Secondo alcuni meme stereotipati (quanto ammantati di pretese intellettuali) c’è gente che preferisce la follia alla normalità, slogan out of context e riutilizzabile a piacere, per qualsiasi necessità. Del resto, esistono meme che NON siano stereotipati?
Sei folle se non esci per l’aperitivo del venerdì, sei folle se non stringi forte il posto fisso, sei folle se non ti sposi, sei folle se ti vaccini (o se non lo fai), fino ad arrivare ad una apparente contraddizione: sei folle se non sei folle.
Follia è un modo per riferire troppe cose, anche se resta molto legata alla totale mancanza di conformismo, in un mondo in cui pero’ – va detto – l’evoluzione è continua, il mondo cambia e ciò che era fuori norma ieri è normale oggi, e viceversa. Un gioco di gruppo vagamente beota, surreale e poco funzionale, a cui avremmo preferito non partecipare. Un gioco di gruppo in cui per intervenire nel dibattito basta semplicemente negare ciò che dice il prossimo, e tanti saluti alla tua argomentazione, che era già insita nell’aver negato qualcosa.
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Ma poi che cos’è mai questa normalità, se non “un’invenzione del potere“? Normalità, in fondo, si intende anche come “nella norma”, nella media, e potrebbe non esserci niente di male, a volte, nell’esserlo. A quel punto uno sarebbe portato a pensare che possa mancare qualcosa nel discorso, che tutto questo sia frutto di un cherry picking molto boomer, o che magari è ‘na cazzata, parafrasando nuovamente Vincenzo Salemme in una delle sue più note commedie (E fuori nevica).
Viviamo in un mondo meraviglioso, non trovi?
È interessante notare quanto il cinema abbia girato sulla follia, e lo faremo oggi sulla falsariga uno dei saggi più celebri mai scritti sull’argomento: Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, saggio pubblicato in latinorum (avrebbe forse detto orgogliosamente il buon Renzo Tramaglino, potenziale grillino della prima ora).
Siamo nel 1511, e lo splendido saggio di Erasmo è arrivato fino ad oggi come uno dei libri più citati, longevi e proto-satirici mai scritti. E facciamocela ‘na risata, ogni tanto, che la vita è breve: del resto viviamo in un mondo meraviglioso, senza pandemie, senza guerre, letteralmente senza niente: what a wonderful world.
Scriveva Erasmo:
comunque parlino solitamente di me i mortali (conosco bene la brutta fama della follia, anche tra i più folli) io sola, tuttavia, io sola vi dico, rallegro con la mia divina potenza dèi e uomini.
È la Follia in persona a parlarci, in un surreale monologo di poco più di duecento pagine, in cui la stessa si prefigura come personaggio femminile scaltro, furbesco e dotato di capacità manipolatrici non da poco.
Spacciarsi per “pazzo” per continuare a fare i propri comodi
Figlia della ricchezza e della giovinezza, rappresentate simbolicamente dal dio Pluto e dalla ninfra Neotete, la Follia viene rappresentata come un elemento scardinante e liberatorio, i cui folli non sono altro se non suoi adepti. Ovviamente il contesto cinquecentesco va ribadito e specificato, dato che consentiva di scriverci sopra senza le ambiguità, le post verità e i beceri travisamenti tipici della nostra epoca, in cui qualsiasi egoista o ciarlatano sarebbe abile a spacciarsi per “pazzo” pur di continuare a fare (o dire) i propri comodi.
La follia può difenderci dalle tendenze dispotiche
C’è una finalità precisa, del resto, in quella dissertazione della Follia: la donna infatti fa seguito alla triste constatazione di come cultura e maturità tendano ad appassire il vigore di ogni bellezza, illanguidendo la vivacità e preservandoci dal timore della vecchiaia, della tristezza e della morte con i suoi provvidi interventi. L’Elogio della follia non è la lode sperticata dell’irrazionale che alberga in uomo:sembra, al contrario, soprattutto una follia intesa come naturale difesa dalle tendenze dispotiche, nonchè la massima espressione della libertà innata di cui siamo in grado di disporre, ogni uomo e ogni donna, senza distinzioni.
La stessa libertà che, ricordavano i DEVO nel brano Freedom of choice, abbiamo saputo travisare.
Immedesimarsi in un altro Io
Il gabinetto del dottor Caligari è il saggio cinematografico espressionista per eccellenza, senza contare che tratta dichiaratamente di follia, tra personaggi grotteschi, inquadrature disarmoniche e simboli folli, senza contare che – rivisto oggi – non è “solo” uno dei maggiori film del genere mai girati: è anche un saggio sul valore dell’immedesimazione (di un malato psichiatrico, o presunto tale, “colpevole” di ritenersi, attraverso un misterioso gioco di ruolo, direttore del manicomio in cui è ricoverato) e sulla conseguente componente giudicante da parte della società sul personaggio.
L’atteggiamento giudicante che guida, da sempre, la società in cui viviamo in caso di dissensi individuali o pareri non polarizzati (prima o poi qualcuno anche dovrà scrivere un saggio, dettagliato e lungo almeno quanto L’essere e il nulla di Sartre, su quanto sia facile sentirsi anti-conformisti, anche quando non lo si è). Ed è ancora più interessante considerare che la storia di Caligari sarebbe stata costruita, secondo alcune ricostruzioni, dalla volontà censoria di rendere rassicurante l’intreccio originale, considerato sovversivo e anti-autoritario.
Se la storia racconta del folle interpretato da Werner Krauss in grado di sfruttare un sonnambulo (Conrad Veidt) per commettere omicidi, il sottotesto narrativo è influenzato dalle esperienze traumatiche dei due sceneggiatori (Janowitz e Mayer) dopo la prima Guerra Mondiale, da cui tornarono con idee sovversive e pacifiste. Sottotesti che non era facile far passare all’epoca, e che dimostrano nel concreto la natura politica del cinema (così come quella del teatro, politico – o potenzialmente tale – fin dai suoi albori).
Siamo abbastanza sicuri che Al Jourgensen fosse ironico, mentre cantava questo brano.
Il film di Weise tratta di un’autorità brutale quanto irrazionale, da cui tanta critica ha dedotto (a volte mediante azzardi sociologici rivedibili) del perverso conformismo che indusse la Germania a non ribellarsi ad un’autorità sempre più squilibrata: un’autorità da non mettere troppo in discussione, ovviamente: si veda l’innesto della parte iniziale e finale per non far sembrare il film troppo “ribelle”.
La non ribellione all’autorità, in realtà, è spiegabile in termini di decine di successivi esperimenti sul conformismo indotto o sul bias della leadership: a quel punto, sia pure in un simbolismo che può sembrare grezzo, Cesare diventa facilmente il soldato sonnambulo indotto ad uccidere dal governo, a sua volta impersonificato da Caligari, fino ad arrivare alla realtà esasperata, soggettivizzata, narcisista e implicitamente conformistica per quanto, in modo vagamente psicotico, liquida e iperconnessa.
Certo, Caligari potrebbe pertanto aver intuito gran parte delle basi sociali, etiche e filosofiche su cui parte della modernità avrebbe finito per fondarsi, anche grazie alla sua capacità di “reinterpretare” fatti oggettivamente inattaccabili: facendolo, nello specifico, cambiando senza preavviso lo scenario, cambiando le carte in tavola, sfruttando atteggiamenti manipolatori e “facendo sembrare pazzo” chiunque non fosse allineato.
Per altri versi, ovviamente, il film di Robert Wiene si presta a letture che rischiano di diventare grossolane e che, di fatto, andrebbero sempre sostenute da adeguati approfondimenti e riferimenti (che qui non faremo per amor di brevità, e in fondo perchè ci consideriamo abbastanza folli da non farlo: ci basta seminare il seme del dubbio su certo fideismo che, ancora una volta, si auto-etichetta come anticonformista).
La follia di definire la verità a furor di popolo
L’autore definisce nel testo (edizioni ET CLASSICI della Einaudi, per chi fosse interessato a leggere o rileggere) anche una primitiva forma di oclocrazia, la degenerazione della democrazia in cui si decide a maggioranza ad oltranza, anche a costo di fomentare abusi e irrazionalità. La Follia infatti, scrive Erasmo, sa che più sciocche sciocchezze si scrivono, tanto più si sarà apprezzati dalla gran massa, ossia dalla totalità dei folli e degli ignoranti. Perchè infatti preoccuparsi dello spregio di tre esperti, ammesso che li leggano? Quale valore avrà il voto di così scarsi intenditori in una folla così sterminata di plaudenti?
Il seme della follia e la psicologia sociale
Nel 1995 John Carpenter immagina la storia un autore di libri horror riscuotere così tanto successo da provocare la fine del mondo, impadronendosi dello stesso e dettando dispoticamente le proprie regole. Il tutto anche sulla falsariga del fideismo dei suoi lettori, che credono a Sutter Cane e al suo verbo e diventano letteralmente disposti ad uccidere per accondiscendere la sua narrativa: una messa in guardia notevole, quella del regista americano, che forse ha prefigurato il mondo in cui finiremo per vivere nel modo più lucido mai realizzato.
Raramente un film ha “previsto” il futuro come Il seme della follia, in cui non solo si prevede la fine del mondo – che è una conclusione della storia dell’uomo spaventosa quanto, a ben vedere, fin troppo sbrigativa, oltre che elaborata di recente in Don’t look up – no, non ci basta pensare questo e sarebbe ingenuo pensarci, toglierci il pensiero. Non dobbiamo commettere l’errore di pensarlo, così come sarebbe stato riduttivo farlo per il lavoro seminale di Wiene.
La “profezia” de Il seme della follia è insita nella più perversa psicologia di massa, che porta tutto il mondo ad impazzire, facendosi manipolare da un foglio stampato, sia pure stato scritto da un mediocre scrittore di genere. La profezia risiede pure nei mostri inconsci che albergano nelle profondità del nostro animo, in grado di perseguitarci con paure irrazionali, reazioni di pancia o senso di colpa – le creature lovecraftiane che perseguitano l’assicuratore che, come sua unica colpa, aveva osato indagare o evocarle senza volerlo. La profezia è radicata pure, a dirla tutta, nell’aver individuato la pochezza umana e la sua scarsa propensione a collaborare, specie in caso di emergenza e in termini non puramente egoistici. La profezia, se davvero c’è (e ci piace credere che ci sia, per quanto sia solo un’assunzione letteraria) è prevalentemente quella che l’arte di Carpenter ha reso l’horror un genere sociologico che intrattiene, diverte (qualsiasi cosa significhi per lo spettatore) e fa riflettere ancora adesso, che all’apocalisse non ci siamo ancora arrivati.
Decine di altri film hanno declinato la (spesso triste) storia dei folli: il lavoratore stressato dal burnout, l’assassino impenitente, il folle insospettabile, il folle che non è un folle, il cittadino che si sfoga facendo a pugni col prossimo, il folle con un gatto nel cervello. E non possiamo non citare almeno Carnival of souls, altro film sulla follia che ha fatto decisamente scuola.
Del resto ricordatevi che è solo la Follia in persona, ad avervi scritto: tanti auguri, applaudite, state allegri, ubriacatevi, illustrissimi adepti della follia.