Salvatore

  • Der Todesking è l’horror underground definitivo

    Der Todesking è l’horror underground definitivo

    Agli occhi di una bambina (che lo disegna nella prima e nell’ultima scena del film) non sarà altro che uno scheletro un po’ naive, con una semplice corona in testa, dal quale sembra non debba esserci nulla da temere. I vari suicidi sembrano causati dalla lettura della lettera della setta (il vecchio sito di Exxagon riportava il contenuto esatto, che ho ricopiato di seguito), ma questa in fondo è solo una spiegazione razionale (o quasi) di una catena di suicidi-omicidi che mostrano la pochezza della natura umana: fragile, contraddittoria, e come se non bastasse spesso anche violenta.

    In breve: uno dei capolavori di Buttgereit, il re del cinema orrorifico tedesco low-cost.Concettualmente studiatissimo, macabro, estremamente violento e senza tregua. Data la tematica trattata (7 modi per suicidarsi), alcune scene molto forti e lo stile “amatoriale” (molto, molto realistico) puo’ risultare decisamente inadatto ai più sensibili. Gli altri, forti e cinici, si accomodino pure a visionare.

    Il cadavere in putrefazione in vista nel film ha fatto scatenare interpretazioni di ogni genere, anche se quello che rimane è la cruda, realistica e se vogliamo agnostica verità: la morte non è altro che la decomposizione di un cadavere, cosa che spesso funerali pomposi e bare benchiuse ci fanno dimenticare. I vermi che divorano il cadavere sono ancora più disgustosi perchè sono affiancati a gesti banali e comuni nella vita di ogni giorno, come scrivere una lettera, mangiare cioccolatini, vedere un film, fare un bagno, spiare i vicini dalla finestra o sfogarsi con un conoscente.

    Ingannata dalla vita, questa creatura cerca di dare un ultimo segnale, di darealla sua vita un significato postumo con la sua morte. La frustrazionedella sua stessa esistenza e la negligenza di una società spietatamente progressista si manifesta in questo atto universale di vendetta. Il suicida sembra puntare a tutti quelli che l’hanno sempre ignorato. Per una volta LUI fa la storia, è alle luci della ribalta, e finalmentele persone sono interessate alla sua vita. Fugge da una vita “morta” verso una morte “viva”, sapendo che, per lo meno per qualche giorno, avrà quasi l’intera attenzione del pubblico. Questoassurdo desiderio… è probabilmente molto più autentico e genuino di tutta la sua virtuale non-esistenza precedente. Egli, “assassino-di-massa-senza-movente”, è il martire del Post-modernismo (tratto dal video-testamento di sabato)

    Se non avete visto questo film, spero che queste righe possano stimolarvi a farlo: vi avviso comunque che non è  assolutamente un’opera per tutti, ed ha la capacità di lasciare profondamente scossi, se non si guarda con cinismo. Si tratta di un film molto bello, che riesce a dare profondità ad una marea di argomenti (e a tratti quasi a commuovere), a patto di NON avere come pubblico persone troppo sensibili o impressionabili, gente che vuole essere allegra a tutti  i costi, aspiranti suicidi reali ed i famigerati tizi che credono nella “iella”.

    Lunedì: un impiegato, prima di licenziarsi definitivamente dal lavoro, scrive una lettera. Tornato a casa, primi piani su una palla di vetro con  un pesce rosso all’interno.: l’uomo (che viene impietosamente paragonato ad un animale acquatico intrappolato in una vasca, ovvero casa sua) mangia una scatoletta, fa un bel bagno  caldo e si ingozza di medicinali fino a morire annegato.

    Martedì: un ragazzo noleggia il film nazisploitation “Vera – Todesangel der Gestapo” presso la videoteca “Videodrom” (dove peraltro c’è “Nekromantik” in bella vista!). Jorgi Butti & Francesco Tortellini sono i beffardi  (!) pseudonimi dei registi del  (falso)film, che rappresenta varie atrocità naziste tra cui l’evirazione di un prigioniero (che, casomai interessasse qualcuno, avviene con una cesoia non troppo affilata e viene mostrata in primo piano!). Nel frattempo rientra la fidanzata del nostro cinefilo, il quale non trova di meglio da fare che sopprimerla con un colpo di pistola in testa, ed incorniciare la macchia di sangue sul muro. Per qualche motivo la scena è stata vista in un televisore (il regista gioca un po’ col meta-cinema, e gli riesce anche bene) di un appartamento in disordine, con un gatto nero che divora delle briciole sul letto mentre un uomo (non inquadrato) si è appena impiccato.

    Mercoledì: una donna cammina tristemente sotto la pioggia, tormentata da ricordi  non precisati che lascia cadere da una lettera in una pozza d’acqua . Uno sconosciuto seduto su una panchina le racconta dei problemi  sessuali con la moglie, in un lungo sfogo  di frustrazione mai sopita. Il problema sembra peraltro toccare più lui che la consorte, in quanto colpito nel suo orgoglio maschile che degenera previdibilmente in sopraffazione violenta (“non potevo più sopportare la sua gentilezza“). Il marito personifica, in un monologo delirante, le aspirazioni subdole di un certo maschio-medio che, portando la moglie al museo ed “in un ristorante costosissimo“, insomma rispettando lo stereotipo del “bravo marito gentile“, pretende di avere una macchina da sesso al proprio servizio. Le sue aspettative l’hanno condotto all’omicidio della consorte (per sua stessa ammissione mediante decapitazione): a questo punto la mora vista all’inizio spara al violento, il colpo non è in canna, quest’ultimo prende la pistola, carica il colpo e si suicida (non inquadrato). Da notare l’effetto rallentamento utilizzato dal regista nel momento più intenso del racconto, al fine di distorcere la voce del protagonista, manipolare le immagini in modo “cinematografico di vecchio stampo” ed eliminare, soprattutto, il riferimento-audio all’arma utilizzata.

    Giovedì: viene mostrato un ponte mentre passano in sovraimpressione nomi di persone, età e professioni a formare un’anagrafica di suicidi. Quello che colpisce è la gamma di professioni mostrate (apprendista, attore, casalinga, pensionato, …) e delle età (da 17 a 71 anni), quasi a voler dimostrare che nessuno di noi è immortale. Il sonoro è un macabro naturale proveniente dal posto, nel quale si sentono correre le macchine sull’asfalto e nient’altro rende più sostenibile la visione. Semplice, geniale e raggelante. Ancora di più se si considera l’ironia – abbastanza macabra – celata dietro l’episodio: i nomi sono delle storpiature demenziali come Bettina “Pfister” (“scoreggia”). Suicida per un orribile cognome mai voluto: non è ancora peggio?

    Venerdì: si passa a mostrare l’appartamento di una signora di età avanzata, la quale spia con interesse una giovane coppia che abita di fronte. Ancora una volta la solitudine è causa di depressione e di morte: in preda ad una sorta di frustrazione, la signora prova a telefonare nell’appartamento, e non ricevendo risposta inizia a leggere la lettera di una setta che ha appena ricevuto. Successivamente beve da una bottiglietta, mangia qualche cioccolatino e si addormenta, sognando di vedere i propri genitori fare sesso. Al risveglio l’occhio dell’inquadratura ritorna sulla finestra della coppia, che viene poi inquadrata a letto, dove entrambi i ragazzi sono morti dopo essere stati probabilmente seviziati. Non è chiaro il collegamento, ma sembra che l’omicidio l’abbia commessa l’anziana signora.

    Sabato: dopo una dichiarazione delirante lasciata su una bobina – come una sorta di video-testamento – una ragazza indossa una specie di imbragatura con una cinepresa sulla spalla, in modo da poter riprendere in soggettiva l’omicidio che sta per commettere. Recatasi in un cinema dove si sta svolgendo un concerto rock (il gruppo si chiama “Overture Socialdeath”), spara l’uomo all’ingresso, il cantante del gruppo e ripetutamente il pubblico. La scena viene inquadrata prima in soggettiva, poi dal fondo del cinema: primo piano sulla ragazza, e fine dell’episodio.

    Domenica: torniamo in un appartamento nel quale un ragazzo si è appena svegliato.  Dopo aver fissato il vuoto, inizia a piangere senza dare spiegazioni ed a contorcersi nel proprio letto con le mani sulla testa.  Avvolto nella disperazione più cupa, la sua soluzione sarà di iniziare sbattere la testa al muro con violenza. Dopo un’ulteriore angosciante attesa di colpi ripetuti, gli ultimi urti lo portano alla morte.

    Quasi a volerci rassicurare (come se fosse possibile!), nella scena finale viene mostrata la bambina della scena iniziale che proclama con innocenza: “questo è il re della morte, che fa desiderare alle persone la morte”, mentre mostra il disegno che ha appena fatto. Successivamente foto del re della morte in bianco & nero, con teschio in mano e bambino seduto ai suoi piedi: fine del film. I titoli di coda – spoiler alert, ma in questo caso credo non abbia troppo senso avvisare, tanto risulta sovvertita la narrazione – mostrano foto di bambini (probabilmente i vari protagonisti degli episodi da giovani), quasi a lasciare un monito. Un messaggio: non perdere mai l’innocenza del tutto, al fine di non affogare nella melma ipocrita delle relazioni umane degli adulti che il pubblico ha avuto modo di vedere nel film: depressi, chiusi in se stessi, potenziali-stupratori, invidiosi, omicidi, pervertiti e quant’altro. Quantomeno, questa è l’interpretazione che mi sento di dare dopo averlo visto tre (!) volte: spero che non sia troppo diversa dalla realtà.

    La mia traduzione del pezzo succitato è riportata di seguito, assieme al brano originale, per cui ho cercato di rispettare lo stile di scrittura abbastanza asciutto (quanto inquietante).

    PERDIAMO LA VITA CON GIOIA (Lautréamont). Questa è una catena di Sant’Antonio (chain-letter nell’originale, ndt). E questo è un messaggio. E questa è la parola finale, per finire una lunga lotta. Quando riceverai questa lettera, SAREMO MORTI. E vogliamo che tu, dopo aver inviato più copie possibili ai “non ancora morti”, TI SBARAZZI DELLA TUA VITA senza esitazione. Secondo la nostra percezione: MUOIO, QUINDI SONO!! La vita è illusione e diventa ridicola e priva di significato una volta che la affrontiamo. L’unica sicurezza che è in grado di offrire è LA MORTE. Miriamo tutti A LUI, siamo promessi A LUI e prima ci sono solo agonia ed assurdità. L’uomo viene al mondo da solo, e resta solo. La sua vita è una lotta senza fine su di lui, una lotta contro questo antico desiderio, l’impulso più dolce, che ci tiene TUTTI nelle sue mani: THANATOS, il desiderio di morire. Tutto ciò che vi chiediamo è di seguire questo desiderio. È quasi ora … La vita è un anacronismo. In sei giorni, dio ha creato il cielo e la terra. Il settimo giorno si è suicidato … LASCIATECI MORIRE Il vangelo secondo “La fratellanza del settimo giorno”. (Originale: WE LOSE OUR LIFE WITH JOY (Lautréamont). This is a chain-letter. And it is a message. And it is the final word, to end a very long struggle. When you get this letter, WE ARE DEAD. And we want you, after you have sent as much copies as possible to the “not-yet-dead”, TO TAKE YOUR OWN LIFE without hesitation. According to our realization: I DIE, THEREFORE I AM!!. Life is an illusion and become ridiculous meaningless once we face it. The one security life has to offer is DEATH. We aim towards HIM, we are promised to HIM and before there’s just agony and absurdity. Man comes alone and remains alone. His life is an endless fight put upon him, a struggle against this ancient desire, the sweetest urge, that holds ALL of us in its hands: THANATOS, the longing for death. All we demand of you is to follow this longing. It’s about time… Life is an anachronism. In six days, god created heaven and earth. On the seventh day he killed himself… LET US DIE The gospel according to “The Brotherhood of the Seventh Day”.)

  • Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Mediterraneo di Gabriele Salvatores è il ritratto della disillusione

    Un gruppo di militari italiani durante la seconda guerra mondiale finisce in un’isola greca, e decide di rimanerci per diversi anni, perdendo ogni contatto con il mondo esterno. Nel frattempo la guerra finisce e il gruppo viene a saperlo solo a cose fatte: non tutti, a quel punto, decideranno di tornare, e chi tornerà non rimarrà pienamente soddisfatto.

    Parlare oggi di un film del genere, uscito nel 1991 e ambientato in piena seconda guerra mondiale – un periodo storico con cui l’Italia non è riuscita a pacificarsi nemmeno oggi, dato che rappresenta una delle memorie storiche più divisive di sempre – è un’operazione tutt’altro che banale. Ne possiamo cedere alla malsana tentazione di considerare Mediterraneo un film romantico o una commedia come tante, a dispetto di alcune locandine che all’epoca forse suggerivano questo, quantomeno a livello iconografico. Certo, l’aspetto relazionale è al centro della trama, e la regia è abile a delinare fin da subito una serie di rapporti e relazioni tra commilitoni puramente umane, in tensione al punto giusto e mai macchiettistiche. Ma il punto del film è la fuga di qualcuno da qualcosa, ed è il tema che attraversa l’intera pellicola.

    Per quanto possa sembrare secondario, in effetti, ciò che fonda Mediterraneo è il saggio Elogio della fuga scritto dal medico e filosofo Henri Laborit, sulle parole del quale si apre il film: “In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare“. È questo il tema portante del film, e la narrazione vuole sembrare puramente metaforica in tal senso, senza peraltro sforare nel didascalico. Il riferimento è a tutti gli aspetti essenziali della vita umana, che vanno dalla ricerca dell’amore al lavoro che siamo costretti a svolgere per sopravvivere, per i quali la fuga – intesa come necessità di cambiamento – è spesso l’unica via d’uscita possibile.

    I soldati protagonisti non sembrano credere pienamente in ciò che fanno, e progressivamente smantellano le proprie certezze alla ricerca della propria identità di fondo: cosa che alcuni non troveranno mai, o continueranno a cercare, mentre il mondo continuerà a girare a modo proprio e nostro malgrado. Sembra anche interessante notare come si tratti dell’ennesimo film ambientato in un isola deserta, un po’ come travolti da un insolito destino in grande, con la comunanza narrativa di protagonisti che prima sembrano essere nel panico all’idea di restare su un’isola che sembra ostile e scollegata dalla civiltà, salvo poi prenderci gusto e cambiare opinione. In un certo senso Mediterraneo è anche un saggio sul cambiamento d’opinione, sulla modifica di una prospettiva solida o cristallizzata, ed è un film che sa affrontare la tematica del cambiamento politico-sociale con una lucidità che pochi altri possono vantare. Molte sequenze sono peraltro potentissime evocativamente: basti citare quella in cui i militari incontrano lo spacciatore di oppio, lasciandosi andare a considerazioni beffarde contro il regime fascista, facendosi rubare le armi poco dopo, per poi arrivare a concludere che il mondo sarebbe migliore se si trovasse dell’oppio al posto degli arsenali da un giorno all’altro. Siamo nel pieno degli anni Novanta, del resto appena un anno dopo l’uscita di Mediterraneo avremmo scoperto Tangentopoli – neanche il tempo di riprendere fiato dal tragico periodo terroristico. Quello di Salvatores non è un film spezzettabile o “memetico” (visionarlo a spezzoni, come proposte da alcune pagine social di cinema, rischia di essere particolarmente inefficace): va visto dall’inizio alla fine, rinviando ogni considerazione all’ultima, tragica eppure bellissima conclusione del film. E se vi state chiedendo come si inseriscono l’amore in tutto questo e subito detto: l’amore è l’emblema del desiderio, per soddisfare il desiderio bisogna bisogna seguire le linee di fuga, o forse quelli che Deleuze e Guattari chiamavano flussi. Ci attiviamo in base a ciò che viviamo, siamo creature interiormente “situazioniste” e siamo in grado di ricostruire l’esistenza anche da un piccolo villaggio abbandonato, emblema di un paradiso terrestre (oggi devastato dal turismo, sembra suggerire quel meraviglioso finale). Sono insomma i flussi del cambiamento e delle nostre esistenze ad essere in gioco: fanno parte anch’essi della politica (e dello sconforto che ingenera periodicamente), e ci costringono a deviare dai percorsi safe proprio perchè, come suggeriva Laborit, la fuga è anche sinonimo di coraggio.

    A questo punto l’analisi del film potrebbe proseguire dal finale, che ci sentiamo liberi di spoilerare dopo tutti questi anni (chiunque non abbia mai visto Mediterraneo dovrebbe farlo prima di continuare a leggere, in teoria): partiamo dalle parole pronunciate dal personaggio interpretato da Diego Abatantuono (il sergente Lo Russo) il quale, ormai vecchio e disilluso, scopriamo aver abbandonato l’Italia in cui desiderava ardentemente rientrare, il tutto perchè “non me l’hanno fatta cambiare“. Quasi come il soldato sopravvissuto di Nato il quattro luglio, Lo Russo diventa l’emblema di ciò che in Italia non cambia, del favoritismo cristallizzato e del conservatorismo sopravvissuto a due guerre. Perchè nulla non può cambiare, sembra suggerire una sconsolata narrazione, e perchè già nel dopoguerra si era deciso di annettere l’Italia ad una esclusiva e auto-referenziale comfort zone. Ed è riavvolgendo a ritroso il film che ci rendiamo conto in maniera limpida del senso della storia, delle scelte che sono state fatte dai soldati italiani finiti per caso su un’isola (quella di Megisti, nella realtà): dopo aver perso i contatti con il centro di comando, e superato il panico iniziale, si adeguano allo stile di vita posto. Non solo: scoprono usi e tradizioni del posto, fanno nuove amicizie, fanno nascere amori e relazioni che li segneranno.

    Ma i loro sforzi sembrano vanificati dal mondo in cui viviamo, da un lato simboleggiata della morte improvvisa inaspettata dell’ex prostituta che si era sposata con uno di loro (come a dire: nulla dura quanto vorremmo), dall’altro con un’Italia che secondo il regista non cambia non cambierà mai, e che Lo Russo – inizialmente ombroso e ligio al dovere, poi progressivamente più “libertario” – rappresenta come metafora vivente a pieno titolo. Si tratta anche una delle interpretazioni di Diego Abatantuono più lontane dagli stereotipi dei personaggi a cui siamo abituati, e che conferisce un’ulteriore nota di merito ad un lavoro che, per inciso, è stato tratto dal romanzo Sagapò di Renzo Biasion.

    Salvatores è un regista attivo e prolifico anche oggi, peraltro. E tutte le volte che diciamo che il cinema italiano è morto, a questo punto, ci facciamo forse trascinare da un’enfasi astratta, continuiamo a predicare nel deserto che il vero cinema è finito e che ormai vanno di moda solo le commedie. Probabilmente solo quest’ultimo aspetto è vero, ma è anche possibile che si tratti di un riflesso di noi stessi, di ciò che noi vogliamo vedere. Vediamo commedie perchè vogliamo farlo! Del resto, le alternative non mancano.

    Nessuno ci impone di vedere commedie romantiche ad ogni costi, eppure sembra che ogni volta nelle discussioni non si parli d’altro, o peggio ancora, non si voglia parlare d’altro. Questo probabilmente era vero anche nel 1991, anno in cui Salvatores finisce di girare Mediterraneo e lo distribuisce nei cinema (verrà trasmesso in TV alla fine dell’anno successivo), per cui facciamo i conti con questo effetto collaterale ma guardiamo la sostanza, che ci suggerisce che Mediterraneo non è “il” capolavoro ma è sicuramente un gran film. E ciò che rende Mediterraneo una piccola gemm è proprio questo suo porsi in maniera antagonista, come critica sostanziale al mondo in cui viviamo, quasi in senso primitivista, sottendendo che la politica non è un’astrazione, fa parte della vita di ognuno di noi, o se preferite: chi non fa politica, alla fine, semplicemente la subisce.

    L’analisi del film sarebbe incompleta se non citassimo la critica sullo stereotipo sugli “italiani, brava gente” che il film sembra (forse inconsciamente) promulgare: i soldati sono infatti insolitamente buoni, non hanno parvenza da militari indottrinati al fascismmo e, anzi, in molte fasi il film strizza l’occhio allo spettatore puntando sull’empatizzazione – rischiando, secondo alcuni, di sminuire la tragica realtà della Seconda Guerra Mondiale. Da qui a parlare di revisionismo probabilmente ce ne passa, anche solo per la scena dell’oppio di cui dicevamo. L’accusa di revisionismo, in sostanza, è quantomeno rivedibile, anche perchè i presupposti del film suggeriscono che i soldati siano stati abbandonati dall’inizio e che credano molto poco in ciò che fanno (Ci stavano mandando in missione a Megisti, un’isola sperduta nell’Egeo. La più piccola, la più lontana. Importanza strategica: zero. Era una missione OC, di osservazione e collegamento. Eravamo stati incaricati di prendere l’isola e segnalare eventuali avvistamenti. Mi avevano dato un gruppo di uomini presi qua e là. Superstiti di battaglie perse, vagabondi di reggimenti sciolti, un plotone di coscritti, come me, che erano sopravvissuti fino a quel momento per puro caso.“). Senza dimenticare che il tenente si augura di non dover sparare in arrivo nell’isola, ciò dovrebbe ricordare che Mediterraneo non è un film propriamente di guerra, ma ricorda più una via di mezzo tra i toni di Train de vie e (viene in mente) Underground di Emir Kusturica (anche in quel caso si tratta di un gruppo di persone che si isolano durante una guerra, e non vengono a sapere per tempo della sua conclusione). Senza contare la figura quasi mitologica di Corrado, disertore dichiarato (Claudio Bisio), che si allontanerà in barca seguendo, anche qui, il flusso del desiderio che lo caratterizza dall’inizio, e del quale non conosceremo nè l’esito del viaggio nè se sia ancora vivo in seguito. Sembra insomma che, come si diceva all’inizio, il film sia più filosofico che materialistico, e che offra un solido patto regista-spettatore da rispettare.

    Non bisogna dimenticare che la direttiva principale ed il nucleo tematico del film è incentrato sulla fuga, sull’allontanamento volontario dalla comfort zone, utilizzando il linguaggio autentico e privo di fronzoli del cinema nostrano, quello più vicino al cinema verità, quello che rappresenta eroi ben lontani dall’ideale e, in modo forse paradossale, umanamente anti-eroici. Le storie dei soldati sono vicine a quelle che ognuno di noi, nella vita, potrebbe essersi trovato a vivere. Ed è questo che rende totalmente di culto questo film di Salvatores, e mai abbastanza visto e lodato.

  • Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Oltre il guado: folklore e horror del film di Bianchini

    Un etologo sta seguendo alcune tracce nelle foreste sperdute tra Fruili e Slovenia, monitorando gli animali che attraversano la zona. Una telecamera montata sul corpo di una volpe gli mostra una località sconosciuta, apparentemente abbandonato, giusto oltre il fiume…

    In breve. Notevole horror italiano che non ha nulla da invidiare alle produzioni più blasonate e citate. Bianchini è un talento del genere e rielabora a modo proprio, con grande stile, archetipi lovecraftiani e fulciani. Da non perdere.

    Oltre il guado di Lorenzo Bianchini potrebbe rientrare in quei film che, pur non potendo piacere a chiunque – perchè nessun film ci riesce, in fondo – riescono lo stesso a far parlare di sè. E questo avviene per meriti veri: perchè, diversamente da troppe produzioni indie (troppe delle quali tendono ad essere iconiche quanto stucchevoli, quando non puramente masturbatorie) si esprime finalmente in un linguaggio robusto, propinando una storia accattivante ed una fotografia nitida. Nonostante qualcuno sia stato tentato ad accostarlo allo pseudo-snuff della strega di Blair, infatti, Across the river va molto oltre; addirittura, in certi passaggi mostra indirettamente cosa sarebbe potuto essere il discusso film di fine anni 90 di Myrick e Sanchez, uno dei primi casi di pellicola promossa grazie al viral marketing e alle fake news sul web.

    Se è vero che da tempo l’horror ha trovato una nuova dimensione nei deliri new horror di Laugier, Roth e Gens, in grado (con gradazioni diversissime) di modernizzare ed innovare il genere, al tempo stesso bisogna constatare che l’altra tendenza, parallela, è quella dell’essenzialità esistenzialista e paranoica degli horror scarni, impalpabili e diretti come Buried, Haze e naturalmente questo. Probabilmente, uno dei migliori del suo sotto-genere, almeno tra quelli usciti negli ultimi anni.

    La storia di Oltre il guado è quella di un etologo avventuriero, incuriosito dai misteri di un bosco che si scopre contenere un antico paese, abbandonato dal dopoguerra; in questo, Bianchini non risparmia dettagli contestualizzanti, facendo raccontare parallelamente la storia a quelli che sembrerebbero essere due anziani ex abitanti. Al tempo stesso, la narrazione è condotta da elementi minacciosi (la natura ostile – e il fiume, soprattutto) ed altri relativamente rassicuranti (il camper, il computer, il fucile con visore notturno); col tempo, la parte rassicurante della storia si dilegua, sembra quasi farsi consumare dall’insistenza di quella pioggia battente.  E questo crea una tensione palpabile a cui è impossibile dare una spiegazione, e in grado di tenere lo spettatore incollato alla poltrona fino alla fine.

    Il protagonista resta infatti intrappolato nel villaggio, ed il pubblico è costretto ad affiancarlo nel suo spaventoso isolamento. Attenzione poi a pensare al solito b-movie “isolazionista” e girato alla buona: in questo bisogna saper valutare, a mio avviso, lo spirito sincero che muove Bianchini nel voler dirigere Oltre il guardo, un film indipendente assai pregevole. In fondo, chi va al cinema, non dovrebbe neanche sapere se sta vedendo un film dal budget milionario o di pochi euro: il biglietto da pagare, il più delle volte, quello è. Pregevole, folkloristico, pluri-premiato e (per una volta) molto facile da reperire online (c’è su Netflix).

    Se la storia è di per sè basilare, si riesce a svolgere in modo essenziale e particolarissimo, insistendo su elementi ricorrenti quanto suggestivi: elementi semplici, soprattutto, come l’acqua che invade l’ambiente di continuo (per un motivo che si capirà nel finale), e risparmiando i dettagli cruenti e splatter a semplici suggestioni, vaghi rimandi: il tanto che basta. Per il resto, la paura di Oltre il guado è quella di risate isteriche nella notte, isolamento notturno, porte e finestre che sbattono, mancanza progressiva di viveri, presenze che si dissolvono ed oggetti molto utili che scompaiono nel nulla.

    Mi sembra anche difficile cogliere precisi riferimenti ad altri film o cineasti, per quanto riesca ad essere personale questo eccezionale regista che comunque sembra conoscere sia Lovecraft che Lucio Fulci. A mio avviso, il vero merito è quello di aver saputo declinare, con mezzi e modi adeguati ai tempi di oggi, la celebre intervista a Fulci, quella in cui affermava che “l’orrore è pura idea“: in Across the river si sviluppano idee, archetipi della paura di ogni tempo, e sostanziali quanto imprecisabili sono i rimandi a molti generi (su tutti, l’uomo punito per la propria morbosa curiosità, per aver osato profanare segreti che dovevano rimanere tali – di natura chiaramente lovecraftiana, per inciso). Ma quello che spaventa davvero di questo film è l’idea di orrore che ogni spettatore vorrà immaginare dietro quella porta, in fondo alla cantina, dentro il camper del protagonista, forse anche negli sguardi dei due misteriosi personaggi più anziani (i cui discorsi sono in sloveno, e sono sottotitolati – credo volutamente – solo nella seconda parte).

    La visione di questo orrorifico one-man show, incredibilmente accattivante nonostante un soggetto restrittivo (il protagonista parla soltanto quando registra i propri appunti, e pochi altri sono i dialoghi del film), potrà comunque richiamare sia classici come La casa che alcuni episodi di AI confini della realtà, con la differenza che il taglio fumettistico/di intrattenimento dei succitati cede il passo ad un realismo concreto, mai esasperante (per intenderci, niente telecamere traballanti nè violenza gratuita di troppi pseudo-snuff). E se ancora non siete convinti di questa visione, considerate la grandissima qualità e nitidezza delle riprese e della fotografia, sempre pulita e modernamente sinistra. A questa qualità latente, poi, si aggiunga un’ulteriore trovata efficace: ovvero le due disgraziate sorelle che, nonostante si nascondano in vari anfratti, si vedono chiaramente e senza inutili misteri. Credo abbastanza convintamente che tanti altri film, più fiacchi, avrebbero insistito con suggerire la suggestione fino a stufare lo spettatore.

    Il tutto dovrebbe bastare a chiunque per trovare un’ottima scusa per gustarsi questa perla dell’orrore nostrano, passata un po’ sottogamba negli scorsi anni – e finalmente a disposizione del grande pubblico mediante Netflix.

    Curiosità: Oltre il guardo è una storia vera e/o è basato su una leggenda locale?

    Ha risposto il regista da Nocturno.it (riporto uno stralcio):

    La storia delle due gemelle maledette che infestano la zona, invece, ha come spunto una qualche leggenda popolare locale?

    No, però, sai, quando scrivi non inventi nulla di nuovo. Rielabori cose del tuo passato che ti hanno raccontato, che hai sentito, e quindi, involontariamente peschi dalla cultura locale popolare, sempre. Di rimando, c’è comunque quello che hai vissuto nella tua terra.

    Poi il fatto che la storia non dia tutte le risposte…

    Credo che sia questo il bello dell’orrore, che nei film horror non devi spiegare, secondo me, o almeno non in questi. Le gemelle possono anche essere state annegate ma non morte ed essere ancora lì, invecchiate, oppure possono essere dei demoni… mi piace il fatto che ognuno vada alla ricerca di una propria storia, di una propria idea. A me non interessava spiegare, se non introducendo i personaggi dei due anziani, cioè la memoria del vecchio, per dare un po’ di veridicità alle gemelle. Ma poi anche lui ha i ricordi sbiaditi, è tutta una cosa non spiegata che a me piace, e risulta realistico.

  • Pontypool: quando l’horror si mette in cattedra e fa accademia

    Pontypool: quando l’horror si mette in cattedra e fa accademia

    Grant Mazzy è uno speaker radiofonico quasi a fine carriera, che conduce il suo programma assieme all’ansiosa produttrice e ad una giovane regista. Durante la diretta arrivano notizie inquietanti: sembra che Pontypool, la città in cui è ambientata la storia, sia stata contagiata da una misteriosa epidemia…

    In breve. Unico nel suo genere quanto vagamente didascalico, certo non un capolavoro: sembra di assistere al primo horror puramente “di parola” della storia. Poco dopo, la storia degenera nel classico accerchiamento da zombi. Non è scontato, a mio avviso, comprendere il focus della trama, e questo non giova alla qualità globale della pellicola. Certamente un film da non sottovalutare, per quanto destinato – nel suo essere fieramente indie – alla nicchia di spettatori più propensa all’orrore puramente metaforico.

    L’interno di una stazione radio è l’insolita ambientazione scelta per questo horror low-budget tratto dal libro “Pontypool Changes Everything” di Tony Burgess, da cui la BBC ha anche tratto – in modo piuttosto scontato, direi – un dramma radiofonico di circa un’ora. Il regista McDonald propone quindi una storia del terrore decisamente anticonvenzionale, basata parecchio sulla parola (e solo in parte sulle immagini), che porta al parossismo il tutto esprimendo l’idea che la lingua inglese sia stata infettata da una specie di meme virale, il quale spingerebbe le persone a diventare zombi assassini (questa, almeno, sembra essere l’interpretazione più plausibile). Per quanto sembri un’idea stramboide – ed in certa misura lo è – merita una standing ovation l’essersi distaccati, quantomeno, dalle consuete cause scatenanti del contagio (alieni, meteoriti, esperimenti militari, cause ignote). Molto meno esaltante la dinamica del film stesso, che tende secondo me a far perdere di vista il focus dell’intreccio costringendo lo spettatore a darsi un paio di scosse, nel terrore di essersi perso qualche dettaglio importante. In due parole: non è troppo chiara la causa del contagio.

    Assolutamente claustrofobica, poi, e piuttosto azzeccata, la scelta di destinare l’ambientazione dell’intero film all’interno della radio, con echi ovvi sia a moltissimi classici zombi movie del passato (La notte dei morti viventi, Zombi), sia al finale di uno dei lavori più sfortunati di Fulci (Zombi 3). Non mi sento quindi di affermare che il messaggio passi chiaramente, e questo per ragioni di sceneggiatura ampiamente discutibili: sia perchè la trama sembra preoccuparsi – più che dare plausibilità alla causa del caos che attanaglia Pontypool – di forzare la mano sullo scienziato che spiega tutto (?), oltre che su uno dei flirt più melensi ed improbabili dell’universo conosciuto. E poi mi spingo oltre: è abbastanza assurdo che uno spettatore medio debba, per godersi il film appieno, leggere i vari “spiegoni” che sono diffusi sul web a riguardo. Il mio ovviamente è un parere personalissimo, può darsi che la sua visione si riveli molto più gradevole per la maggioranza di voi, ed io – per quanto abbia cannibalizzato negli anni pellicole decisamente più contorte, stramboidi e surreali di questa – ho trovato “Pontypool” riuscito solo in parte, immerso com’è nel cercare di fare sociologia del linguaggio “de noantri“, e troppo poco concentrato a produrre un buon horror.

    Da un lato viene ripresa a piene mani, sia dal punto di vista visivo che concettuale, lo zombi romeriano come sinonimo di personalità conformista, ottusamente coinvolta nel ripetere parole come un mantra, e naturale sinonimo di disumanità, cannibalismo e omologazione. Niente male, comunque, per quanto ciò sia parecchio distante dai gusti di quel pubblico horror che predilige l’azione sulla riflessione meta-cinematografica e/o sociale (c’è modo e modo). Si insiste anche, sottilmente, su un ulteriore concetto – quello sì, sanamente radical chic: quello del doversi distaccare dal conformismo della comunicazione verbale per sopravvivere, in particolare da quello dei mass media e, più in generale, delle parole che non significano più nulla, e che si riducono ad un mero ripetersi di idiomi senza significato che ci rendono … morti viventi (maddai). Solo cambiando la semantica, sembra suggerire il regista, ovvero stravolgendo la parola più terrificante che possa esistere (kill) e trasformandola in tutt’altro (kiss), si può riprodurre un barlume di speranza, per quanto questa trovata sia stereotipicamente hippie e (probabilmente) forzata.

    Come se non bastasse, per il regista non si tratta di zombi, bensì di conversationalists – ovvero persone che – avendo saturato il proprio linguaggio – sono involuti allo stato di belve, e desiderano solo strappare la lingua a morsi di qualcun altro. A fine visione del film, può essere richiesta una breve relazione su quanto visto da parte degli spettatori…

  • Giallo: il film di Dario Argento quasi da riscoprire

    Giallo: il film di Dario Argento quasi da riscoprire

    Nella Torino dei giorni nostri un maniaco rapisce e sevizia svariate donne fingendosi tassista; un poliziotto, assieme la sorella di una delle rapite, si mette sulle sue traccie…

    In breve. Scordatevi i fasti del passato, gli ascensori che decapitano e le coltellate coreografiche: “Giallo” è un prodotto nella media, molto diverso da quello che vi aspettereste dal Maestro romano – Questo per via di una sorta di influenza “televisionabile” e “americaneggiante” che ne condiziona l’andamento, e che globalmente ne snatura l’aspetto più seventies. Secondo molti, ciò avrebbe un’accezione totalmente negativa: a mio avviso non è così, e  pur non trattandosi di un lavoro propriamente memorabile c’è piena consapevolezza di quel che si fa. I fan non possono prescindere per completezza, tutti gli altri – per quello che posso capire – faranno volentieri a meno.

    La crisi creativa! Il cinema horror/thriller italiano è morto e sepolto (voi cosa avete fatto per aiutarlo, finora?), non si fanno più i film come una volta, una volta … che c’erano bei lavori, caro Lei! E poi: gli amici sono degli stronzi, si stava meglio quando si stava peggio, il metal non è musica ma rumore, non c’è più il-rispetto, una volta le persone si volevano più bene, era meglio questo attore di quello, “la doppia parte no, che poi si capisce subito“, la trama, uh! … com’è scontata, l’interprete femminile era “più bella che brava” (cit.). E se non vi basta, in “Giallo” c’è pure il tremendo “finale voluto dalla produzione”, una cosa che potrebbe scomodare addirittura le vicissitudini di Ridley Scott con il suo Blade Runner. Roba su cui, insomma, i critici costruirebbero volumi enciclopedici, e non sembrerebbero esserci dubbi (per queste ragioni) sul fatto che questa pellicola italo-americana vada semplicemente evitata. Eppure, incredibilmente, se lo si guarda col piglio corretto qualcosa non torna: Giallo/Argento non fa schifo. Certo, rimane un lavoro costruito con un ritmo altalenante, che vive alcuni momenti di discreto livello ed altri decisamente sottotono, e che qualcuno ha definito troppo televisivo: non è una cosa così orribile, in fondo anche i primissimi di Argento lo erano (“La porta sul buio“), e soprattutto il livello di gore di certe sequenze è fuori dal filmabile e questo, trattandosi di Dario Argento, non può che essere un bene. Manca qualcosa da “Giallo” – e su questo non ci piove, ma a ben vedere si tratta solo del feeling settantiano/ottantiano che ha ceduto inesorabilmente al “passo coi tempi”, producendo qualcosa di lontano dal cult ma che, globalmente, non è onesto stroncare in toto. La parola magica, in questi casi, è proprio questa: rassicurare. I fan di Argento (tra cui mi annovero), avvelenati da decenni di porcherie propinate a mo’ di cinema del terrore, vogliono essere rassicurati. Vorrebbero che il Maestro del Brivido gli desse esattamente quello che si aspettano: un nuovo Profondo Rosso, un Suspiria rivisitato, un Phenomena, un Inferno old-school. In molti casi queste persone, malate di “nostalgismo” cronico, vorrebbero il ritorno del 1970, del giradischi, delle sigarette nei cinema, degli occhiali 3D di cartoncino, dei capelli a microfono, magari pure delle TV valvolari e dei Black Sabbath versione giovanile. I nostalgici del resto, a forza di esserlo e di martellarsi gli attributi, paradossalmente perdono di vista quello che desiderano, finendo così per soffrire in eterno a vuoto. A me, insomma, la crociata intellettualoide anti-argentiana degli ultimi anni, pur dovendo riconoscere che il tempo passa e tende ad infiacchire, mi pare alquanto fuori luogo: “Giallo” è un prodotto diverso dal solito che si difende dignitosamente, al contrario di altri epigoni sopravvalutati. Il passato non si tocca, ma adesso è inutile ripetersi, vediamo cosa altro si può fare: e gli ultimi film di Argento (con poche eccezioni) a me trasmettono esattamente una voglia di rinnovare i canoni.

    Un balzo indietro nel tempo sarebbe invece del tutto irragionevole, e in definitiva “Giallo” non è assolutamente la porcheria immonda su cui avete potuto leggere. Con questo non voglio difendere acriticamente un prodotto di questo tipo, che dal canto suo possiede una trama troppo poco succulenta rispetto a quella dei succitati capolavori, oltre ad essere contaminata da un insidioso tubo catodico che la rende in troppi momenti decisamente fiacca. È un peccato peraltro, perchè l’inizio promette bene, citando il taxi di Suspiria ed il teatro di Profondo Rosso: “Giallo” suggerisce sul momento una sorta di “Non ho sonno” riveduto e corretto, e quest’ultimo rimane forse l’ultima vera espressione di un cinema che non esiste più. Non fai in tempo a fregarti le mani che arriva il colpo basso che non ti aspetti: e non mi riferisco all’identità dell’assassino, svelata allo spettatore con una naturalezza terrificante rispetto alla cura maniacale nel nascondere dettagli a cui siamo stati abituati in passato. Scopri piuttosto che il colore del titolo è da intendersi in senso letterale (fa riferimento alla pelle dell’assassino) e non meta-cinematografico – orbene, scordatevi Lenzi, Bava, Fulci e compagnia perchè non si tratta dell’opera citazionista a cui potevate aver pensato. No, non è l’ennesimo revival settantiano, anche se c’è qualcosa che arriva a prendere ispirazione da alcune caratterizzazioni del passato: l’assassino, per esempio, finisce per ricordare altri suoi omologhi di metà anni 80, essendo un emarginato che uccide per frustrazione e soprattutto per solitudine. Alcuni da sprazzi di torture porn moderni e da thriller commerciali “in prima serata su RaiDue” chiudono il cerchio, e rendono il film un lavoro difficile da inquadrare e, al tempo stesso, troppo scontato da stroncare. Roba non eccelsa nel suo complesso, di fatto, quantomeno in linea con alcune delle uscite di successo del periodo e qualche richiamo a film come “Il collezionista di occhi“. Spero di aver reso l’idea di questa singolare pellicola che, con pochi pregi e vari difetti, si trascina per un finale mediocre ma, a suo modo, abbastanza imprevedibile. Nonostante un certo livello di piattume la cruenza di certe scene è tornata ad essere intatta, e questo farà piacere a molti, anche se il contesto sarà comunque discutibile fino alla fine. Chiaro, c’è un pesante tocco esterno (gli americani) e si nota, ma la cattiveria ed i primi piani che hanno reso famoso Argento ci sono, anche se passano quasi inosservati e senza lasciare propriamente il segno.

    Altro che la webcam del Cartaio: i momenti di tensione sono avari ma dosati con fermezza (anche musicalmente) e posseggono una carica violenta, visionaria e morbosa che a me ha ricordato l’atmosfera chirurgica di Shadow e, verso la fine, il celebre clarinetto di “Non ho sonno”; sempre sprazzi leggeri, mai evocazioni vere e proprie. Impossibile non citare la cruenta aggressione del macellaio (il passato dei due antagonisti è filmato con gran classe), oltre alle feroci torture vagamente – e senza scopiazzare – alla Hostel. Non malissimo, quindi: sotto il profilo prettamente gore troverete sangue, labbra e dita tagliate, siringhe anestetiche in primissimo piano oltre ad un senso di “vedo-non vedo” che potrà risultare atipico allo spettatore medio di Argento ma che, in tutta sincerità, non è quella cosa immonda di cui troppi hanno blaterato senza badare al film stesso. Nessuno, peraltro, ha detto una parola su un gruppo di attori decisamente superiori alla media, oppure sull’interessante doppia interpretazione di Adrien Brody, troppo occupati come erano a “denunciare” in modo saccente che ci sarebbe uno spoiler nei titoli (?), e che si capisce subito come stanno le cose (molte grazie della precisazione, del resto l’assassino lo vediamo in faccia da subito … magari non era questo il punto). Prendo le distanze da chiunque, a questo giro: da chi non lo ha visto pregiudizialmente, dai siti horror che non hanno (forse snobisticamente) avuto la voglia di recensirlo, e da coloro che hanno preso spunto da Giallo per ribadire che Argento non esiste, deridendone forma e contenuti con argomentazioni limitrofe a quella di un bar. Un feeling, quello del film, di suo poco impegnativo, degno di un discreto prodotto commerciale con cui trascorrere una serata che pero’ non merita, per quello che si vede, di essere trucidato come fosse una pacchianata della Asylum. Il punto dolente, semmai, è che ormai il regista romano sembra quasi costretto a fare quello che i fan esigono, e guai ad uscire dalle righe perchè sarai massacrato da tutti senza appello. Onore a lui invece, ed al fatto che – tra felici riprese e cali pesantissimi – si continui a rifiutare di riciclare il passato nel presente. Giallo è questo, probabilmente meno di quanto io abbia scritto, ma voi diffidate da chi lo ha recensito ribadendo la melensa storiella del “si stava meglio quando si stava peggio” o l’intramontabile “vuoi mettere la magia dei primi?”. Per me qualsiasi parallelismo tra due film distanti 30 anni l’uno dall’altro è fuori dal mondo, talmente strambo e campato in aria da farmi sospettare che molti dei suddetti “critici” non sappiano davvero di cosa stanno parlando. Non accetto per questa ragione che costoro, e lo scrivo con tutto il rispetto possibile, possano non soltanto sputtanare un genere in toto, ma addirittura intavolare comizi sulla situazione penosa del thriller/horror in Italia. Gente che, purtroppo, Albanesi e Zampaglione in molti casi non sa nemmeno chi siano. Se lo scopo di una critica cinematografica dovrebbe essere quella di far capire cosa contiene un lavoro non ho trovato nessuno, in questo caso, che sia riuscito a farmi questa cortesia. E forse è stato meglio così, perchè o io ho visto un altro film del 2009 chiamato “Giallo” (con i suoi noti problemi di distribuzione), oppure chi ne ha scritto ha guardato qualcos’altro.