e lo tributa senza pudore, a cominciare dalla scelta delle musiche puramente ottantiane di Steve Moore. Tanto per capire l’atmosfera, Moore ha sfruttato gli stessi sintetizzatori suonati da Carpenter e Howarth per Halloween 3: Season of the Witch (1982), ed il feeling sembra proprio quello.

    Stevens, protagonista del film, impersona l’enigmatico soldato che irrompe nella vita ordinaria di una famiglia americana, quale archetipo del “buono” in grado di sedurre, combattere e dominare la scena in lungo ed in largo. La sua parte è particolarmente complessa soprattutto per ciò che implica, ed in funzione della sua reale identità, e questo lo rende particolarmente affascinante. Quasi sempre padrone della scena ed egocentristicamente coi riflettori sempre puntati addosso, ha dovuto sostenere un allenamento specifico per sfoggiare il fisico necessario ad impersonare un militare. La cosa è stata talmente voluta da Wingard da spingere il regista a rinviare fino all’ultimo una delle scene clou, per dare il tempo allo stesso di allenarsi e girare la scena del trailer.

    Un buon film, quindi, che riserva qualche discreto colpo di scena ed una buona dose d’azione, in definitiva. Per come viene impostato fin dall’inizio, nonostante gli ammicamenti (pesantissimi nel finale, peraltro) The Guest si allontana dai lidi dell’horror per approdare su quelli del thriller d’azione, citando il cinema ottantiano tutto. Al tempo stesso, The Guest piacerà agli appassionati di cinema di genere che non amino le spiegazioni troppo dettagliate – per dire, il pubblico selezionato per il test screening ha convinto Wingard e lo sceneggiatore a togliere di mezzo lo “spiegone” che illustrava con molti dettagli l’ identità dell’ospite, ma questo a ben vedere non lascia spiegazioni in sospeso, per cui va bene così.

  • Trauma di Dario Argento parla di disturbi alimentari e shock psicologici

    Aura Petrescu, una ragazzina sofferente di anoressìa, assiste all’omicidio dei propri genitori da parte di un killer: grazie all’aiuto dell’amico David scoprirà un’imprevedibile trama ordita dall’assassino…

    In breve. Un corposo trattato di sadismo, incentrato sulla figura di un inquietante serial killer tagliatore di teste: uno dei film forse meno noti di Argento che comunque, a ben vedere, rimane nella sua filmografia come lavoro di buona qualità.

    “Con un cappio attorno al collo… non sono stata la prima vittima, e non sarò nemmeno l’ultima!”

    Prima produzione americana – e questo si riflette nelle ambientazioni e nei ruoli dei personaggi – di Dario Argento, con soggetto scritto con Ferrini e Romoli incentrato sulle vicende di una ragazzina rimasta orfana. Proprio per il ruolo di protagonista venne scelta la figlia Asia, all’epoca giovanissima e, per questa ragione, probabilmente acerba rispetto all’importanza del ruolo che rivestì. Già questo rende “Trauma“, thriller novantiano ricco di tipiche trovate “teatrali” del regista, un film vagamente ostico da guardare, senza contare la sua lunghezza atipica (circa due ore) in cui, tanto per (non) cambiare, l’assassino viene rivelato solo alla fine dopo il consueto gioco di falsi sospetti ed indiziati. Al di là di una scelta di interpreti poco esaltante e di una trama forse poco incisiva nella prima parte, quasi nulla è da buttare, tenendo conto dell’ambientazione architipica, della dinamica da thriller mainstream, di alcune citazioni di Profondo rosso, del sottotesto del film e del fatto che riguarda l’anoressia, un dramma vissuto realmente dalla sorellastra di Asia (Anna, scomparsa nel 1994). Quantomeno potremmo affermare che questo lavoro è l’ennesima dimostrazione di come l’horror sappia essere, in opportune condizioni, un genere più maturo e profondo di quanto troppe persone vogliano farci credere. L’argomento cardine di Trauma, al di là delle micro-storie che contiene, riguarda un’imprevedibile vendetta dovuta ad uno spaventoso trauma – per l’appunto – vissuto dal killer, proprio come avveniva nel succitato capolavoro del regista.

    Trauma è un buon thriller, ben ritmato ed a forti tinte horror, che mostra il “tocco” dell’Argento più sanguinario e viscerale, a cominciare dalla scena di decapitazione presentata all’inizio (mediante un laccio metallico motorizzato), che poi rappresenterà – piuttosto atipicamente per il regista romano – l’arma del delitto prefissata. Un villain che, in questo contesto, si muove di soppiatto e quasi sempre in soggettiva, restando nascosto con cura fino all’imprevedibile finale, giusto il tempo necessario perchè Aura possa ricordare ciò che la sua psiche ha rimosso (la faccia del maniaco, per l’appunto). Contemporaneamente, pero’, i toni appaiono smorzati rispetto al mai troppo celebrato passato del regista, il quale preferisce abbandonarsi a suggestioni da tipico film made in USA che ai consueti “tocchi di classe” che lo caratterizzarono all’epoca: a vederlo oggi, a conti fatti, avercene film “commerciali” così.

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