BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Donnie Darko: paradossi, alienazione, viaggi nel tempo

    Donnie Darko: paradossi, alienazione, viaggi nel tempo

    Problematiche sociali, viaggi nel tempo ed incomprensioni per l’incredibile storia di Donnie.

    In breve. Film splendido, enormemente sottovalutato: più discusso che visto, assolutamente da riscoprire.

    La storia di un adolescente americano contro un mondo che cerca di propinargli felicità a buon mercato. Se preferite, la parabola dell’incomprensione generazionale, dell’isolamento dell’individuo, del rifiuto dei dogmi, degli insegnamenti stereotipati per intraprendere la lunga – e non certo indolore – strada per costruire pratiche di vita a misura d’uomo, vivibili e reali. Il personaggio di Donnie, interpretato da un Jake Gyllenhaal ancora non noto come lo diventerà poi in seguito, è un po’ il simbolo di un qualcosa di archetipico: il nerd crepuscolare (cit.9 che viene isolato e represso dalla realtà, e sembra lasciarsi guidare nelle sue considerazioni dalla mistica e minacciosa figura di Frank. Personaggio dalla spiccata propensione alla ribellione contro il mondo esterno, ma sostanzialmente di indole buona si risveglia in un campo da golf con dei numeri scritti sul braccio: 28:06:42:12., che avviano un vortice di mistero e speculazioni di ogni genere non solo sul suo personaggio, ma anche sull’andamento della storia stessa. Rientrato a casa, infatti, si scopre che il ragazzo soffre di sonnambulismo, ed il caso ha voluto che uscendo da casa di notte sia scampato ad una morte orribile: il reattore di un aereo, del quale non si capisce la provenienza, è precipitato giusto nella sua stanza. Nel frattempo Donnie inizia a soffrire di allucinazioni, e vede Frank,un uomo che calza un grottesco costume da coniglio che sembrerebbe colui che gli ha salvato la vita.

    Scritto e diretto da Richard Kelly, Donnie Darko è un film ricco di suggestioni ed accenni quasi mai espliciti, che in altri contesti avremmo potuto definire puramente lynchiani. Di fatto, è uno dei tanti film basati sulle realtà alternative, una multi-narrazione che – alla lunga – potrebbe diventare ostica per molti spettatori, e potrebbe al tempo stesso affascinarne almeno altrettanti.

    Spiegazione del film

    L’idea di fondo, alla fine, è che gli stessi personaggi si muovano dentro almeno due realtà alternative, in cui la sliding door o elemento decisivo in favore dell’una o dell’altra sembra rappresentata dal reattore che si schianta sull’appartamento di Donnie, di cui verranno poi mostrate due possibilità (in un caso Donnie si salva perchè sonnambulo, nell’altro viene ucciso). Molti elementi dell’intreccio sono rimasti volutamente vaghi o indefiniti, e nessuno ha mai fatto chiarezza, mentre probabilmente chiunque guarderà il film si potrà fare un’idea precisa e molto personale.

    Probabilmente l’idea del regista è proprio quella di fornire degli spunti di riflessione, e che ogni spettatore possa farsi una propria idea in merito. Come in parte della produzione lynchiana più recente, è da focalizzare la figura del coniglio (che si ispira, a quanto pare, al film di animazione La collina dei conigli) come metafora della condizione umana, repressa tra mille vincoli e rappresentazione animalesca ed istintiva dell’uomo.

    Ma certo… il coniglio non è come noi. Non ha storia, libri, fotografie, non prova rimpianto o tristezza… e poi, mi scusi professoressa, a me piacciono i conigli, sono carini e arrapati, e quando uno è così è probabile che sia felice! Non si sa chi è, non si sa che cosa viva a fare, vuole solo fare sesso, quanto più sia possibile, prima di morire.

    C’è di tutto all’interno di Donnie Darko, a ben vedere: la teoria dei Wormhole (il reattore che precipita dallo spazio sembrerebe arrivare da lì), alcuni richiami alle teorie dell’astrofisico Stephen Hawking sui viaggi nel tempo, la creazione e dipanamento di varie dimensioni parallele, la curva spazio-temporale e la sua alterazione (e la possibilità di passarci all’interno) e così via.

    Da vedere almeno una volta nella vita in versione uncut (quella del DVD).

  • Il cameraman e l’assassino è il mockumentary anni novanta su un narcisistico serial killer

    Il cameraman e l’assassino è il mockumentary anni novanta su un narcisistico serial killer

    Scritto e diretto dal trittico Rémy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde (quest’ultimo interpreta il protagonista, per inciso), Il cameraman e l’assassino è un thriller crudo e fuori norma, girato con l’occhio documentaristico e distaccato nel rappresentare routine quotidiana di un serial killer qualunque. Per girare i tre registi si attengono ai dettami del cinema-verità, in cui la telecamera è onnipresente e fornisce un occhio distaccato e gelido su quello che accade. Come se, in sostanza, al posto di mostrare la “vita di ogni giorno” da vituperato “Grande Fratello” in relazione ad un VIP, si immaginasse di fare lo stesso con la quotidianità di un autentico assassino, senza cuore quanto impeccabile nei comportamenti sociali.

    Interrompiamo momentaneamente le riprese perchè il nostro tecnico del suono è rimasto ucciso. Sono i rischi del mestiere, e tutti noi ne siamo coscienti. Credo anche che dovremmo continuare il film, perchè è il tuo film.

    Il film – una produzione belga di inizio anni novanta, passata un po’ in sordina tra il pubblico quanto, per quel che vale, apprezzatissimo dalla critica –  è un mockumentary a tutti gli effetti, un falso documentario shockante e dall’evidente significato metaforico, uscito in un periodo in cui non andava neanche di moda etichettarli come tali.

    Una scia, quella del thriller realistico e vivido, che ha visto una folta partecipazione nel genere, a cui lo stesso afferisce a pien titolo, sia pur presentandosi in una singolare forma d’essai: un bianco e nero spettrale che, se non altro all’inizio, da’ la falsa impressione che assisteremo ad una raffinata opera di concetto. Nulla di più falso: Man bites god segue le discutibili gesta di un omicida narcisista che ha normalizzato da tempo i propri delitti e che, in un delirio di autocompiacimento, ha deciso di farsi filmare da una troupe mentre lavora.

    Vediamo questo elegante uomo di circa 30 anni (Ben) che, neanche a dirlo, ama ed impone di farsi riprendere mentre commette omicidi, rapine ed efferatezze varie, al puro scopo di documentarli con una videocamera e mostrarli, meta-cinematograficamente, al pubblico. Non si risparmiano i dettagli visivi: gli omicidi sono talmente espliciti e vividi da sembrare realmente accaduti, come avverrebbe in uno snuff. Ben, del resto, non è solo il killer egotista e scenografico tipico del genere: è anche uno che puoi ritrovarti sotto casa, dato che fa irruzione in case altrui perpetuando stupri e omicidi, ed è anche in grado di camuffarsi da troupe televisiva per farsi aprire la porta da sconosciute vittime.

    C’è veramente di tutto in questo film: dal thriller cruento modello Henry alla classica home invasion randomica condita di exploitation, ma c’è anche l’idea originale di introdurre una nemesi. Cosa insolita rispetto alla media di questi film che mostrano, da copione, un male che si auto-rigenera all’infinito, che non muore mai perchè connaturato all’essere umano. Non sembrano di questa idea i tre registi, che prima rappresentano tre tipi da exploitation pura, non punibili per definizione, poi spiazzano il pubblico (spoiler alert) rendendo loo pan per focaccia, a causa di un omicidio di troppo che ha scatenato il desiderio di vendetta da parte di una banda rivale (anch’essa, grottescamente, intenta a commettere omicidi e filmarli). La punizione sarà inesorabile e, peraltro, concretizzata in un finale che più scenografico non si potrebbe (la camera che finalmente cade e riprende l’ultima vittima da terra), il che ha probabilmente ispirato il finale un po’ più sconnesso di The Blair witch project (per inciso).

    Va scorporata con urgenza dal film, a questo punto, la banalizzazione indotta dalle considerazioni medie in merito, secondo cui il film sarebbe incentratosui serial killer che uccidono senza una ragione, come Henry – Pioggia di sangue“: questa ottica non è scorretta ma sembra parziale, e sembra dimenticare, nello specifico, l’aspetto legato alla caratterizzazione psicologica del protagonista. Che è ispiratissima a Henry ed è narcisista quanto il protagonista di American Psycho, ma è anche l’insospettabile villain medio da horror socio-psicologico. Ben uccide per capriccio, ma anche perchè nessuno fa nulla per fermarlo (almeno, per gran parte del film). Il cameraman e l’assassino è altresì intriso del comunissimo concetto secondo cui, di fatto, il comportamento impeccabile non è indicativo del vero buon comportamento dell’uomo nella società, per quanto lo renda rispettabile e nonostante si abbia l’impressione che la “professione killer” venga ignorata o, peggio ancora, sia socialmente accettata (alcuni dialoghi sono inequivocabili in tal senso: la professione di Ben viene considerata un mestiere come un altro, neanche fosse un idraulico, carpentiere o un medico).

    Siamo di fronte ad un sostanziale tentativo di exploitation d’essai, per dirla in breve, dove i personaggi esibiscono un cinismo ed un nichilismo che si presta ad un’unica, possibile chiave di lettura: l’umanità si è spenta, non reagisce più. Per le stesse ragioni, peraltro, è altrettant parziale limitarsi a considerare l’aspetto didascalico di Ben, killer inafferrabile quanto impossibile da sospettare, tanto quanto i suoi monologhi ricordano gli “a parte” da brivido, rivolti al pubblico, dei protagonisti di Funny Games. Il cameraman e l’assassino racconta una storia terribile, è vero, ma che si risolve come il più feroce dei rape’n revenge, sottogenere tabù a cui tutto sommato questo film potrebbe in teoria appartenere. L’aspetto orrorifico non è effettivamente quello dei mockumentary sovrannaturali più noti (The Blair Witch Project), ma è più sulla falsariga di thriller realistici come L’ultima casa a sinistra.

    Uccidi spesso bambini? No, no… questo sarà il secondo o terzo.

    Ben non è, in definitiva, soltanto l’ennesimo serial killer che agisce in modo psicotico o imprevedibilmente minaccioso: è un archetipo del genere, un simbolo vivente, che si diverte a disseminare di meta-citazioni le proprie battute, oltre a (s)parlare di cinema (letteralmente) come un qualsiasi, barboso cinefilo (non a caso, forse, è interpretato uno dei registi!), frustrato quanto affetto da egotismo patologico. I suoi pipponi sul cinema, sulle riprese e sul riprendere tutto, “anche mentre sto pisciando“, sono l’espressione di un cinema voyeuristico di cui soprattutto Videodrome aveva discusso a suo tempo.

    La cosa più interessante de Il cameraman e l’assassino, a questo punto, non è tanto l’essere una specie di gonzo movie (un sottogenere del porno che, per estensione, applichiamo in questa sede solo per via della soggettivizzazione estrema del protagonista mediante l’occhio della telecamera), non è solo la camera che segue passivamente l’assassino qualsiasi cosa faccia, qualunque cosa blateri o desideri commettere: è la normalizzazione degli eventi a rendere cult la pellicola, dotata di toni spaventosi quanto grotteschi (la ritualità degli assassini nel gettare cadaveri da uno stesso dirupo, ad esempio, ricorda una ripetitività più tipica del comico che del thrille). La circostanza è altresì evidente nella scena del compleanno di Ben, a cui (dopo gli auguri formali classii) viene regalata per il compleanno una fondina per la pistola e che alla fine, naturalmente, spinge il protagonista a sparare ad uno dei presenti, nell’imbarazzo (e non nell’allarme) dei presenti.

    Il cameraman e l’assassino venne presentato durante la Settimana internazionale della critica del 45º Festival di Cannes. In Italia è uscito in doppio formato VHS per la PolyGram Video e in DVD Tartan.

    Una videocamera che riprende tutto.

    Una videocamera che documenta l’orrore senza pietà, senza empatia, senza anima.

    Una trovata shockante che riprende classici come L’occhio che uccide, ripresa e rielaborata da tantissimi altri film – tra cui citiamo a campione random tra quelli che abbiamo visto e discusso su questo sito: il seminale The war game, gli inquietanti e più recenti Antrum o The Poughkeepsie tapes. Non è difficile immaginare, peraltro, che lavori come The last horror movie si siano molto ispirati a quest’opera, tanto da costituirne quasi un’elaborazione in chiave grottesca.

    Non si lasci intimidire dalla cinepresa! (Ben)

    Il cameraman e l’assassino (traduzione originale del titolo C’est arrivé près de chez vous, ovvero “è successo vicino a te” / “vicino a casa tua” ) è denso di riferimenti alla cronaca nera, mostrando la figura iconizzata di un killer anonimizzato, qualunque, che agisce senza preavviso, sulla falsariga di una frustrazione sessuale e/o relazionale. È un thriller che mette a disagio, che vive sulla verosimiglianza, che racconta con cinismo la disuminizzazione del soggetto e prova, a suo modo, ad analizzarne le possibili motivazioni.

    Non mancano nemmeno i riferimenti a terze parti: su tutte, il cocktail che si scola Ben dal nome Petit Grégory (Piccolo Gregory, nel doppiaggio italiano), che è un riferimento all’omicidio di Grégory Villemin, un caso di cronaca realmente avvenuto in cui il bambino di appena quattro anni venne trovato morto nel 1984, in un fiume, con le mani e le gambe legate. L’oliva nel cocktail legata ad una zolletta di zucchero dovrebbe essere, di fatto, un riferimento alla circostanza.

    Il cameraman e l’assassino viene anche ri-presentato al festival torinese ToHorror 2022.

  • Il talento di Mr. Ripley: cast, trama, significato, produzione

    Il talento di Mr. Ripley: cast, trama, significato, produzione

    “Il talento di Mr. Ripley” è un film del 1999 diretto da Anthony Minghella, basato sul romanzo omonimo di Patricia Highsmith.

    Sinossi e genere

    Si tratta di un thriller psicologico che segue le vicende di Tom Ripley, interpretato da Matt Damon, un giovane ambizioso e affascinante che viene incaricato di convincere un ricco playboy, interpretato da Jude Law, a tornare negli Stati Uniti dalla sua vita spensierata in Italia.

    Trama

    Tom Ripley viene inviato in Italia per convincere Dickie Greenleaf a tornare negli Stati Uniti. Dickie è un ragazzo ricco e disinvolto, e Tom inizia ad ammirarlo. Si stabilisce un legame tra loro, ma quando Dickie inizia a stancarsi della compagnia di Tom, questo sviluppa un’ossessione crescente per lui. L’amicizia si trasforma in qualcosa di oscuro e pericoloso quando Tom inizia ad adottare l’identità e lo stile di vita di Dickie.

    Cast:

    • Matt Damon – Tom Ripley
    • Jude Law – Dickie Greenleaf
    • Gwyneth Paltrow – Marge Sherwood
    • Cate Blanchett – Meredith Logue
    • Philip Seymour Hoffman – Freddie Miles

    Produzione e Regia: Il film è stato prodotto da Miramax Films e diretto da Anthony Minghella, che ha ricevuto anche crediti per la sceneggiatura. La pellicola ha ottenuto diverse nomination e riconoscimenti per le performance degli attori e la regia di Minghella.

    Storia e Significato

    La storia si concentra sulla complessa psicologia di Tom Ripley, un giovane ambizioso e problematico che cerca di sfondare nel mondo della ricchezza e del lusso adottando identità e comportamenti non suoi. Il film esplora temi come l’identità, la manipolazione, l’invidia e la ricerca ossessiva del successo, mettendo in luce il lato oscuro e torbido della natura umana. È una storia che analizza la dualità dell’essere umano e le sfumature morali che emergono quando si è disposti a tutto pur di raggiungere il proprio scopo.

    Sinossi

    In breve, il film segue il percorso di Tom Ripley mentre si insinua sempre più nella vita di Dickie Greenleaf, finendo per adottarne l’identità in un gioco pericoloso di bugie, manipolazioni e oscuri segreti.

    Significato

    Il film esplora le sfumature della personalità umana, la ricerca dell’identità e l’ossessione per la vita altrui. Rappresenta anche una critica nei confronti di una società ossessionata dalla ricchezza e dalle apparenze, mettendo in luce le conseguenze psicologiche della ricerca disperata del successo e della felicità a qualsiasi costo.

  • Seven: Oltre i Sette Vizi Capitali

    Seven: Oltre i Sette Vizi Capitali

    Un Viaggio Oltre i Sette Vizi Capitali

    Diretto da: David Fincher
    Scritto da: Andrew Kevin Walker
    Cast Principale: Brad Pitt (Detective David Mills), Morgan Freeman (Detective William Somerset), Kevin Spacey (John Doe)

    “Seven” è un thriller psicologico diretto dal maestro del genere David Fincher. Il film è noto per la sua cinematografia cupa ed estremamente atmosferica, che contribuisce a creare una tensione costante durante tutto il corso della storia. La visione distopica e viscerale di Fincher si fonde perfettamente con la scrittura magistrale di Andrew Kevin Walker, che ha creato una trama oscura e intensa che esplora i recessi più oscuri dell’animo umano.

    Trama e Connessione ai Sette Vizi Capitali

    La trama di “Seven” si sviluppa attraverso la caccia a un serial killer folle che sceglie le sue vittime in base ai sette vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia. I due detective protagonisti, interpretati da Brad Pitt e Morgan Freeman, si trovano a indagare su una serie di omicidi crudeli, ciascuno ispirato a uno dei vizi.

    Il film sfida gli spettatori a confrontarsi con l’oscurità dell’animo umano, esplorando in profondità le motivazioni e le azioni di chi incarna questi vizi. Kevin Spacey offre una performance memorabile nel ruolo del serial killer, John Doe, che usa i suoi omicidi come “opere d’arte” per porre sotto la luce della ribalta i vizi che ritiene corrompere la società.

    La narrazione si snoda attraverso un’atmosfera tesa e opprimente, culminando in un climax che svela la tattica crudele e sorprendente del killer per manifestare l’”accidia” attraverso la sua stessa azione finale.

    Altri film sui 7 vizi capitali

    ci sono diversi film che affrontano temi legati ai sette vizi capitali. Alcuni film possono esplorare i vizi in modo più esplicito, mentre altri possono trattare temi o personaggi che incarnano questi vizi in modo più sottile. Ecco alcuni esempi:

    1. “L’avvocato del diavolo” (1997) – Un avvocato di successo viene reclutato da uno studio legale misterioso, ma scopre che dietro al suo nuovo lavoro c’è un oscuro legame con i sette vizi capitali. Il film affronta temi di ambizione, lussuria e superbia in un contesto sovrannaturale.
    2. “Gluttony” (2000) – Questo cortometraggio fa parte di una serie di cortometraggi basati sui sette vizi capitali. “Gluttony” esplora il vizio della gola attraverso una storia oscura e surreale.
    3. American Psycho” (2000) – Mentre il film non tratta direttamente dei sette vizi, il protagonista Patrick Bateman rappresenta molte caratteristiche dei vizi capitali, tra cui l’avarizia, la superbia e la lussuria. Il film esplora la superficialità e la degradazione morale della società degli anni ’80.
    4. “The Great Gatsby” (2013) – Basato sul romanzo di F. Scott Fitzgerald, il film esplora temi di avarizia, lussuria e superbia attraverso la storia di Jay Gatsby e della sua ossessione per il sogno americano e l’amore per Daisy Buchanan.
    5. “There Will Be Blood” (2007) – Sebbene non tratti direttamente dei vizi capitali, il film presenta il personaggio di Daniel Plainview, che può essere interpretato come rappresentante dell’avarizia e della superbia, mentre cerca di arricchirsi nell’industria del petrolio.

    Questi sono solo alcuni esempi di film che toccano temi legati ai sette vizi capitali. Spesso i vizi sono utilizzati come elementi di caratterizzazione dei personaggi o come temi centrali per esplorare la complessità umana e morale.

    Sinossi del film Seven

    Nel tenebroso e piovoso mondo urbano, due detective dalla personalità opposta, il giovane e impulsivo David Mills (Brad Pitt) e il saggio e prossimo al pensionamento William Somerset (Morgan Freeman), si trovano a collaborare su una serie di omicidi brutali e inquietanti. Ogni omicidio sembra essere intrinsecamente collegato a uno dei sette vizi capitali, lasciando dietro di sé indizi macabri e inquietanti scene del crimine.

    Mills e Somerset si immergono in una caccia all’uomo tortuosa, mentre il serial killer, noto come John Doe (Kevin Spacey), continua a sfidarli, rilasciando indizi che sembrano essere più come prove in una macabra opera d’arte che come indizi criminali. I due detective scoprono di avere a che fare con un genio contorto, determinato a purificare la società corrotta attraverso la sua visione disturbante.

    Man mano che la trama si sviluppa, i detective si trovano a esplorare le angoscianti profondità dell’animo umano, costantemente sfidati dalla malvagità inspiegabile del killer. I vizi capitali, ognuno rappresentato da una vittima, diventano il filo conduttore della storia, mettendo in risalto i peccati nascosti e le paure più profonde di coloro che entrano in contatto con John Doe.

    La tensione cresce inesorabilmente, portando i detective verso un climax inquietante, in cui il killer svela il suo scopo di “completare” la sua opera d’arte con l’ultimo peccato capitale: l’accidia. Il film culmina in una conclusione scioccante e rivelatoria, in cui gli orrori dei vizi capitali vengono portati alla luce in tutta la loro oscurità.

    Spiegazione del finale (con spoiler)

    Nel film “Seven,” il serial killer John Doe (interpretato da Kevin Spacey) ha intrapreso una serie di omicidi, ognuno ispirato a uno dei sette vizi capitali: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia. I due detective protagonisti, David Mills (Brad Pitt) e William Somerset (Morgan Freeman), cercano di fermare John Doe mentre lui li conduce attraverso una serie di indizi morbosi e spaventosi.

    La trama raggiunge un climax agghiacciante quando Mills e Somerset finalmente individuano John Doe in una zona industriale deserta. Qui, Doe rivela che ha preso la moglie incinta di Mills in ostaggio, mettendo in moto una catena di eventi che culminano nell’epilogo sconvolgente.

    John Doe rivela che il suo obiettivo era quello di mostrare al mondo l’oscurità dei vizi capitali. Tuttavia, non è finita qui. Rivelando la sua vera intenzione di accidia, l’ultimo vizio, John Doe punta una pistola a Mills e lo sfida a ucciderlo. Con la sua azione, Doe completa il suo macabro capolavoro e dimostra che anche Mills è suscettibile ai vizi.

    Nel momento in cui Mills cede alla sua ira e uccide John Doe, il serial killer ha avuto successo nel dimostrare la sua tesi. La scena si conclude con Somerset guardare l’orizzonte con un’espressione preoccupata, poiché comprende l’oscurità che ha permeato la vita di Mills e la trappola in cui è caduto.

    In sintesi, la conclusione di “Seven” rivela che il killer ha usato gli omicidi come una sorta di esperimento sociale per dimostrare che tutti sono suscettibili ai vizi capitali. La sua azione finale dimostra che anche Mills, un uomo apparentemente virtuoso, può essere spinto oltre il limite dalla rabbia. La storia si conclude con una nota cupa e inquietante, riflettendo sulla natura oscura e complessa dell’umanità.

    Quali sono i 7 vizi capitali?

    I sette vizi capitali sono una lista di comportamenti considerati dannosi o peccaminosi nella tradizione cristiana. Essi rappresentano tendenze umane negative che possono portare a comportamenti distruttivi. Ecco una breve descrizione di ciascun vizio capitale:

    1. Superbia: L’eccessiva fiducia in se stessi o l’orgoglio smisurato. È considerato il capo di tutti i vizi e spesso porta a disprezzare gli altri. In una prospettiva psicoanalitica, la superbia potrebbe essere vista come una manifestazione dell’Io ideale, ovvero l’immagine idealizzata di sé stessi. Questo concetto potrebbe corrispondere al bisogno umano di sentirsi superiori agli altri per proteggere il proprio senso di valore. L’orgoglio eccessivo potrebbero derivare da una sproporzione tra il Sé reale e l’Io ideale, portando a un’illusione di grandiosità.
    2. Avarizia: L’attaccamento eccessivo ai beni materiali, spesso associato alla cupidigia e alla mancanza di generosità verso gli altri. La cupidigia può essere interpretata alla luce del concetto freudiano di pulsione di vita (Eros) e pulsione di morte (Thanatos). La cupidigia potrebbe derivare da un bisogno insaziabile di soddisfare le pulsioni, rappresentando una lotta costante tra il desiderio e il controllo. Questo può essere legato alla mancanza di gratificazione durante lo sviluppo infantile o a conflitti riguardanti la privazione e la gratificazione.
    3. Lussuria: Il desiderio eccessivo e disordinato per il piacere sessuale. È visto come una mancanza di autocontrollo e rispetto verso se stessi e gli altri. La lussuria potrebbe riflettere il concetto di libido di Freud, che rappresenta l’energia delle pulsioni sessuali. La lussuria eccessiva potrebbe derivare da una mancanza di regolazione della libido o da conflitti legati alla sessualità durante il periodo di sviluppo. Inoltre, potrebbe essere collegata a dinamiche di controllo e repressi conflitti di desiderio.
    4. Ira: La rabbia smodata e incontrollata che può portare a comportamenti violenti o distruttivi. È l’incapacità di gestire le emozioni negative in modo costruttivo. L’ira potrebbe derivare dalla repressione o dalla negazione di emozioni negative durante lo sviluppo. La frustrazione non elaborata o la mancanza di una via di sfogo per l’ira possono portare a scoppi emotivi incontrollati. In una prospettiva psicoanalitica, l’ira potrebbe essere vista come un modo per esprimere emozioni represse o risolvere conflitti interni.
    5. Invidia: Il desiderio di possedere ciò che gli altri hanno, spesso accompagnato da sentimenti di gelosia o risentimento. L’invidia potrebbe essere considerata in termini di “invidia del pene” nell’ambito della teoria psicoanalitica. Questo concetto rappresenta la percezione di una mancanza o una carenza, spesso legata a sentimenti di inferiorità. L’invidia potrebbe derivare da un senso di inadeguatezza nel confronto con gli altri o da una mancanza di soddisfazione nei confronti delle proprie esperienze.
    6. Gola: L’eccessiva ricerca del piacere attraverso il cibo, la bevanda o altre forme di soddisfazione fisica, spesso senza moderazione. Secondo la teoria psicoanalitica, le esperienze orali possono influenzare il modo in cui una persona cerca soddisfazione attraverso il cibo o altre forme di gratificazione fisica. Una gola eccessiva potrebbe riflettere una carenza durante la fase orale dello sviluppo.
    7. Accidia: Anche conosciuta come “pigrizia spirituale”, è la mancanza di impegno e zelo verso la propria crescita spirituale o verso il bene degli altri. L’accidia potrebbe essere associata al concetto di “resistenza” nella psicoanalisi. Questo può manifestarsi come una sorta di rifiuto o ritiro dalle sfide della vita o dall’elaborazione delle emozioni. L’accidia potrebbe riflettere la difficoltà a gestire le tensioni interne e a trovare un senso di scopo o motivazione.

    Questi sette vizi capitali sono spesso considerati le radici dei peccati e dei comportamenti negativi. Nella tradizione religiosa, si cerca di combatterli attraverso la virtù, l’autocontrollo e la crescita spirituale.

  • Il sacrificio del cervo sacro: trama, sinossi, cast, finale

    Il sacrificio del cervo sacro: trama, sinossi, cast, finale

    “Il sacrificio del cervo sacro” (titolo originale The Killing of a Sacred Deer) è un film del 2017 diretto da Yorgos Lanthimos. Il film è noto per il suo stile surreale / grottesco e la sua trama dotata di uno spaventoso climax narrativo.

    Di seguito, ti forniremo informazioni sulla trama, la regia, il cast, la produzione, lo stile, una recensione e una possibile spiegazione del finale del film.

    Trama

    Sulle prime il film si muove su un registro standard, apparentemente prevedibile: possiamo vedere un chirurgo di successo all’opera, mentre la prima sequenza si incentra su un’operazione a cuore aperto da cui capiamo che si tratta di un professionista di altissimo livello. Steven Murphy (Colin Farrell) vive in una grande città, ha una moglie (Nicole Kidman) anch’essa medico e due figli a cui sembra non mancare nulla. L’elemento perturbante è  Martin, un ragazzino che si vede periodicamente con il chirurgo, al quale vengono fatti regali costosi mentre la natura della loro relazione non viene esplicitata. La regia non fa capire di che tipo di rapporto si tratti, tanto più che la madre del ragazzo sembra essere attratta dal chirurgo, il ragazzo sembra emotivamente coinvolto dall’uomo e scopriamo che ha perso il padre: solo in un secondo momento sapremo che la responsabilità è stata dal chirurgo, in quanto è morto durante un’operazione.

    Si muove su questa falsariga Il sacrificio del cervo sacro, traendosi spunto dalla tragedia di Ifigenia, uccisa dal padre per soddisfare l’ira implacabile di un dio. Non era semplice inserire questo elemento mitologico in una trama ambientata ai giorni nostri ed è esattamente questo il quid che rende il film unico: anche a costo di non dare troppe spiegazioni e di sbatterlo in faccia allo spettatore senza troppi preamboli, determinando così uno dei più colossali “patti” tra regia e pubblico mai comparsi sullo schermo. Di per sé la storia del film è coinvolgente, e viene resa sostanziale da una regia solida quanto a suo modo distaccata: i vari momenti tragici del film vengono sottolineati da campi lunghi, e si tratta quasi sempre di una violenza che deriva dall’ordinario, dal familiare, come già in Funny games (che viene probabilmente omaggiato dalla sequenza delle federe del cuscino in testa ad alcuni personaggi, come vedremo). L’innesto nella trama dell’elemento mitologico “ifigenico” è accennato esclusivamente dal fatto che uno dei due ragazzi ha studiato questa tragedia a scuola, ma per il resto si tratta di un perturbante puro di cui nel pubblico nei protagonisti sembrano riuscire a capacitarsi. La potenza del film risiede proprio in questo accenno che non viene esplicitato: i personaggi non lottano contro un villain focalizzato, né tantomeno contro un’epidemia o un altro elemento a cui è possibile dare un nome: la tragedia ineluttabile è proprio nel non saper dare un nome ad un male che forse, come viene più volte accennato, è più psicologico che fisico, e che richiama all’eterna, ambigua questione se siano le malattie organiche a provocare problemi mentali o viceversa.

    Recensione

    Di per sé il film evoca diversi diversi temi: c’è il tema del patriarcato, esplicitato dal fatto da un genitore possa voler generare quanto voler distruggere la propria prole, avendo di fatto pieno controllo su entrambi gli aspetti. c’è anche il fatto non indifferente della presa di responsabilità, dell’etica professionale legata alla professione del medico, che viene posta in maniera controversa e raggelante. Queste cose è talmente lampante che viene anche detta, ad un certo punto, dalla figlia del protagonista, quando invita con toni umili e melodrammatici il proprio padre a fare “ciò che deve”. E in ballo c’è pure il topic dell’eugenetica: lo vediamo dalla sequenza di Steven che va a parlare con il preside della scuola, per sapere quale dei due abbia un migliore rendimento (o, per altri versi, quale dei vada sacrificato).

    La regia di Lanthimos è fredda, ispirata quanto spietata, riprende ogni scena con gelida lucidità, spesso e volentieri in campo lungo, e sembra farsi beffe di certo scientismo: il fatto che due medici non riescono a capire perché i figli stanno male rasenta ad un certo punto il grottesco, e appare come messaggio critico all’eccessiva “sicurezza di sè” di certa parte della scienza e della medicina. Il sacrificio del cervo sacro è sicuramente un unico nel suo genere, anche perché è un thriller senza cause esplicite, c’è ovviamente l’espiazione del senso di colpa del medico ma non c’è un villain o una causa identificabile (la stessa attribuzione di ogni male al giovane Martin sembra ad un certo punto coerente, ma non è corretta: il mondo è pervaso da un maligno generalizzato, letteralmente, e il male non è espiabile in altro modo). Quest’ultimo aspetto probabilmente può cozzare con i gusti di parte del pubblico e disorientarlo, specie quello meno abituato agli orrori irrazionali in cui l’elemento narrativo tende a disperdersi nella trama, nei quali non è agevole attribuire un effetto ad ogni causa.

    In questo senso l’operazione di Lanthimos è azzardata, anche se il successo del film e i premi vinti sembrano avergli dato ragione.

    Il sesso nel film (ispirato alle teorie di Michael Bader)

    Il soddisfacimento degli istinti sessuali ne Il sacrificio del cervo sacro è quasi sempre represso, rinviato, male articolato e solo in alcuni casi soddisfatto. Questo serve alla regia per mostrare il lato oscuro di ogni personaggio, e farci comprendere meglio il rispettivo vissuto. Come evidenziato dal saggio Eccitazione dello psicologo Michael Bader, del resto, ogni persona ricerca nelle fantasie sessuali un ambiente safe, libero da sensi di colpa, in cui potersi eccitare liberamente. Anche a costo di ricorrere a scenari bizzarri o spaventosi, sulla base delle proprie esperienze e del proprio vissuto.

    Kim è un’adolescente che ha appena avuto le mestruazioni, ad esempio: la sua relazione con Martin dovrebbe essere una sorta di “prima iniziazione” al sesso, ma vediamo che il suo offrirsi al partner non ottiene l’effetto desiderato, probabilmente perchè il ragazzo è rapito dal proprio mood di vendetta e, in qualche modo, non dispone di condizioni sicure in cui potersi eccitare. È altresì significativo che le modalità di dimostrarsi disponibili della ragazza siano analoghe a quelle della madre del personaggio, Anna, che presenta una singolare modalità di relazionarsi in camera da letto col marito: si spoglia, si stende sul letto e finge di essere una paziente totalmente anestetizzata, fantasia che si ricollega al lavoro dei due personaggi e che evoca indirettamente, anche qui, una sorta di sacrificio rituale. Questo roleplay sembra verosimile nel contesto in cui si muovono i due coniugi, e ancora una volta vediamo la teoria di Bader all’opera: la fantasia può funzionare solo se se – nel mentre – non emergono sensi di colpa. Non appena il chirurgo viene “smascherato” dai fatti (ha mentito sull’incidente al padre di Martin, perchè la morte l’ha causata lui e vorrebbe subdolamente addossarla all’anestesista) la fantasia si spegne, e il rapporto non può più avere luogo. Per ottenere la verità su quanto accaduto nell’operazione al padre di Martin, poi, Anna richiede l’informazione all’anestesista che ha lavorato con lui, Matthew, che racconta pero’ una versione invertita della storia rispetto a quella di Steven. L’informazione ha un costo, in questo caso, che è quello di soddisfare sessualmente Matthew (scena della masturbazione in macchina), sulla base di un desiderio represso che l’uomo, secondo Anna, avrebbe espresso durante una cena tra colleghi. In tutti questi episodi sembra piuttosto chiaro che la sessualità sia più un mezzo che un fine, in quanto viene utilizzato per definire l’essenza del rapporto tra i personaggi e per finalizzare i loro scopi (al limite provare a finalizzarli).

    Regia

    Il regista Yorgos Lanthimos è noto per il suo stile cinematografico unico e spaventoso, caratterizzato da dialoghi monocordi, situazioni surreali e freddezza emotiva ostentata da vari personaggi. “Il sacrificio del cervo sacro” non fa eccezione: il regista crea un’atmosfera di tensione e inquietudine in tutto il film, sulla base di un non meglio specifico senso di colpa. Questa inquietudine è frutto di un qualcosa di astratto, di una non meglio specificata maledizione, di un Dio malvagio che pervade l’esistenza degli esseri umani pur senza mostrarsi, senza avere un nome, quasi un ente innominabile lovecraftiano. Il finale evoca più una tragedia surreale o una piece di teatro sperimentale, la resa dei conti con cui i protagonisti vanno incontro al loro destino senza poter fare nulla per opporsi. Il finale dell’opera evoca l’esorcismo del senso di colpa, il senso di impotenza assoluto da parte dell’uomo di fronte a determinati orrori.

    Il film è stato prodotto da Element Pictures e A24, ed è stato presentato in concorso al Festival di Cannes del 2017.

    Cast

    Il cast principale include Colin Farrell, Nicole Kidman, Barry Keoghan, Alicia Silverstone, e Raffey Cassidy. La scelta non poteva essere più felice, e in molti casi sembra di assistere a un film tipo Eyes Wide Shut, per altri a uno come Saltburn, visto che curiosamente il giovane personaggio si trova ad assolvere un ruolo molto simile di potenziale destabilizzatore della famiglia, per quanto in modo indiretto.

    Sinossi

    Il film segue la storia di Steven Murphy (interpretato da Colin Farrell), un cardiochirurgo di successo che ha una vita apparentemente perfetta con la moglie Anna (interpretata da Nicole Kidman) e i loro due figli. La vita di Steven prende una svolta inquietante quando Martin (interpretato da Barry Keoghan), un ragazzo giovane e problematico, inizia a inserirsi nella sua vita. Si scopre che il padre di Martin è morto durante un’operazione chirurgica effettuata da Steven e Martin crede che la morte di suo padre sia stata causata da un errore medico. Martin inizia a esercitare un’influenza oscura sulla vita di Steven e della sua famiglia, minacciando di infliggere loro una serie di maledizioni, inclusa la paralisi e la morte, a meno che Steven non prenda una decisione terribile riguardo a uno dei suoi familiari.

    La situazione si sviluppa in modo surreale, e Steven si trova costretto a prendere una tragica, ineluttabile decisione.

    Spiegazione del finale

    Il finale del film può essere visto come una rappresentazione allegorica del conflitto morale e delle conseguenze delle azioni dei personaggi. Non si tratta ovviamente di un finale aperto, perchè la scelta della vittima è stata brutalmente effettuata (nell’unico modo possibile per il protagonista: scegliendola a caso). Nel momento culminante Steven prende una decisione randomica per porre fine alla maledizione di Martin: mette a sedere i tre familiari i salotto, e – dopo averli legati – estrae a sorte chi dovrà morire, bendandosi e girando su sè stesso un paio di volte prima di sparare. Lo fa perché non può scegliere diversamente, e perchè è l’unico modo per espiare la propria colpa (molto probabilmente ha operato il paziente da ubriaco).

    Quando i superstiti si ritroveranno all’interno del locale dove è iniziato il film fanno finta di non vedere Steven, che chiaramente fa lo stesso nei loro confronti. il cerchio si è chiuso, e la storia può dirsi conclusa.

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