Under the silver lake è un film per intenditori (e non sembra un fatto positivo)
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Ci troviamo a Silver Lake, quartiere est di Hollywood: Sam trascorre le proprie giornate a leggere strani libri complottisti (di cui uno da’ il titolo al film, Under the silver lake), appuntarsi messaggi subliminali avvistati in TV, spiare con cannocchiale qualche vicina avvenente, parlare con la madre al telefono, intrattenersi con una scopamica (a volte addirittura sovrapponendo più attività tra quelle elencate). Dopo aver conosciuto una vicina di casa particolarmente avvenente e disponibile, la vede scomparire da un giorno all’altro: inizia a indagare sui fatti per conto proprio.

Under the silver lake è un coacevo senza genere di stranezze assortire, feste grottesche, colpi di scena costanti, ambientazioni tra il surreale, l’onirico e l’ordinario, una trama che si liquefa e si ricompone come il cyborg cattivo di Terminator 2, allusioni lynchiane, continui riferimenti al mondo del sesso per la gioia del cinefilo hitcockiano o filo-tarantiniano (c’è citazionismo a valanga e il sesso fa da sfondo costante alla storia, per quanto non sia il focus autentico della trama – un po’ come avveniva in It follows , sempre dello stesso regista, nel quale il villain voleva essere l’espressione del senso di colpa causato da una relazione occasionale). Il film funziona, al netto di qualche appunto, nella misura in cui si accetta la versione “complottista” del pluri-citato patto con il regista, che consiste in questa sede nel credere che il velo di Maya del reale possa dispiegarsi attraverso banali riferimenti alla cultura pop, come se la verità delle cose fosse davvero iscritta in un sito di terz’ordine del cyberspazio o, per meglio dire, nel suo equivalente cartaceo (una fanzine letta avidamente dal protagonista).

Il quadro di Under the silver lake non sarebbe completo, a questo punto, se non fossimo costretti ad evidenziare certe lungaggini concettuali che accompagnano la sua visione: due ore (troppe, secondo noi) di un film in cui è altrettanto facile perdersi e distrarsi, tante sono le molteplicità in gioco e tanti i sono i personaggi più o meno vacui o grotteschi che vi compaiono. Per quanto sia stato presentato con astuzia commerciale da una ad (o trailer) che ha spopolato su Instagram, nella si giocava sul registro psico-analitico o complottista, di fatto si invitava ad iscriversi a MUBI per vedere un film diversamente introvabile in Italia, giocando più sull’esclusiva che sulla sostanza.

Di fatto, sembra fin troppo facile usare la parola “capolavoro” o cult per un film del genere, etichette che perdono di significato col passare degli anni, tanto più che neanche esiste doppiato in italiano, il che non sarebbe un ostacolo insormontabile se non fosse che – aiutateci – impone e sedimenta il più inquietante dei presupposti: è un film “per intenditori”, ontologicamente da cinefilo dell’era dell’internet. Non osiamo immaginare i fiumi di commenti social infarciti di cut up più o meno coerenti, prelevati forzosamente dai libri di Morandini, Zizek, Truffault, Lacan, nel vano tentativo di sedurre qualche altro cinefilo/a o magari qualche starlette o comparsa fallita. Questo film rischia certamente di auto-confinarsi nel mondo immaginario dell’auto-indulgenza cinefila, di non essere capito quasi da nessuno (il tono della sua narrazione è abbastanza criptico), se non tra gente che passa più tempo a leggere di cinema che a vedere film, o magari (peggio ancora) a farsi selfie in compagnia di mattoni letterari di dubbio gusto, di DVD limited edition di filmacci orrendi e lepidezze assortite che a vedere un film per intero, ogni tantyo. Liberi da questo immaginario agghiacciante (che siamo costretti a far fuoriuscire dal nostro maledetto inconscio) affermiamo con decisione che il pregio principale di Under the silver lake sta proprio nel suo non essere un cult: al contrario, è un film che farà per certi versi rimpiangere It follows, anche lì affetto da lungaggini ma quantomeno più abile a mantenere il focus della narrazione.

Il registro medio del film resta comunque intrigante: si veda la scena dei due amici che scrutano con un drone Los Angeles, abbandonandosi a considerazioni filosofiche sull’alienazione contemporanea – considerazioni tutt’altro che banali – e su come “sentirsi seguiti” sia tipico del paranoico quanto ordinario per chiunque sia iscritto ai social, strumenti in cui è ordinario followare o essere followati). Altro momento topico: Sam mostra un’attitudine voyeur in varie sequenze, che viene abilmente dissacrata quando lo vediamo spiare una misconosciuta attrice che si spoglia in camera da letto che, inaspettatamente, rimane da sola e scoppia in lacrime.

In altri momenti David Robert Mitchell sembra abbandonarsi a tropi che sanno di aria fritta: la prostituta-attrice che si intrattiene con Sam e vuole simboleggiare la Hollywood abusante o usa-e-getta (già visto, già sentito). Oppure: miriadi intermezzi interminabili che vorrebbero costruire una trama da romanzo moderno, che vive davvero tantissimi momenti brutalmente non sense (il pestaggio dei ragazzini che rigano la macchina di Sam, ad esempio, oppure la relazione tra Sam e la sua conoscente attrice che sembra dettata più da esigenze estetiche che sostanziali). In fondo è la stessa Hollywood a doppia faccia che Bojack Horsemen aveva splendidamente rappresentato, per cui nulla di davvero nuovo e nulla, davvero, che possa far gridare al miracolo.

In effetti Sam è il protagonista post-moderno, ma questo solo perchè sembra copia-incollato dalla serie animata di Raphael Bob-Waksberg, idealmente evaso dalla villetta di Bojack. Vive alla giornata, è spesso stonato da stupefacenti e alcool, si risveglia dove capita (anche in un cimitero, in un caso), è vicino di casa di modelle e starlette una più attraente dell’altra, vive tutto sommato un’esistenza piatta e monocorde, senza un lavoro fisso e con il padrone di casa che minaccia di sfrattarlo. Agisce senza sapere bene perchè (post modernismo puro, quest’ultimo) e si fa guidare quasi per tutto il film da un insondabile flusso di coscienza, alla ricerca non si sa bene di che cazzo. Un bel dilemma etico, se non altro, si porrà implicitamente agli occhi dello spettatore: parafrasando liberamente Shutter Island, meglio vivere scollegati dalla realtà o morire da piatti conformisti?

Il protagonista Sam è un gradevole archetipo di slacker: un fannullone, uno scansafatiche anarcoide, con il vizio delle donne e una insana fissazione per i messaggi subliminali. Slacker è anche un termine giornalistico riferito storicamente ai disertori della prima guerra mondiale, divenuto parte della cultura pop anche grazie a Ritorno al futuro (slacker è l’appellativo con cui Mister Strickland chiamava alcuni ragazzi della scuola). Sam è insomma un freak post moderno, complottista e paranoico, insospettabilmente affascinante, abile a scansare il lavoro ad ogni occasione (per tutto il film non si capisce cosa faccia per vivere), avido lettore di ipotesi di gombloddo, ossessionato dalla numerologia e convinto che un noto brano pop di sua conoscenza contenga dei messaggi subliminali. Vaga per le feste e trova ovunque porte aperte, spalancate, e si muove nel classico immaginario da pre-destinato, lo stesso che negli anni 80 avrebbe visto gli alieni o avrebbe preannunciato l’Apocalisse.

Il suo complottismo è relativamente simpatico e sopportabile (a confronto di quello becero da 4chan, per intenderci, lo stesso che si arroga di diritto di mancare di rispetto a chiunque spacciandosi per dissacrante del politically correct), il che fa diventare più agevole empatizzare con il protagonista da parte del pubblico medio, e scongiurando almeno in parte che questo Under the silver lake sia un filmetto per i vituperati “pochi eletti”. Il tutto sia pur dovendo riconoscere che questo film è “troppo”, come ha suggerito Matteo Vergani su Nocturno: troppi riferimenti, troppe sequenze auto-indulgenti, troppo mood onirico – aggiungerei troppe sequenze scollegate e troppi riferimenti naive al mondo del complottismo che, bontà sua, è parte integrante della nostra cultura, visto che la gente scova macchinazioni subliminali nelle lettere alla fidanzata o sui pacchi dei biscotti dell’hard discount.

Del resto molti fan del film si sono divertiti a costruire immancabili fan theory su quello che hanno visto, rendendolo a tutti gli effetti un film meta-complottista : chi è l’assassino dei casi, quali codifiche sono state usate, cosa indicano i fuochi d’artificio, cosa indicano davvero i graffiti visibili nel film. Il film peraltro si è avvalso di Kevin Knight come consulente per la crittografia, nonchè del cifrario che si vede in una certa scena. Difficile, pertanto, dare un giudizio certo, almeno quanto è difficile seguire il film fino alla fine e mantenere viva la curiosità di sapere come finisce: tanto più che le sue conclusioni sono prevedibili perchè, anche qui da autentico manuale post moderno, non c’era forse nessuna conclusione vera e propria a cui pervenire.

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