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  • Magnolia: trama, curiosità, spiegazione finale

    Magnolia: trama, curiosità, spiegazione finale

    Molti critici considerano “Magnolia” l’esempio di film postmoderno, nonchè tra i più famosi e iconici lavori cinematografici di fine anni novanta. Il film presenta molte caratteristiche e temi che sono tipici del periodo, sia a livello di approccio che di narrazione intrecciata, dove le storie dei personaggi sono collegate inaspettatamente tra loro, in un turbine non lineare che non lesina la critica sociale.

    Una riflessione profonda e complessa, secondo i più, sulla natura umana e sulla società moderna.

    Sinossi Magnolia

    Magnolia” è un film del 1999 scritto e diretto da Paul Thomas Anderson, regista noto anche per Il filo nascosto. Il film è noto per la sua struttura narrativa complessa e il ricco cast di personaggi, interpretati da attori di talento come Tom Cruise, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, John C. Reilly, William H. Macy, e molti altri. “Magnolia” è apprezzato per la sua regia, le prestazioni degli attori e la profondità delle sue tematiche. Il film ha ricevuto molte recensioni positive da parte della critica ed è stato nominato per diversi premi, incluso il premio Oscar. Il film è diventato di culto e ha ricevuto elogi dalla critica per la sua maestria tecnica e le prestazioni degli attori. Daniel Day-Lewis è stato particolarmente lodato per la sua interpretazione e ha vinto l’Oscar come Miglior Attore Protagonista per il suo ruolo nel film.

    La storia si svolge a Los Angeles e intreccia diverse trame che coinvolgono personaggi e storie diverse, ma collegate tra loro in vari modi. Il film affronta temi come il destino, la casualità, la solitudine, la redenzione e l’umanità.

    1. Introduzione: Il film inizia con una sequenza che mostra diverse storie brevi di eventi casuali che accadono nella vita di persone sconosciute. Questi eventi apparentemente casuali sottolineano il tema della casualità e del destino che saranno presenti nel resto del film.
    2. Earl Partridge (interpretato da Jason Robards): Earl è un anziano produttore televisivo di successo che è gravemente malato di cancro. La sua giovane moglie Linda (interpretata da Julianne Moore) è sopraffatta dalla colpa e rimorso per aver sposato Earl solo per il suo denaro. Il loro rapporto è complicato e tormentato.
    3. Frank T.J. Mackey (interpretato da Tom Cruise): Frank è un motivatore sessuale di successo, noto per il suo programma di auto-aiuto chiamato “Seduzione e sicurezza”. Nonostante il suo successo professionale, ha un rapporto complicato con suo padre morente, Earl Partridge, e si sforza di affrontare il suo passato turbolento.
    4. Stanley Spector (interpretato da Jeremy Blackman): Stanley è un bambino prodigio della televisione, noto per la sua intelligenza e conoscenza enciclopedica. Il padre di Stanley è ossessionato dal suo successo e lo sfrutta finanziariamente.
    5. Donnie Smith (interpretato da William H. Macy): Donnie è un ex bambino prodigio del quiz televisivo, che ora è un adulto sfortunato e insoddisfatto. Lotta con la sua solitudine e il suo desiderio di trovare amore e successo.
    6. Jim Kurring (interpretato da John C. Reilly): Jim è un onesto poliziotto che sta indagando su una serie di eventi strani e casuali che accadono in città durante la giornata piovosa.
    7. Claudia Wilson Gator (interpretata da Melora Walters): Claudia è una giovane donna tossicodipendente, figlia di un produttore televisivo, Jim Gator (interpretato da Philip Baker Hall). Claudia cerca disperatamente di liberarsi dalla tossicodipendenza e riconciliarsi con suo padre morente.
    8. Intrecci delle storie: Le storie di tutti questi personaggi e di altri ancora si intrecciano e si sovrappongono, spesso in modo inaspettato, durante la giornata. Il film esplora i temi della casualità, del destino e della redenzione, mentre i personaggi affrontano le loro sfide personali e cercano di trovare significato nelle loro vite.

    Il film culmina in un epilogo coinvolgente che lascia spazio all’interpretazione dello spettatore, con eventi misteriosi e straordinari che sconvolgono la vita dei personaggi e offrono una riflessione sulla natura umana e sulla connessione tra gli individui.

    Cast Magnolia

    Il cast di “Magnolia” è composto da un eccezionale insieme di talentuosi attori, molti dei quali hanno ricevuto ampi elogi per le loro interpretazioni nel film. Di seguito è riportato il cast principale:

    1. Jeremy Blackman – Stanley Spector
    2. Tom Cruise – Frank T.J. Mackey
    3. Melinda Dillon – Rose Gator
    4. Philip Baker Hall – Jimmy Gator
    5. Philip Seymour Hoffman – Phil Parma
    6. Ricky Jay – Burt Ramsey
    7. William H. Macy – Donnie Smith
    8. Julianne Moore – Linda Partridge
    9. John C. Reilly – Jim Kurring
    10. Jason Robards – Earl Partridge
    11. Melora Walters – Claudia Wilson Gator
    12. Michael Bowen – Rick Spector
    13. Luis Guzmán – Luis
    14. April Grace – Gwenovier
    15. Orlando Jones – Moderatore TV
    16. Alfred Molina – Solomon Solomon
    17. Pat Healy – Sir Edmund William Godfrey
    18. Michael Murphy – Alan Kligman

    Interpretazione del film

    Nel gioco della vita l’importante non è quello che sperate o che meritate, ma quello che prendete. Sono Frank T.J. Mackey, sovrano assoluto della fica e creatore del programma Seduci e Distruggi, ora disponibile anche in audio e videocassette. Seduci e Distruggi vi insegnerà tutte le tecniche necessarie a conquistare bionde mozzafiato pronte a benedire con i loro caldi umori il vostro letto. La parola chiave è il “linguaggio”: come per incanto il linguaggio ci aprirà le porte della mente femminile e ci permetterà di penetrare nelle loro speranze, desideri, paure, aspettative e nelle loro profumate mutandine. Imparate a trasformare la vostra buona amica in una schiava affamata di sesso. (Frank T.J. Mackey)

    “Magnolia” è un film ricco di simbolismi e temi complessi, che permette a diversi spettatori di trarre interpretazioni e significati personali dalla trama intricata. Va notato che “Magnolia” è un film aperto all’interpretazione e molte delle tematiche presentate sono intenzionalmente ambigue, lasciando spazio per diverse interpretazioni personali. La complessità delle storie e dei personaggi contribuisce a rendere il film un’esperienza cinematografica unica e coinvolgente per molti spettatori. Di seguito sono riportate alcune delle interpretazioni comuni del film:

    1. Casualità e destino: Un tema centrale del film è l’interconnessione degli eventi casuali e il ruolo del destino nella vita dei personaggi. Il film mette in evidenza come le azioni di una persona possono avere impatti inaspettati sulla vita di altre persone, creando una rete di connessioni e coincidenze.
    2. Solitudine e disconnessione: Molti dei personaggi del film sperimentano una profonda solitudine e disconnessione emotiva dagli altri. Nonostante vivano in una grande città come Los Angeles, si sentono isolati e incapaci di connettersi veramente con gli altri. Questo tema viene enfatizzato attraverso la rappresentazione di diverse storie di vita separate che si intrecciano solo occasionalmente.
    3. Redenzione e perdono: Diversi personaggi nel film stanno cercando la redenzione dalle loro azioni passate o stanno cercando di perdonare se stessi o gli altri. Il processo di redenzione è spesso ostacolato dalla complessità delle relazioni familiari e dei conflitti interni.
    4. Relazioni genitoriali: “Magnolia” esplora il tema delle relazioni complicate tra genitori e figli, evidenziando come il passato dei genitori possa influenzare profondamente la vita dei loro figli. Questo tema è rappresentato attraverso vari personaggi, come Frank T.J. Mackey e suo padre Earl Partridge, Claudia Wilson Gator e suo padre Jimmy Gator, e Donnie Smith e la figura paterna di Stanley Spector.
    5. Rinascita e cambiamento: Il film suggerisce che anche nelle situazioni più difficili, esiste la possibilità di una rinascita personale e di un cambiamento positivo. Molti personaggi affrontano momenti di crisi e, attraverso queste esperienze, trovano la forza di cambiare le loro vite.
    6. Il potere delle emozioni: “Magnolia” esplora l’intensità delle emozioni umane e il modo in cui queste possono influenzare le azioni e le decisioni dei personaggi. L’emozione è spesso rappresentata in maniera esplosiva e straordinaria nel film.

    A cosa si riferisce Magnolia del titolo?

    Il titolo “Magnolia” fa riferimento a un simbolo ricorrente nel film, ossia il fiore della magnolia. La magnolia è un albero sempreverde che produce grandi fiori profumati e appariscenti. Nel contesto del film, il fiore della magnolia assume diversi significati simbolici:

    1. Bellezza e fragilità: La magnolia è spesso associata alla bellezza e alla delicatezza dei suoi fiori. Questo simboleggia la bellezza e la fragilità delle vite dei personaggi nel film, che sono complesse e vulnerabili, ma allo stesso tempo affascinanti.
    2. Rinascita e speranza: La magnolia è un albero il cui fogliame e fiori rimangono durante tutto l’anno. Questo simboleggia la possibilità di rinascita e di speranza per i personaggi, anche attraverso momenti difficili e oscuri.
    3. Connessione e interconnessione: Nel film, il tema delle connessioni casuali tra i personaggi è centrale. La magnolia simboleggia la rete di connessioni che collega le loro vite, creando una trama intrecciata.
    4. Dualità: La magnolia è nota per la sua dualità, in quanto i suoi fiori sbocciano sia in primavera che in autunno. Questa dualità si riflette nel film, dove i personaggi possono essere complicati e contraddittori, con sfaccettature nascoste.
    5. Bellezza nascosta: Nei fiori della magnolia, i petali sono spesso coperti da un involucro protettivo che si apre per rivelare la bellezza interna. Questo può essere visto come un simbolo per la scoperta delle verità nascoste e delle emozioni profonde dei personaggi nel film.

    Noi possiamo chiudere col passato, ma il passato non chiude con noi. (Jimmy Gator)

    10 cose che non sapevi su Magnolia

    Ecco dieci curiosità interessanti sul film “Magnolia”:

    1. Origine del titolo: Il titolo “Magnolia” è ispirato a una canzone di Aimee Mann, intitolata “Save Me”, che è anche presente nella colonna sonora del film. Aimee Mann ha contribuito con diverse canzoni per la colonna sonora del film.
    2. Numeri ricorrenti: Nel film, il numero 82 ricorre in varie scene. Ad esempio, compare sulla scatola delle scarpe di Jim Kurring, sulla targhetta dell’ufficiale di polizia, e anche sulla camicia di Stanley Spector.
    3. La pioggia nel film: La pioggia è un elemento ricorrente in molte scene del film. La pioggia è stata generata artificialmente durante le riprese, poiché il film è ambientato a Los Angeles, che non è una città particolarmente piovosa.
    4. Personaggi doppi: Molte delle storie dei personaggi nel film hanno delle parallele tra loro. Ad esempio, i personaggi di Frank T.J. Mackey e Donnie Smith condividono alcuni tratti e hanno entrambi problemi con la figura paterna.
    5. Audizione di Tom Cruise: Tom Cruise, che interpreta Frank T.J. Mackey, ha ottenuto il ruolo dopo un’audizione telefonica con il regista Paul Thomas Anderson. Cruise ha ricevuto elogi per la sua performance, ottenendo anche una nomination all’Oscar come Miglior Attore Non Protagonista per il ruolo.
    6. Riferimenti a altre opere: Il film presenta diversi riferimenti a opere letterarie e cinematografiche. Ad esempio, il film inizia e finisce con una citazione dal libro “Frogs” di Aristofane.
    7. La traccia di Aimee Mann: Come accennato prima, Aimee Mann è una presenza importante nella colonna sonora del film. La sua musica contribuisce a creare un’atmosfera emozionante e si adatta perfettamente alla narrazione del film.
    8. Philip Seymour Hoffman e gli uccelli: Durante il film, il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman, Phil Parma, mostra un amore per gli uccelli e li tiene come animali domestici. Hoffman era noto anche per il suo amore per gli animali nella vita reale.
    9. Lunghezza del film: “Magnolia” ha una durata piuttosto estesa, con una durata di circa 3 ore e 8 minuti. Questo lo rende uno dei film più lunghi nella filmografia del regista Paul Thomas Anderson.
    10. Finale ambiguo: Il finale del film è aperto all’interpretazione dello spettatore e ha suscitato diverse teorie e discussioni tra i fan e i critici. Il finale straordinario e misterioso ha contribuito a rendere “Magnolia” un film memorabile e discusso.

    Queste curiosità aggiungono ulteriore fascino e profondità a “Magnolia”, rendendolo un’opera cinematografica affascinante e intrigante da esplorare.

    Spiegazione del finale Magnolia

    Il finale di “Magnolia” è un’esperienza intensa e surreale che mette in luce i temi chiave del film, come la casualità, il destino, la redenzione e la connessione umana. È una sequenza carica di emozioni, che offre uno sguardo complesso e profondo sulla natura umana e il modo in cui le nostre vite sono intrecciate.

    Attenzione: Spoiler a seguire per chi non ha visto il film.

    Di seguito una spiegazione dettagliata del finale:

    1. La pioggia: La pioggia nel finale simboleggia un momento di catarsi e purificazione per i personaggi. La pioggia può essere vista come una manifestazione esterna delle intense emozioni e tensioni interiori che i personaggi stanno vivendo.
    2. La pioggia di rane: Durante la sequenza finale, in un evento straordinario e surreale, cominciano a piovere rane dal cielo. Questo evento è un elemento surreale e allegorico che simboleggia l’imprevedibilità e l’incredibile natura della vita. È come se il mondo si stesse ribellando e reagendo in modo straordinario alle emozioni e ai drammi che i personaggi stanno vivendo.
    3. Le scelte dei personaggi: Molti dei personaggi si trovano ad affrontare momenti di svolta nelle loro vite durante la pioggia di rane. Si scontrano con la loro coscienza e cercano di trovare la forza di fare scelte cruciali che cambieranno il corso delle loro storie.
    4. La scena della pistola: Durante la pioggia di rane, il personaggio di Jim Kurring, interpretato da John C. Reilly, affronta una situazione drammatica. Viene chiamato a gestire una situazione in cui un ragazzo sta minacciando di uccidersi con una pistola. Jim riesce a calmare il ragazzo, convincendolo a lasciare la pistola. Questa scena rappresenta il tema della redenzione e della compassione.
    5. Il canto: Durante la pioggia di rane, i personaggi iniziano a cantare insieme la canzone “Wise Up” di Aimee Mann. Il canto è una sorta di catarsi collettiva, un modo per esprimere le emozioni che stanno attraversando. Anche i personaggi che erano stati isolati o chiusi a loro stessi si uniscono nel canto, sottolineando l’importanza della connessione umana.
    6. L’epilogo: Dopo la pioggia di rane, il film presenta un epilogo che mostra il destino dei personaggi principali. L’epilogo offre alcune chiusure alle storie dei personaggi, ma allo stesso tempo lascia spazio per l’interpretazione e la riflessione dello spettatore.
  • Sei donne per l’assassino: Mario Bava inventa un genere nel 1964

    Un prestigioso atelier diventa teatro degli omicidi di alcune modelle.

    In breve. Il film che ha inventato il giallo all’italiana, un genere prestigioso che ha continuato a vivere fino ai giorni nostri.

    Girato in sole sei settimane, fu anche un film tipicamente low-budget per cui Bava dovette inventarsi soluzioni sul momento: come quella, riportata da IMDB, di montare la macchina da presa su un trenino per riprendere alcune scene in movimento. Noto anche come L’atelier della morte, Jernhånden i rædselsnatten in Danimarca (tradotto in italiano La rossa notte della mano di ferro, con riferimento ad uno dei sette omicidi che si vedono nel film), sul mercato anglofono “Blood and Black Lace“, Sei donne per l’assassino è un film fondamentale per una serie di motivi: prima di tutto per l’epoca in cui uscì (1964), anticipando tempi e modi del giallo all’italiana (ma anche di molti thriller stilizzati americani) e ponendosi come modello di riferimento per più di una generazione di registi successivi.

    Lo schema classico del giallo all’italiana – un killer seriale che colpisce gli altri personaggi a rotazione i quali, fino alla fine, assistono inermi alle indagini – viene qui riprodotto per la prima volta, fornendo un vero e proprio schema di fondo. L’assassino inquietante, feroce – ogni omicidio avviene con modalità diverse e decisamente fantasiose, modus operandi ripreso più volte in film successivi come Oscar Insaguinato, ad esempio – ha il volto nascosto da una fasciatura – e diventa, qui, un villain ante-litteram, una sorta di “nonno” di Freddy Krueger (a quanto pare Wes Craven prese qualcosa da questo film per inventarne l’aspetto), e si mostra al pubblico in rigoroso impermeabile scuro e cappellaccio: il medesimo aspetto che avrebbe utilizzato anche Dario Argento per i killer dei suoi film.

    Sei donne per l’assassino è chiaramente un film anni ’60 che risente del ritmo – qui lento, inesorabile e accattivante – e dello stile di recitazione d’epoca (molto accentuato in senso teatrale, oltre che erede di quello del gotico in cui Bava era specializzato), ma che mantiene la propria carica di modernità attraverso l’uso di varie soluzioni sceniche teatrali quanto originali. A tale riguardo, basterebbe anche solo pensare alla sequenza introduttiva di presentazione dei personaggi, rappresentati in posa plastica (come fossero manichini) ed in modo che sia facile confonderli tra loro. Uno di quei film da guardare obbligatoriamente, insomma, anche solo per come è stato girato e per il tipo di fotografia basata su colori vividi e alto contrasto. A prescindere da quello che poi succeda a livello di intreccio, in effetti, non sempre facile da seguire e probabilmente non esente da buchi narrativi. Basterebbe pensare, a tale riguardo, alla celebre intervista in cui il regista, nel rispondere ad un’elaborata domanda della rivista francese Cahiers du cinéma, ammise di non ricordare il finale (Alberto Pezzotta. Mario Bava. Milano, Il Castoro Cinema, 1995).

  • The Watcher è su Netflix: e si basa su una storia autentica

    The Watcher (L’osservatore) è una serie Netflix tra le più popolari del 2022, incentrata su una inquietante casa, ambitissima da vari compratori quanto in grado di diventare l’ambientazione di surreali incubi ad occhi aperti al loro interno. Gli episodi raccontano le vicissitudini dei vari coinquilini e, in particolare, quelle di una coppia (Naomi Watts e Bobby Cannavale) con due figli adolescenti, innamorati dell’abitazione a prima vista, nonchè futuri entusiasti acquirenti. La storia è in bilico su varie tonalità narrative e si ispira, nello specifico, ad un autentico fatto di cronaca del 2014: la storia della famiglia Broaddus, minacciata da lettere anonime dopo aver cambiato casa.

    Detta in maniera sintetica, The Watcher (scritto da Ian Brennan, in collaborazione con l’ideatore Ryan Murphy, che si occupa specificatamente del primo episodio) è una serie con più registi che vorrebbe forse riprendere la gloriosa tradizione dei mediometraggi horror di 20 o 30 anni fa. Cosa che avrebbe avuto più senso per le serie antologiche, forse, non certo per quelle che raccontano una storia di cinque ore e mezza che appare interminabile, poco stimolante e cosparsa di dettagli poco funzionali.

    Del resto si insiste su un’idea già vista, leggermente stantìa, di horror, basata sui topici dialoghi un po’ faciloni (che negli horror non sono tutto, e lo sappiamo, ma sono pur sempre qualcosa). Esemplificativo a riguardo un momento di intimità tra i coniugi, interrotto da uno dei figli per via di una musica che crede di aver sentito dalla casa, il tutto giusto durante il climax orgasmico. A quel punto ci pensa l’uomo, il padre (e chi sennò?), perfetto emblema del padre-protettore: ci pensa lui a rispondere al figlio, dalla camera da letto, “tua madre sta venendo“, una allusione talmente grossolana da far precipitare le braccia dello spettatore nelle profondità degli abissi. Anche lo stesso tormentone sul guardare o essere guardati (mentre si fa sesso?), sull’occhio dell’Osservatore da cui il titolo, passa relativamente indifferente, nonostante venga ribadito con cadenza sistematica.

    Le varie situazioni spaventose sembrano poi troppo rare rispetto alla tensione in ballo, tensione che per la verità funzionerebbe pure: i coniugi Brannock si legano visceralmente alla nuova casa, ne sono rapiti irrazionalmente, fronteggiando così alcune lettere anonime di minaccia che li vorrebbero fuori da lì. I sospetti ricadono su una coppia di vicini, fin da subito scontrosi e derisori nei loro confronti, e su alcuni altri grotteschi soggetti che sembrano riuscire a penetrare in casa anche senza averne le chiavi. La casa, ovviamente, si presta a interpretazioni psicologiche e sottotesti assortiti: il suo aspetto lussuoso è parte dello scenario in cui i protagonisti specchiano le proprie vanità, il desiderio di ritrovare la dimensione perduta, un Eden (probabilmente inesistente o idealizzato) a cui anelano da sempre. È il posto che dovrebbe metterti a tuo agio e puntualmente non lo fa, diventando un luogo seminale in cui coltivare e far degenerare terrori ancestrali, irrosolti esistenziali, frustrazioni e problemi economici. A vantaggio della narrazione si potrebbe, per onor di cronaca, raccontare della forte componente paranoica della trama (in una sequenza è presente un riferimento alla teoria del complotto sull’adrenocromo, ad esempio); non è male, peraltro, il clima paranoico (sempre accennato e vagamente hitchcockiano, per alcuni aspetti) in cui i protagonisti si muovono, senza capire come faccia l’Osservatore a vederli.

    Andrebbe bene, o sarebbe nella media dignitosa del genere, se non fosse che sono situazioni già viste e, già dalle prime puntate. The Watcher si svela come un thriller sostanzialmente ripetititivo, senza troppa anima, in cui le cose avvengono in modo lento quanto inesorabile, mentre i climax appaiono diluiti da vaghi jumpscare sempre poco efficaci e funzionali. Ne basti uno su tutti, per comprendere i limiti di The Watcher: il figlioletto che si sveglia nella casa vuota, per capire cosa stia succedendo, e poi scoprire che il suo animaletto (un furetto) è morto senza motivo. Inquadratura sui piedi, animaletto ucciso, urlo del ragazzino, sirene della polizia, poliziotto tutto d’un pezzo che accorre sotto casa. Per un furetto?

    Non gioca a favore della seie, di fatto riuscito per meno di metà, il formato scelto (ed il fatto di essere diretto da più registi alimenta più che altro il senso di opera abbastanza disorganica): prefigurandosi come mini-serie di 7 puntate, diluisce la trama più del dovuto – o almeno, questa è la sensazione crescente che si prova mentre lo si guarda. I personaggi dell’ennesimo The Watcher (da non confondersi con l’analogo The Watcher, nè con Watcher), per inciso tra le serie più viste su Netflix degli ultimi tempi, sono l’aspetto più accettabile: diretti, caratterizzati e privi di fronzoli – l’investigatrice privata tormentata, ad esempio, sembra uscita fuori dalla filmografia blaxpoitation. Sono i personaggi secondari a funzionare meglio di tutti, paradossalmente, essendo sempre caratterizzati da teatralità, suggestioni e retrogusto lynchiano. Sembrano a più riprese burattini delle loro stesse storie, incapaci di agire se non nel modo in cui lo fanno, vittime della necessità di agire passivamente per conto di un Grande Altro indecifrabile (una setta? Un demone? La casa stessa?), preda di automatismi inconsci a cui obbediscono, persi nei loro rispettivi ricordi dolorosi. L’inconscio affiora anche dalla storia di una famiglia cittadina, irreprensibile quanto involontariamente irritante, vittima probabilmente del proprio perfezionismo e che decide di trasferirsi in provincia, rifuggendo dal caos cittadino (e dov’è la novità, del resto). Una famiglia troppo stereotipata e banalizzata, se vogliamo, per essere vera.

    È la ricerca metaforica del paradiso perduto, mentre il resto della vicenda si segue con difficoltà e non cattura, purtroppo, come dovrebbe. Storie già viste, già sentite, già sviscerate in lungo e in largo – per cui viene da pensare a Jack Nicholson e Shelley Duvall, per certi versi, ma solo per brutale assonanza con la casa spettrale e minacciosa, con la “luccicanza” del caso, le famiglie che forse non sono ciò che appaiono (e ti pareva) e i vari scheletri nell’armadio che sbucheranno, prima o poi, fuori. Sarà anche così, ma non sembra molto interessante capire a fondo di cosa si tratti.

  • Vetro: il thriller sull’isolamento degli utenti internet

    È uscito nei cinema il lungometraggio thriller d’esordio firmato Domenico Croce, girato sulla falsariga del sottogenere psicologico, e pervaso da curiose reminiscenze ai classici del genere e, cosa non da poco, con un sottotesto tecnologico tutt’altro che accessorio. Un lavoro per molti versi originale quanto semplice nella sua struttura, che sembra rifiutare l’effetto shock facile (troppo spesso banale scappatoia per accattivarsi il pubblico, o costruire serie TV pop) e si declina sulla tradizione del cinema di genere italiano, più ragionata e introspettiva. Un film che vale la pena, definitivamente, vedere almeno una volta nella vita e coglierne, in definitiva, ogni singola sfumatura.

    Il film è incentrato su un forte senso di claustrofobia, mood immarcescibile che pervade costantemente tutta la narrazione, e che racconta una singolare vicenda “di ogni giorno” scritta e sceneggiata da Luca Mastrogiovanni e Ciro Zecca. La sinossi assume tratti inusuali, rispetto alla media del genere, fin dal principio: il focus è infatti su una giovane protagonista, interpretata da Carolina Sala, rinchiusa da tempo indefinito nella propria camera.

    Vetro è un giallo zero-knowledge più classico che mai, quello in cui lo spettatore è catapultato nel mondo voluto dal regista senza complimenti, nè troppi preamboli. Non sappiamo perchè la ragazza si trovi lì, non conosciamo tantomeno il nome dei personaggi, non siamo nemmeno sicuri dell’ambientazione (Torino? Milano? …?), soprattutto non sappiamo di cosa abbia paura la ragazza. Nel frattempo la vediamo brancolare timidamente nella propria camera, in perenne ricerca di un qualcosa, di uno stimolo, di un perchè ad una vita, che sembra vivere isolata dal mondo esterno, in compagnia del solo padre. Padre che, di fatto, non appare per gran parte del film: sentiamo solo la sua voce, poi si affaccia dalla porticina del cane, rigorosamente chiusa a chiave dalla ragazza, giusto per portare da mangiare alla figlia, dialogando  amorevolmente con lei dietro una porta chiusa. Non sembra esserci verso di farle cambiare idea: quella porta non deve essere aperta, là fuori c’è qualcosa che la terrorizza. In questo scenario programmaticamente claustrofobico tutto potrebbe ancora essere, da una potenziale apocalisse in corso fino a eventuali morbose implicazioni relazionali.

    Non c’è tempo per rifletterci troppo durante la visione del film, peraltro, e – cercando di evitare spoiler che in questa circostanza potrebbero guastare parte della bellezza dell’opera -la narrazione si articola in due fasi ben distinte tra loro. Nella prima ci limitiamo ad entrare nella stanza (e nella vita) della diciassettenne protagonista, alle prese con quella che sembrerebbe una “ordinaria” crisi adolescenziale ed un rigetto verso il mondo esterno, forse a causa di un trauma regresso. Il film ci mostra il primo contatto coi social network della ragazza, la sua titubanza nell’iscrizione e la sua conoscenza (e frequentazione virtuale) in videochat con un ragazzo. Non è il mondo virtuale che conosciamo via Google e Facebook, per inciso: la scelta registica è quella di mostrarci motori di ricerca e piattaforme sociali inventate per l’occasione, con l’effetto di incrementare il senso di straniamento e concludere una prima sezione del film intrigante quanto forse, a ben vedere, un po’ prolissa. La seconda parte fa degenerare Vetro in un thriller onirico, anti-causale e vagamente simil-lynchiano, in cui la situazione è portata verso un’evoluzione psichedelica (uso e abuso di farmaci), fantasmatica e sempre più stringente, fino alla rivelazione ed al twist finale modello argentiano (Profondo rosso, peraltro, viene omaggiato da una specifica sequenza talmente evidente da provocare un sussulto nello spettatore, che sicuramente non passerà inosservata per quanto è azzaccata e liberatrice). Dopo aver visto il film sono abbastanza sicuro che non sarà difficile vedere nel personaggio della Sala una tragica, silente figura Femminile per eccellenza, un po’ anti-eroina un po’ scream queen, nella tradizione raccontata da autrici pluri-citate come Carol J. Clover.

    Nel disperato tentativo di capire cosa turbi così tanto la protagonista, tanto da far prefigurare allo spettatore apocalissi varie o eventuali nel mondo esterno, lo spettatore è messo davanti ad un’unico spiraglio di speranza: il talento per il disegno che caratterizza la protagonista, abile a disegnare fedelmente ciò che osserva, esasperato dall’essere alle prese con la manìa di spiare i vicini di casa dagli spiragli delle tapparelle della stanza, anch’esse tenute barricate. Un riferimento voyeuristico che non esprime solo una citazione al classico hitchcockiano di sempre (La finestra sul cortile), ma che diventa allegoria dell’utente qualunque, del popolo del web sui social network alle prese con lo sbirciare – e provare a ricostruire – le vite altrui.

    Non è un caso, a questo punto, che la protagonista sia una donna, una giovane donna in un universo popolato da quasi soli uomini, dove il proprio ruolo di vittima viene ribaltato da assunti sempre più spaventosi, in cui la lotta per la riscoperta del proprio Sè represso diventa causa di dolore, liberazione ed emancipazione. Sembra in altri termini la raffigurazione di un incubo cristallizzato, destinato a frantumarsi o a ricomporsi – lo stesso che abbiamo vissuto nei tempi più difficili della pandemia, quando il contatto con gli stessi consaguinei era limitato per motivi sanitari, ed in cui il “virus” questa volta è sociale, radicato nel nostro inconscio e, a questo punto, nell’intera società in cui ci pregiamo di vivere. Un incubo sconnesso in cui lo scenario è grottesco quanto paradossale, a volte onirico-psichedelico, e che non sembra un azzardo inquadrare come una raffigurazione dell’isolamento disagiato dell’individuo, così come una raffigurazione delle più atroci dipendenze da internet che affliggono tanti esseri umani sul pianeta.

    Come una novella protagonista di Luis Buñuel (L’angelo sterminatore), la donna non può uscire dalla propria stanza, bloccata da una paura irrazionale del mondo esterno, che riesce quantomeno ad esorcizzare mediante originali disegni e ritratti, anche grazie all’amore incondizionato per un cagnolino, unico essere vivente ammesso in sua compresenza. Una fobia, la sua, realmente esistente e ben nota in psicologia, tipicamente curata da farmaci e percorsi di psicoterapia, e che si riconduce al fenomeno degli hikikomori, i giovani giapponesi che si isolano dalla vita sociale volontariamente, costruendo il proprio mondo esclusivo all’interno della propria stanza.

    Su Wikipedia italiana, peraltro, una frase impietosa (quanto forse troppo generalizzante) ne definisce il comportamento: uno dei motivi che spingono gli adolescenti giapponesi a isolarsi – si scrive – è la volontà di sfuggire al conformismo tipico della società giapponese. Se è davvero così, il fenomeno degli hikikomori diventa il dilemma di un qualsiasi giovane pronto ad inserirsi nella società, attratto dalle lusinghe del guadagno e del sesso facili, quanto respinto da individui ostili e organizzazioni gerarchiche quanto stereotipate. Insomma, è una delle più grandi tragedie psicotiche del nostro tempo, o poco ci manca perchè lo sia. Nel caso di Vetro questa motivazione non sembra reggere del tutto, e presenta un considerevole distacco narrativo da quella tradizione anime/manga (da cui, peraltro, sembrerebbe prendere ispirazione almeno in parte), in cui il ragazzino isolato era l’eroe del fumetto o cartone animato di turno: la protagonista assume semmai la valenza di un’eroina più smaccatamente sociologica, immersa in un mondo in cui non ha colpe e da cui, probabilmente, vorrebbe mantenere il distacco. È dopo aver considerato tutto questo che – forse – entra in gioco il vetro del titolo, non solo chiave di volta a livello narrativo ma anche simbolo della psicologia della protagonista, fragile e tagliente al tempo stesso, trasparente quanto potenzialmente dannosa una volta fracassato.

    Per un thriller d’esordio, a conti fatti, tutto questo ci piace molto e, al netto di qualche momento di stanca ravvisabile soprattutto nella prima metà del film, la missione potrà dirsi compiuta. E molti di noi, speriamo per molto tempo, continueranno a vedere, amare e discutere Vetro. Un film italiano autentico e terrorizzante (soprattutto negli intensi, quanto improvvisi, minuti finali) di cui, sballottati come sempre tra improbabili reboot e terrificanti rehash delle medesime trame da quasi cento anni, avevamo bisogno.

  • Non ho sonno: la storia dei delitti del nano

    Ulisse Moretti (Max Von Sydow) indaga sul serial killer denominato “Il Nano”, considerato responsabile di almeno tre omicidi, collegato ad una storia di 17 anni prima…

    In breve. Epigono di Profondo Rosso ricco di suspance, forse prevedibile in alcuni suoi sviluppi quanto considerevole nel suo insieme. Argento non è inferiore alle aspettative, e si diverte con le citazioni da altre sue opere.

    Contaminatissimo dai suoi precedenti lavori, e con la collaborazione dei Goblin alla colonna sonora e di Sergio Stivaletti agli effetti speciali, Dario Argento produce uno dei suoi migliori film recenti, forse perchè influenzato in modo spinto dalle produzioni per cui è diventato famoso: è evidente che la storia dell’assassino di una medium ha giocato un ruolo determinante, soprattutto nella definizione delle scene clou (ne cito tre: la vivida morte per mano di un clarinetto, l’omicidio sul camino e la morte per soffocamento). Insanamente violento e curatissimo nei dettagli (come la prima morte sullo schermo, che sembra essere uscita da Tenebre), fu interpretato magistralmente da Max Von Sydow e preso un po’ alla leggera, a mio parere, dagli altri interpreti (ad esclusione della lucida follia dell’insospettabile assassino). La storia è ambientata nella Torino in cui vive la vicenda del pianista jazz, e racconta di un criminale che torna ad uccidere senza un apparente motivo dopo 17 anni. Sul suo conto indagano un commissario di polizia ed il figlio di una donna uccisa 17 anni prima in circostanze misteriose: l’assassino è un copycat, oppure si è risvegliato?

    Bellissima la storia basata sui ricordi ricostruiti dal protagonista, costruita grazie all’ausilio del giallista Carlo Lucarelli, perfetto ogni piccolo dettaglio di “Non ho sonno“: a partire dalla filostrocca di morte, all’aspetto scaramantico legato ai 17 anni, alla costruzione di Ulisse Moretti, sintesi argentiana di molti poliziotti visti in precedenti film. Probabilmente, invece, l’escamotage con cui si rivela l’assassino non è pienamente all’altezza della genialità delle opere precedenti: del resto basta guardare con attenzione il film per intuire quale esso sia, e questo un po’ stona nel quadro argentiano che da sempre si prefigura come una macchina mortale perfetta e senza una sbavatura. Del resto resta vero che dopo tanti successi si crei un clima di aspettativa insostenibile, che porta a sottovalutare tutto quello che esce oggi solo perchè, appunto, “non è roba degli anni 70/80“.

    Ad ogni modo la nostra onestà di spettatori dovrebbe imporci di affermare che “Non ho sonno” è un buon film focalizzato con cura e passione per il giallo classico, che fa invidia alle tante produzioni banali odierne.

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