A classic horror story: il terrore firmato De Feo / Strippoli
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Intrappolati in una foresta in cui si ritrovano senza sapere perchè (un po’ come ne L’angelo sterminatore), un gruppo di personaggi lotta per la sopravvivenza, in un clima di cospetto, sospetto, rispetto, folklore e claustrofobia.

In breve. Horror meritevole e compatto, che propone un singolare mashup tra due sotto-generi molto diversi tra loro. La dinamica è quella classica dello slasher movie, con qualche colpo di scena davvero considerevole. Consigliato.

A classic horror story è un cupissimo thriller a tinte horror, che presenta una storia ambientata ai tempi moderni fondata sulle tematiche tipiche del sottogenere psicologico: attribuzione del senso di colpa, sfiducia verso il prossimo, paranoia, spirito di sopravvivenza. Se in molti casi questo genere di film riserva sorprese relative (o nessuna sorpresa, in alcuni casi), ciò che riserva la classica storia dell’orrore è un delirio di visionarietà, tratti grotteschi e twist narrativi.

Ogni appassionato di horror del resto dovrebbe ricordare The nest di De Feo, una perla di qualche anno fa (che in parte richiama questo lavoro) e che evocava i classici di Mario Bava e George Romero, giocando su un contesto impegnato quanto, a ben vedere, impegnativo. Se da un lato A Classic Horror Story è un film horror italiano (gaudio e tripudio) del 2021, scritto da De Feo, Strippoli, Besana, Bellini e Tissone, diretto dai primi due e interpretato dall’indimenticabile Matilda Lutz di Revenge, dall’altro è il classico film che diventa difficile da giudicare senza inquadrarne il contesto.

Il tema dell’aborto (resta sullo sfondo)

Fin dalle prime mosse si intuisce una tematica sociale di fondo: la protagonista, Elisa, è letteralmente costretta a programmare un aborto, perchè non può “permettersi” una maternità che, di fatto, la metterebbe in difficoltà sul lavoro. È un ottimo presupposto per un horror, tanto più che ricorderebbe sulle prime film come A l’intérieur o Sola in quella casa, noti per costruire la tensione su uno specifico dettaglio legato, in qualche modo, alla fragilità. Ma il film prende una direizone completamente diversa, costruendo i propri presupposti sullo slasher puro. Tramite un’app di car pooling, infatti, Elisa troverà altre persone con cui viaggiare verso casa, tra le quali si presenteranno i principali personaggi su cui ruota la storia.

Vale la pena di osservare la storia di ognuno, il tormento individuale che assale ognuno di loro, la diversità delle loro storie poichè sarà fondamentale per capire lo sviluppo di una storia non sempre scorrevolissima ma anzi, per certi versi, narrativamente slegata o irrazionale in vari passaggi.

Le pedine

Vediamo una coppia dal rapporto forse ambivalente, un ragazzo dall’accento calabro con velleità di videomaker (sì, A classic horror story è ambientato in Calabria, anche se i panorami appaiono forse poco plausibili, ma tant’è), la protagonista di cui sopra e un uomo probabilmente alle prese con un divorzio. Pedine o paladini di un gioco macabro, di cui aspettiamo la rivelazione dell’ennesimo villain, l’epifanìa – che tutte le feste si porta via.

Quando sei qui con me…

Quando anni fa mi dilettavo a immaginare storie horror (e provavo addirittura a scriverle) Il cielo in una stanza mi suggeriva una certa vicenda di passione, romanticismo, gelosia e violenza, che avrei voluto vedere diretta ad esempio da Lucio Fulci. Vedere il film iniziare proprio su quelle note – ed una prima, raggelante sequenza – mi ha fatto sorridere e rabbrividire al tempo. Fatto soggettivo e autentico unicum, ovviamente, che testimonia come il chiaroscuro musica leggera / scena insostenibile sia tutt’altro che esautorato.

Slasher (neo)-folk

Per il resto, guardando il film c’è tutto per pensare ad un rehash di un thriller slasher modello 31 di Rob Zombi; il paragone non sembra azzardato. Dalla scuola americana si eredita il mood per la violenza esplicita, affidandola a poche miratissime sequenze. C’è poi un aspetto più “europeo”, per così dire, in ballo, ed è legato ad esempio alla scelta di musiche, sviluppate sul canovaccio dell’ultra-violenza di Stanley Kubrick, in qualche modo: Gino Paoli e Sergio Endrigo a fare da sottofondo a scene di tortura. Non sarà la cosa più inedita del mondo, ma scusate se è poco.

C’è il tempo per ricostruire il passato di ogni personaggio, assistere alla rispettiva crisi esistenziale – soprattutto al modo in cui provano ad organizzare una micro-società autogestita, prigionieri di una foresta che forse nemmeno esiste (un’idea claustrofobica che nemmeno il pessimismo di Cioran, probabilmente, avrebbe mai concepito). Uno scenario in cui avranno tempo e modo di raccontarsi, confidarsi, aggredirsi, sfogare e/o reprimere la propria sofferenza interiore.

I riferimenti

In tutto ciò, la graphic violence dell’opera, con una scena ad esempio che omaggia Tarantino ed il suo Kill Bill Vol. 2, funge puramente da valvola di sfogo, da espressione di vuoto nichilista in cui, di fatto, si tratta “solo” una partita a scacchi con la morte. Tanto più sulla base dell’imprevedibile (?) finale, che per quanto derivativo potrà sembrare (ho pensato al semi-sconosciuto S&Man, in effetti, ma potrei citarne molti altri) colpisce duro, e lo fa proprio perchè rende quel realismo ancora più credibile. Ed è qui che risiede il principale e più autentico punto di forza di A classic horror story, a mio avviso.

Certo, è evidente la derivatività (è un termine supercazzolaro, ma tant’è) dell’opera, così come si ha la sensazione di prevedere, qualche secondo prima che avvengano, determinati eventi: l’incidente stradale, immancabile in quasi tutti gli slasher. Quella maledetta sirena presagio di morte, che evoca un imminente coprifuoco (verrebbe da pensare in tempi di Covid-19), interamente virata sul rosso (anche qui, poi capiremo perchè). La scena di tortura, immancabile quanto attesa dal pubblico, che evoca un martìrio del quale sarà chiaro il senso, in chiave sociologica, solo nel finale. Il gruppo di personaggi sempre più alienato, prossimo al collasso e sempre più familiari con il mors tua, vita mea.

E poi quella casa, la casa abbandonata a cui chiedere aiuto, che sembra evocare ritualmente Non aprite quella porta. Del resto è proprio al cult di Tobe Hooper che si rifanno alcune sequenze, come quella del pranzo all’aria aperta, ad esempio, con tanto di commensali che fanno il verso alla protagonista.

Oltre il folk horror

Abbiamo sempre detto e sostenuto, anche sulle pagine di questo sito, che il cinema di genere debba e possa funzionare su questi calchi, soprattutto se innestati con ambientazioni inedite e leggende mai sfruttate nell’horror (almeno, che io sappia). Anche perchè il senso di novità è considerevole: da un lato c’è l’immaginario satanico-occultista, tipico di questo genere, che viene rimpiazzato con una leggenda specifica e, se vogliamo, fin troppo concreta.

Per quanto sia diventato un termine trendy, a volte usato impropriamente, diventa evidente la natura folk horror del lavoro, che deve più di qualcosa a film come The Vvitch o The wicker Man, e si lega specificatamente ad una leggenda sulla nascita della mafia e sulle figure mitologiche di Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Con una chicca ulteriore, che in pochissimi hanno notato, giocata in termini di disillusione registica e meta-horror (sulla falsariga di quanto proposto in Ubaldo Terzani Horror Show), quasi impossibile da non spoilerare senza aggiungere altro.

Ma De Feo e Strippoli hanno anche il merito di andare oltre il folk horror, le sue maschere demoniache, i finali aperti, la parvenza snuff-amatoriale e le camere fisse che presagiscono la morte. Si porta il tutto ad una dimensione disillusa, meta-horror anch’essa. Oltre il folklore e tutto ciò che ci siamo “goduti” negli anni: streghe, leggende urbane, foreste maledette (chi ricorda Oltre il guado, per restare in tema horror italiano?). A questo punto mi sentirei di definire A classic horror story un neo-folk horror, un folk che suggerisce qualcosa di nuovo, che gioca con il senso di finzione che ha costruito.

Senza sconti visivi, con tanti primi piani, senza vedo-non vedo di comodo, con una ritualità pagana inderogabilmente disturbing, intervallata da soliloqui esistenziali e contrapposizioni tra “buoni” e “cattivi” tipici della produzione di Rob Zombi (soprattutto in 31), con un tocco di humor nero che non guasta mai: cosa desiderare di più? Horror ben fatto non è per forza sinonimo di seriosità, come molti tromboni e detrattori sostengono, e come registi come loro o John Peele sanno bene. E sì, questo è davvero un horror ben fatto.

lo stato dell’arte

Nonostante certa critica non l’abbia capito – e ne abbia evidenziato la sola componente canonical, come a dire “eccallà, l’ennesimo calco di horror di 50 anni fa” – A classic horror story ha il merito di rigenerare, dai classici, ciò che il genere aveva smesso di essere. Un horror smesso di essere sgradevole e horror, preso com’era dal farsi portavoce di presunte, rinnovate – quanto paracule – “esigenze commerciali“, perdendosi tra storiacce esorcistiche fotocopia, mostri talmente brutti da essere incomprensibili, serial killer risibili e privi di mordente, bonazze/i che prima non sanno usare un cellulare e poi sanno fare a cazzotti con Satana (ah, sempre sia lodato Schwarzy!), e via delirando. Non era quello, l’horror che sognavamo. De Feo e Strippoli ci riprovano, riportano il genere alla dimensione sinistra, onirica e rituale dei capolavori del passato, e ci riescono quasi perfettamente. Non solo scegliendo un’ambientazione inedita per una storia di genere, ma riuscendoci senza risultare risibili (il rischio c’era) con l’innesto di una metafora su certa mostruosità poco ovvia e – a suo modo – geniale, che quasi certamente nessuno aveva avuto il coraggio di mettere in scena in questa veste.

Conclusioni

Certo, certe cose rimangono forse nerdistiche o auto-referenziali (quel meta horror, la più ovvia delle scream queen, il rifacimento di alcune sequenze come calco par-paro dei classici di Hooper e Tarantino, il riferimento a Jason e Freddy…), non sarà un prodotto da promuovere cum laude, non sarà esente da difetti – ma è un horror più che valido, e merita (almeno) una visione, senza esitare. Probabilmente, per il resto, sarà capito appieno magari dalla prossima generazione di pubblico in poi, sempre ammesso che il pubblico stesso non si sia, nel frattempo, involuto e riversato definitivamente a visionare solo Instagram e Youtube.

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