BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Strade Perdute: Topologia del Desiderio e Dissoluzione del Sé

    Strade Perdute: Topologia del Desiderio e Dissoluzione del Sé

    La doppia storia di un jazzista e di un giovane meccanico, esplicata in dinamiche da incubo e collegamenti anomali tra i due personaggi. Il tutto ruota attorna ad una storia di gelosia ed ambigui personaggi…

    In breve: uno dei capolavori di David Lynch, l’essenza della sua poetica più oscura. Lugubre, enigmatico e ricco di spunti psicologici di spessore.

    “Ti voglio… ti voglio, Alice…” – “Tu non mi avrai … MAI!”

    Piccola premessa: un luogo comune abusatissimo in parecchie recensioni dei film di Lynch è legato allo stereotipo secondo cui bisognerebbe lasciarsi trasportare puramente dalle emozioni, seguire le immagini e non preoccuparsi troppo della trama. Fermo restando che Lynch non usa dare “spiegazioni” per i suoi film, secondo me questo luogo comune è una semplificazione un po’ eccessiva, che serve molto spesso ad assolvere il recensore da qualsiasi responsabilità per averla, eventualmente, “sparata grossa”. Data l’evidente enormità di cui Lynch riesce ad avvolgere anche i suoi film più piatti, infatti, sarebbe anche lecito farlo: figuriamoci quelli inequivocabilmente validi ed intriganti come questo. Dunque mi pare opportuno cercare di seguire più del solito quanto concretamente rappresentato sulla pellicola (l’ho finito di fare qualche minuto fa), senza sconfinare nelle solite improbabili metafore da acido lisergico.

    Dick Laurent è morto” è la misteriosa frase con cui si apre e si chiude uno dei migliori film diretti da David Lynch, sceneggiato da lui stesso e da Barry Gifford; si tratta di una storia dalle forti tinte noir con un enorme “buco” narrativo all’interno, ovvero l’inspiegabile mutazione fisica del musicista Fred nel meccanico Pete. Dal punto di vista interpretativo sono state scomodate complesse strutture matematiche (il nastro di Moebius, da parte di Enrico Ghezzi), idea forse efficace ma che possiede il difetto di spiegare una cosa già intricata con una altrettanto difficile.

    I DOPPI RUOLI DEL FILM. In primis bisogna inquadrare ovviamente Renee Madison / Alice Wakefield, sempre interpretati dalla Arquette: la prima è la conturbante consorte del musicista, la seconda è l’ambigua compagna del gangster Mr. Eddy, che possiede a sua volta un doppio di nome Dick Laurent. Il film è incentrato su un rapporto di coppia, peraltro, che sembra non trovare equilibrio in nessun caso, come a dire due estremità attratte l’una dell’altra che non combaciano.

    DOPPIA NARRAZIONE. A quanto si vede è possibile individuare due livelli di narrazione, che riguardano essenzialmente lo stesso protagonista che – come vuole il surrealismo, cioè in modo libero dalla coerenza prettamente logica e basandosi esclusivamente su un flusso onirico – è come se cambiasse internamente in modo così pesante da risentirne nell’aspetto fisico.Vi sono due narrazioni innestate, il cui inizio e fine non coincidono (da qui il paragone con il nastro di Mobius proposto da Ghezzi), anche se molto probabilmente riguardano la stessa persona dal punto di vista della storia reale (uxoricidio) e di quella che il protagonista sogna (e vorrebbe) fosse accaduto (la moglie che lo cerca nuovamente): il contatto con la realtà ritorna solo quando sta per morire sul serio.

    DOPPIA PERSONALITA’. Qualcuno ha parlato di un assassino dalla doppia personalità: puo’ anche darsi, tuttavia a mio avviso si tratta di suddividere il realismo della prima metà con una storia che il protagonista immagina di aver vissuto, fino alla conclusione che è comunque per lui fatale. La distinzione, ovviamente, è tutt’altro che netta, anzi possiede margini molto sfocati. In altri termini il cambiamento dall’insicuro jazzista Fred nel meccanico Pete (Balthazar Getty) prefigura una mutazione del protagonista, che pero’ è impossibile che sia avvenuta sul serio (e siccome si tratta di surrealismo, la cosa passa addirittura in secondo piano). Fred dichiara apertamente, all’inizio del film, di non amare le videocamere perchè “preferisco ricordare le cose a modo mio“, e questo è un po’ il manifesto delle successive sue intenzioni.

    PARALLELISMO TRA FRED E PETE. Si tratta della stessa persona? Sia Fred che Pete soffrono di un’amnesia, nessuno dei due ricorda dove abbiano conosciuto l’Uomo Misterioso (che pero’ sembra conoscerli entrambi, addirittura recandosi a casa di ognuno). Fred appare invecchiato e depresso per il tradimento da parte della moglie, Pete invece è giovane e molto sicuro di sè; la strana allucinazione che segna lo “stacco” tra i due personaggi, ovvero i genitori e la ragazza di Pete che urlano qualcosa al ragazzo sulla porta è come come una “porta” tra realtà e sogno.  Pete afferma di odiare il jazz, mentre Fred è un musicista proprio di quel genere, il quale pero’ tende a ricollegare le proprie esibizioni al fatto che la moglie se ne disinteressasse completamente. I due soffrono di forti mal di testa, e sembrano destinati ad incontrare rispettivamente l’ambigua Renee/Alice (Patricia Arquette), con la quale instaurano un rapporto passionale, ma piuttosto “soffocato” per via di una terza persona (il viscido Andy per una, ed il cinico e potente Eddy per l’altra). In aggiunta a questo, sia Renee che Alice parlano con il rispettivo compagno di un “lavoro” non specificato, ma l’allusione alla natura sessuale della cosa sembra, in entrambi i casi, piuttosto evidente. Neanche a dirlo, infine, i due personaggi, pur partendo da presupposti abbastanza diversi, subiscono una sorte avversa che li spinge progressivamente verso il baratro (poco importa se per mano di un gangster o per mezzo di una sedia elettrica: il movente è per entrambi di natura passionale). Come notato giustamente dal blog “Il proiezionista”, inoltre, le convulsioni che ha Pete mentre fugge dalla polizia dopo essere “mutato” per la seconda volta sono quasi certamente quelle dovute alla sua esecuzione, che nel frattempo sta avvenendo.

    L’ UBIQUITA’ DELL’ UOMO MISTERIOSO. Scena cult (ne scelgo una, ce ne sarebbero davvero parecchie): l’Uomo Misterioso parla con Fred alla festa, ed afferma di trovarsi davanti a lui e a casa sua contemporaneamente. Come prova di quanto dice, lo invita a fare il proprio numero e risponde effettivamente la stessa voce per telefono. Senza dare altre spiegazioni, l’uomo sorride e se ne va. Questo essere in due posti contemporaneamente, a mio parere, rinsalda il tema del doppio che ossessiona Lynch in questa pellicola, ed alimenta il senso di paranoia che l’Uomo Misterioso – il ricettatore e killer assoldato da Fred stesso, in sostanza – evidentemente gli infonde.

    LA COPPIA CHE NON REGGE. Altra scena molto significativa: per sottolineare la freddezza di Renee e la passione che, nonostante tutto, ancora avvolge Fred, viene mostrato un amplesso con i primi piani dei protagonisti, al termine del quale la donna sorride con indifferenza e da’ una pacca sulla spalla del compagno dicendo, in modo quasi beffardo: “Non ti preoccupare, non è nulla“. Questo è in aperta contrapposizione con quello che invece è Pete: sicuro di sè e del suo lavoro, e con una vita sessuale molto attiva (con la fidanzata Sheila, intepretata da Natasha Gregson Wagner, che con la donna di Eddy).

    Tra le note finali, una splendida colonna sonora di Rammstein, David Bowie, Trent Reznor, Marylin Manson, Angelo Badalamenti, Lou Reed ed altri ancora), e la partecipazione in un piccolo cameo sia di Manson che di Henry Rollins.

  • Se credi di essere un giornalista da Pulizter, guarda “Il corridoio della paura”

    Un giornalista molto ambizioso si fa rinchiundere in un ospedale psichiatrico: il suo obiettivo è descrivere direttamente la propria esperienza con i malati di mente – e vincere il Premio Pulizter.

    In due parole. Ottimo film dai toni hitchcockiani con un tocco di follia in più, capace di essere particolarmente appetibile per gli amanti del thriller psicologico. Un protagonista apparentemente sicuro di sè, ed in cui è facile riconoscersi, viene progressivamente travolto dal male interiore che affligge l’ospedale psichiatrico. Il tutto diventa una scusa per tenere sulle spine lo spettatore, lanciare messaggi sociali e satireggiare razzismo e intolleranza.

    Un ospedale psichiatrico diventa teatro di un omicidio ai danni di un paziente, ed un giornalista intraprendente – aiutato dalla compagna spogliarellista – si fa ricoverare fingendosi impazzito. Lo scenario che si apre davanti a lui è inquientante: il “corridoio della paura” + quello dell’ospedale, nel quale i ricoverati trascorrono “l’ora dell’amicizia” comportandosi come se fossero sul corso principale della città. Due infermieri (prevedibilmente uno “buono” e l’altro “cattivo”) ne seguono perennemente i movimenti, mentre Johnny Barrett fa amicizia con un italiano-tenore, con un reduce dalla guerra in Corea, con un nero che inneggia al Ku Klux Klan e con un promettente fisico regredito allo stato infantile. Grandissima cura dei dettagli, riprese efficaci ed incisive ed ottime interpretazioni la fanno da padrone, in un film in cui la follia arriva sempre senza preavviso (e in modo probabilmente non irrealistico).

    Lo scorrere del film è suddiviso fra tre personaggi in particolare, da cui il protagonista cerca di trarre informazioni per risolvere il caso di omicidio. Particolarmente riuscita la sequenza annessa al razzismo, nella quale il ragazzo di colore fa un vero e proprio comizio nel corridoio, riuscendo ad istigare tutti i pazienti contro un singolo: una scena che rivela uno dei tanti messaggi di natura satirico-sociale del film stesso. Il contesto de “Il corridoio della paura” fa capire, effettivamente, quante poche possano essere le differenze tra il mondo reale e quello di un ospedale psichiatrico, in quanto in entrambi regnano sostanzialmente i medesimi meccanismi perversi. Le incomprensioni, la mancanza di comunicazione ed i fraintendimenti sembrano coniugarsi ai medesimi livelli, con la differenza che la parte repressiva viene affidata agli infermieri invece che alle autorità. Geniale, poi, che Fuller abbia reso le allucinazioni dei vari personaggi a colori (i footage tratti da “Japan for House of Bamboo” e quelli girati per l’incompiuto “Tigrero“), mentre il resto del film è in un vivido bianco e nero.

    Una nota di merito ulteriore è legata poi al meccanismo quasi hitchockiano con il quale i due amanti si fingono fratello e sorella: gli incontri che avvengono periodicamente nel “giorno delle visite” sono dei veri e propri capolavori di tensione, proprio perchè i due sono tentati dal comportarsi da coppia mentre il resto del mondo deve credere che siano consanguinei.

    Una visione “must”, in definitiva, nell’ambito del filone thiller “manicomiale”, che molti emuli avrà negli anni successivi (“Qualcuno volò sul nido del cuculo” e, più recentemente, Gothika).

  • Cuori in Atlantide: trama, cast, spiegazione

    Titolo: Cuori in Atlantide
    Regia: Scott Hicks
    Cast principale: Anthony Hopkins, Anton Yelchin, Hope Davis

    Storia:
    “Cuori in Atlantide” è un film del 2001 diretto da Scott Hicks, basato su una serie di racconti brevi di Stephen King. La trama si svolge nell’estate del 1960 e segue un giovane di nome Bobby Garfield (interpretato da Anton Yelchin) che sviluppa un legame profondo con il misterioso inquilino della casa di fianco, Ted Brautigan (interpretato da Anthony Hopkins). Bobby scopre che Ted ha poteri telepatici e sta cercando di sfuggire a una misteriosa organizzazione che vuole sfruttare le sue abilità.

    Storia dettagliata:
    Il film si concentra sul rapporto tra Bobby e Ted, un uomo misterioso che si stabilisce nella casa di fianco. Ted rileva le capacità telepatiche di Bobby e stabilisce una connessione speciale con lui. Ted rivela di essere inseguito da una forza oscura che cerca di sfruttare i suoi poteri. Mentre la relazione tra i due cresce, Bobby deve affrontare anche le complessità dell’infanzia e le dinamiche familiari difficili.

    Nel corso del film, si scopre che la madre di Bobby, interpretata da Hope Davis, è coinvolta con l’organizzazione che sta cercando di rintracciare Ted. Bobby decide di aiutare Ted a sfuggire alla cattura, nonostante il pericolo che ciò comporta. Nel processo, Bobby scopre la vera natura dell’amicizia, l’importanza di affrontare le proprie paure e la complessità del mondo degli adulti.

    Temi principali:
    Il film esplora temi come l’amicizia, l’innocenza dell’infanzia, la corruzione dell’età adulta e il potere della memoria. Ted funge da figura paterna per Bobby, guidandolo attraverso la transizione dall’infanzia all’adolescenza e insegnandogli importanti lezioni sulla vita. Il film dipinge un ritratto affettuoso e nostalgico degli anni ’60 e delle esperienze che plasmano l’identità di Bobby.

    Curiosità:

    • Il film è basato sulla raccolta di racconti di Stephen King intitolata “Cuori in Atlantide”, anche se il film si concentra principalmente su uno dei racconti, “La Camera della Scimmia”.
    • Anthony Hopkins è elogiato per la sua interpretazione di Ted Brautigan, catturando l’essenza misteriosa e complessa del personaggio.

    Spiegazione del finale con spoiler

    “Cuori in Atlantide” è un film che tocca il cuore degli spettatori attraverso il rapporto unico tra il giovane Bobby e il misterioso Ted. La storia offre una visione intima delle sfide e delle opportunità dell’infanzia, avvolta in un alone di mistero e magia. La telepatia di Ted aggiunge un elemento di fantastico al contesto realistico degli anni ’60. In definitiva, il film esplora la profonda influenza che le persone speciali possono avere sulla nostra vita e il potere della memoria nel plasmare chi siamo diventati.

    Alla fine il protagonista afferma che Ted sparisce dalla sua vita, e pur ricordandolo sempre non lo incontrò mai più, entrando ufficialmente nell’età adulta e perdendo, apparentemente, le propri capacità telepatiche.

    Immagine: Di DMarx22 – catturato da me, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=9739545

  • Vestito per uccidere è la storia di un uomo imprigionato nel corpo di una donna

    Un killer uccide una donna dentro un ascensore: unica testimone del delitto, una prostituta che si trovava casualmente sul posto…

    In breve. Ottimo thriller di De Palma ispiratissimo ai lavori di Dario Argento, ma a questi livelli è quasi impossibile capire “chi” si sia ispirato a “cosa”: la trilogia argentiana era già uscita da un pezzo, Tenebre sarebbe venuto fuori solo due anni dopo. Un film, per toni e contenuti, decisamente iconico degli anni 80, uno dei migliori del genere.

    Sul finire degli anni 70 Brian De Palma scrisse una sceneggiatura basata su “Cruising” (che significa “trovare partner sessuali casualmente“), un articolo del giornalista Gerald Walker incentrato sulla figura di un serial killer che sceglieva vittime omosessuali. Non riuscendone ad ottenere i diritti, lo script passò al regista William Friedkin che lo diresse nello stesso anno proprio con quel titolo, mentre alcune influenze di quella storia finirono in “Vestito per uccidere“.

    Thriller forte, dai toni erotici marcati (anche se visto oggi, probabilmente, non fa lo stesso effetto) e caratterizzato da una vena tipicamente argentiana: ci sono il killer in impermeabile, il testimone chiave minacciato, il poliziotto-macchietta, l’assassinio in ascensore. Molto di questo film è chiaramente ispirato a Profondo Rosso (uscito cinque anni prima), con la differenza che i suoi toni sono molto più incentrati sulla componente erotica e sulle sue ambiguità, piuttosto che sull’atmosfera malsana. Molteplici riferimenti della storia, e a livello stilistico, rimandano al Fulci de Una lucertola con la pelle di donna, ma anche a Perchè quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di Carmineo.

    La figura dell’assassino, un “uomo imprigionato nel corpo di una donna“, è una sorta di Norman Bates in forma più esasperata, anch’esso decisamente iconico. Il suo modus operandi prevede semplicemente l’uso di un rasoio, lo stesso che avremmo rivisto infinite volte nel seguito, quantomeno fino alle fantasiose trovate di Saw. A livello stilistico De Palma si ispira ad Hitchcock, specie in certe sequenze “virtuosistiche”: quella in ascensore (col suo indimenticabile gioco di riflessi nello specchio), la sequenza finale nella penombra (mix perfetto di erotismo e tensione), ma soprattutto quella dei due amanti occasionali al museo Metropolitan di New York, che dura ben 9 minuti. Dopo interminabili silenzi, il tutto culmina in un sesso che in Vestito per uccidere perde qualsiasi valenza liberatoria: è puro nichilismo. Il killer, in questo senso, è una sorta di giustiziere-moralista che, come si vedrà, vive per primo dei pesanti conflitti di personalità.

    La narrazione di “Vestito per uccidere” intriga nella sua semplicità: De Palma dirige un ottimo giallo (diremmo quasi all’italiana, se non fosse per l’ambientazione puramente U.S.A.) rinunciando a profili psicologici troppo complessi, dettagli rivelatori improbabili e finali ridicoli. Questo serve a mantenere credibile il livello della storia senza stroncarne l’efficacia e, soprattutto, senza esagerare con l’exploitation: l’unica sequenza davvero brutale, in effetti, è proprio l’assassinio di quella che sembrava la protagonista, mentre resta anche impressa una megalopoli spaventosa nella sua indifferenza (una rappresentazione che ricorda, per certi versi, quella vista in vari polizieschi tipo Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo).

    De Palma, regista ed autore del soggetto, crea di fatto l’equivalente di un thriller erotico all’italiana, un esperimento che riesce e lascia il segno ancora oggi. In “Vestito per uccidere” si respira un’atmosfera puramente ottantiana a cominciare dagli interpreti scelti: un dottore ambiguo, un poliziotto sbrigativo, una prostituta che si rivelerà la vera chiave di volta. In particolare è quest’ultima (interpretata da Nancy Allen, all’epoca moglie del regista) a caratterizzare “Vestito per uccidere” dal punto di vista narrativo e visuale: lontana duecento miglia dalla parte mascolina che l’ha resa più celebre (era l’agente Anne Lewis di Robocop), qui sprigiona la propria sensualità con classe e sicurezza. La “strana coppia” che il suo personaggio crea con il figlio adolescente di Kate Miller, nerd della prima ora deciso a scovare l’identità dell’assassino, rimane impressa nella memoria dello spettatore e colpisce per la sua carica di umanità.

    Come già nei film più espliciti di Argento, anche De Palma venne accusato di aver calcato troppo la mano (più che sulla violenza, ridotta all’essenziale) su sessismo ed erotismo: del resto il film si apre (e si chiude) in un’atmosfera onirica che, probabilmente, non è stata capita da molti. Una sorta di incubo erotico diventato di culto a cui Fulci ed Argento, a dirla tutta, erano già arrivati quasi dieci anni prima. “Vestito per uccidere” è uno dei migliori thriller del periodo a livello mainstream, e merita una visione ancora oggi.

     

  • The Bad Batch: pulp cinico alla Tarantino

    In un futuro prossimo, una ragazza viene condannata a vagare nel deserto in quanto “indesiderata” dalla società.

    In breve. Singolare variazione di tema rispetto al post-apocalittico classico, che rimane sempre popolato di anti-eroi e che, in questa sede, vede una protagonista femminile.

    L’operazione della regista Amirpour (questo è il suo secondo film), fin dai primi fotogrammi si mostra debitrice del cinema di genere di ogni ordine e grado, con l’analogo più recente dato da Revenge, ma anche a livello di ambientazione desertica e surreale in Laissez bronzer les cadavres. Arlen prende molto delle tipiche caratteriste tarantiniane (Kill Bill, Pulp Fiction) ma, ancora prima, da film come Thriller – En grim film: anche in quel caso, in effetti, abbiamo una protagonista in cerca di vendetta (e con un vistoso problema fisico: una volta alla vista, l’altra agli arti).

    Lavori del passato in grado di ribaltare, da sempre, gli assunti narrativi mainstream, quelli che impongono “l’eterna lotta tra il bene ed il male“, li stravolgono, li rimasticano per poter poi proporre (in modo meno manicheo) una storia cruda, diretta ed esplicita come non mai.  È alquanto limitativo che ci si limiti a bollare come “tarantiniano” The bad batch, perché – alla prova dei fatti – è molto di più: basterebbe considerare sequenze simboliche e grottesche come la “comunione” dei seguaci del santone mediante LSD, ad esempio, per convincersene. Per quanto il ritmo del film sia costante e privo di buchi narrativi, la vera perla conclusiva è sul finale, che ironizza sul degrado che ha caratterizzato il film ed è costruito su un singolare humour nero.

    Se è vero che le dinamiche del film sono totalmente da film di genere (che è – quasi sempre, direi – esercizio di stile per il piacere di proporlo) qui si prova a trasmettere un feeling ulteriore allo spettatore. Ciò implica che, tirando troppo la corda sulle possibili interpretazioni, si rischi solo di proporne di ridicole. Al netto di questi dubbi, inevitabili per un film del genere, The bad batch sembra voler proporre – come nella tradizione post-apocalittica (si veda anche The divide)  – un’umanità completamente allo sbando, in cui la lotta per la sopravvivenza viene imposta fin da bambini ed in cui, soprattutto, si evidenzia come qualsiasi modello di società sia soggetto a limiti e problematiche.

    La storia, del resto, inizia dagli stessi presupposti da cui partiva Fuga da New York: nel film di Carpenter i reietti erano stati confinati in una città abbandonata, mentre qui (in un gioco complementare che richiama, a sua volta, film come Interceptor) sono mandati fuori, in esilio – in un deserto sconfinato, in cui sembrano coesistere vari villaggi ed altrettanti gradi di civiltà: tutte basate sull’abuso, sulla violenza o sulla manipolazione, ognuna con rispettivi limiti e nessuna davvero “perfetta”. Un pessimismo antropologico piuttosto evidente, visibile anche nei caratteri dei personaggi che non sono mai pienamente identificabili come “buoni” o “cattivi”.

    In The bad batch (letteralmente il lotto difettoso, l’indesiderato/a – per inciso, l’assonanza con The bad bitch sembra del tutto incidentale) coesistono i ricicli di genere, il cannibalismo, l’horror sociale, l’ambientazione modello Mad Max e il culto nichilista della vendetta, quella feroce (e femminile) inaugurata da film come I spit on your grave. Prescindere da tutti questi aspetti, come molte analisi piuttosto grossolane sul web hanno fatto, secondo me significa svilire completamente un’opera davvero interessante e, per quanto non inedita, in larga parte imprevedibile ed originale.

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