DENTRO_ (99 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • INLAND EMPIRE: il David Lynch più criptico di sempre

    INLAND EMPIRE: il David Lynch più criptico di sempre

    Trovare una spiegazione per INLAND EMPIRE sarebbe come voler fare un buco nel muro con un cucchiaino: difficile, non impossibile e da pianificare solo in caso di reale necessità. Del resto già il titolo – reso un po’ malamente come “L’impero della mente” piuttosto che un più letterale “Impero Interiore“, risulta piuttosto ostico e “spaventoso” per il pubblico mainstream, per il quale tutto deve essere razionale, lineare, comprensibile, happy-end incluso. Guai ad azzardare di inscenare, per esempio, uno pseudo-serial televisivo fatto da attori con la testa di coniglio.

    In breve: un Lynch estremamente criptico per uno dei film più complessi e lunghi mai girati dal regista. La sostanza non manca, la forma eccelle come sempre ma l’impressione è che ci sia troppa “carne al fuoco”.

    Del resto Lynch, da tempi non sospetti, fa il meno possibile per rivolgersi al pubblico ordinario di maggioranza: quello tutto popcorn, risate grasse, mostri finti ed eroi rassicuranti. Ancora una volta non fa che “divertirsi” a disorientare il proprio pubblico, proponendo due (tre?) storie diverse innestate nei modi meno prevedibili, e provocando un curioso feedback: molto spesso, infatti, le sue opere precedentemente “maledette” vengono regolarmente rimpiante a discapito di quelle attuali. E’ quello che accade quando molti recensori rivalutavano Mulholland Drive oppure il capolavoro “Strade perdute”, mandando le peggiori maledizioni contro INLAND EMPIRE, accusandolo di essere troppo distante dal pubblico, troppo soggetto a molteplici interpretazioni ed eccessivamente vaporoso nella sua struttura. Del resto da sempre proporre un’opera “difficile da capire” autorizza la critica, mediante un meccanismo che non ho ancora troppo chiaro, a far partire un tiro al bersaglio moralistico alla ricerca di difetti, trascurando malignamente qualsiasi valutazione di contenuti e di forma (vedi le reazioni negative all’uscita di Inferno di Dario Argento, ad esempio).

    “…come nel buio di un teatro, prima che la scena si illumini”

    Se la trama di INLAND EMPIRE è nella sua componente realistica piuttosto semplice: Nikki Grace, un’attrice sposata con un uomo piuttosto influente e pericoloso, riesce ad ottenere un ruolo (quello di Sue) in un film importante. Si tratta di un soggetto ripreso da un lungometraggio abbandonato a causa dell’omicidio dei due vecchi protagonisti, dal titolo “47” . Dopo qualche tempo finisce a letto con il coprotagonista Deron Berk (che interpreta Billy, ed è suo amante sia nel film girato che nella storia raccontata, a quanto pare), scatenando così una serie di allucinazioni spaventose. Nel frattempo le riprese del film proseguono senza sosta, mescolando spesso e volentieri quello che accade nella fiction con quello che avviene realmente tra Deron e Nikki. Sono le “conseguenze delle proprie azioni“, in concreto, ad essere il traino di tutto l’ intreccio di INLAND EMPIRE. La protagonista subisce infatti queste sconnesse visioni, in cui è impossibile capire cosa sia reale e cosa immaginato: incubi che sono dovuti al senso di colpa per quello che ha fatto (ammesso che l’abbia fatto davvero, o soltanto pensato), e alla reazione a catena che quel gesto  ha causato (i rapporti difficili col marito Piotrek, forse anche la perdita di un figlio). Ciò nasconde la doppiezza (o la molteplicità) contraddittoria del carattere della mite Nikkie, che mostra progressivamente una natura ambigua e addirittura violenta. Lynch riesce a boicottare l’essenza hollywoodiana rigirando la frittata non sul fornello di una cucina, ma direttamente nella centrifuga di una lavatrice, inserendo una marea di riferimenti simbolici che lo rendono forse facilmente accusabile di fare cinema “per adepti”.

    Tre sono gli elementi essenziali di INLAND EMPIRE: il grammofono che suona “Axxon N“, la “lost girl” (una prostituta) che piange guardando la TV e la famiglia di conigli antropomorfi, in cui il capofamiglia racconta di avere un “terribile segreto” da nascondere. Altro elemento essenziale è il valore profetico di alcuni personaggi, tra cui l’inquietante vicina che dice di sapere che l’attrice avrà una parte, e che la trama del film avrà a che fare con una relazione amorosa e con un omicidio. Laura Dern ha testimoniato in un’intervista che non conosceva i dettagli della storia durante le riprese, tant’è che Lynch ha cambiato le carte in tavola senza preavviso più volte, mettendo in scena i consueti doppi – nello specifico, due attori che recitano due parti – e mostrando un’immedesimazione profonda, che non fa capire se i due stiano recitando o vivendo sul serio le situazioni. INLAND EMPIRE inscena sottili analisi psicologiche, forse un po’ troppo cariche di richiami ad “altro” : “We are like the spider. We weave our life and then move along in it. We are like the dreamer who dreams and then lives in the dream. This is true for the entire universe“, è stato riferito come “indizio” da Lynch più volte, ed è tratto dal testo religioso-filosofico Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad. I richiami non sono mai, comunque, vuotamente auto-referenziali: alcuni magistrali primi piani, che fanno paura solo a guardarli, servono a dipingere magistralmente la confusione dei personaggi ma si presentano troppo spesso come semplici suggestioni. Non mancano, poi, momenti satirici contro la TV plastificata attuale: penso al serial coi conigli ed alle risate nei momenti più inopportuni, oppure all’intervistatrice che fa battute dal sapore trash ammiccando ad una relazione clandestina tra i due attori prima che la stessa avvenga. Se a questo aggiungiamo una punta di acredine nei confronti di Hollywood  – basta ascoltare i primi mielosi dialoghi di “On High in Blue Tomorrows” per intuirlo – ci rendiamo conto che INLAND EMPIRE è un film “di nicchia”, fuori da qualsiasi standard anche del cosiddetto “buonsenso” (tre ore di film). E che tutto sommato, forse, il film che stavano girando non era poi così male, visti gli sviluppi successivi…

    “È tutto ok, stai solo morendo”

    L’impero interiore è, probabilmente, quello che tormenta un po’ tutti i protagonisti, vessati chi da difficoltà sentimentali (i due attori che vivono un’attrazione reciproca che nascondono malamente, e che esaltano attraverso la propria arte), chi da altre di natura economica (la prostituta con la faccia “censurata” all’inizio, oppure l’assistente alla regia Henry che ripete una frase dal sapore beckettiano: “sembra solo ieri … che riuscivo a badare a me stesso“). I conigli, poi, sembrano rappresentare in modo grottesco la famiglia di Devon (o Billy?), cosa visibile nel momento in cui Nikki (o Susan?) prova a telefonare a casa loro, con tanto di risate registrate anche lì. Un regno fantasioso e contorto in cui tutto diventa possibile, e che mescola vari livelli di realtà ed immaginazione. INLAND EMPIRE non è un capolavoro, e mi guardo bene dal dirlo: Lynch in questa circostanza ha giocato troppo sul disorientamento, su continui flashback (o flash-forward?) che appaiono pero’ disposti quasi a casaccio, e diventa difficile superare i tre quarti dell’opera senza volersi prendere quantomeno una pausa. Se da un lato è chiaro (?) che si vuole rappresentare il turbine di emozioni in conflitto della protagonista (una favolosa Laura Dern assieme ad un Justin Theroux ed un Jeremy Irons altrettanto all’altezza), forse è meno scontato pensare, ad esempio, che le nove “amiche immaginarie” rappresentino le multiple personalità di Nikki/Susan. Ciò diventa piuttosto evidente nei momenti in cui la donna, visibilmente turbata, schiocca le dita contemporaneamente alle proprie alter-ego che sembra vedere soltanto lei. Un espediente non certo innovativo ma molto efficace, utilizzato anche, ad esempio, da John Carpenter e James Mangold. Mentre quindi in “Strade perdute” Ghezzi aveva scomodato il nastro di Moebius per spiegare efficacemente l’intreccio, in questa circostanza non credo basterebbe un cunicolo spazio-temporale per capire qualcosa in più, ammesso che abbia senso provarci. Se la trama non scorre e non si hanno riferimenti, c’è poco da fare: il film non gira alla perfezione, il regista lascia troppe cose sul vago e, a mio parere, rischia di far degenerare l’opera in un vuoto contenitore. Un container di emozioni reali, di personaggi vivi, di certo non plastificato, sicuramente di spessore e girato con originalità, ma troppo carico di astrattismo e di “esercizi di stile” senza uno sbocco chiaro.

  • La fiera delle illusioni (Nightmare Alley): mentalismo e tunnel degli orrori a cura di Guillermo del Toro

    La fiera delle illusioni (Nightmare Alley): mentalismo e tunnel degli orrori a cura di Guillermo del Toro

    In un’intervista di qualche tempo fa Guillermo del Toro – classe 1964, guru cinematografico del fantasy a tinte dark – raccontava una storia singolare: nel 1998 il padre viene rapito in Messico. Per ritrovarlo, la famiglia decide ad affidarsi a dei medium: personaggi che truffarono, a detta dello stesso del Toro, i suoi familiari – sfruttando tecniche di manipolazione e contraffazione di vario tipo. Al regista erano rimasti impressi i “ganci” psicologici con cui i medium, in quei giorni angosciosi di prigionia, affermavano che il padre volesse parlare alla famiglia usandoli come tramite psichico, puntando sull’aspetto sentimentale e convincendo in particolare la madre del regista, molto propensa a credere a quelle storie. Ci volle un riscatto per farlo tornare a casa, convincendo la famiglia a trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti.

    Questo rappresenta uno dei leitmotiv da cui nasce la scelta di girare un film come La fiera delle illusioni, titolo evocativo quanto significativo in tal senso, che tratta una storia fictional di mentalisti che “evolvono” in medium per avidità, evidenziandone contraddizioni e trucchi psicologici utilizzati per avere la meglio su chi voleva credergli (gli stessi ganci di cui sopra in forma romanzata). La scelta del soggetto aderisce allo statuto virtualmente dichiarato in quell’intervista, e mostra un film idealmente perfetto, impeccabile come ritmo e recitazione, suggestivo, oscuro e pervaso di un costante, sarcastico humor nero. Non fosse per quel finale un po’ “telefonato”, quel contrappasso così prevedibile (del resto parliamo di un romanzo oggettivamente datato il cui spirito, evidentemente, non si poteva mutare) che non citiamo apertamente per evitare spiacevoli quanto evitabili spoiler, potremmo parlare senza indugio di uno dei dark horror più interessanti e originali degli ultimi anni.

    La storia

    La fiera delle illusioni (Nightmare Alley) è il lungometraggio numero undici di Guillermo Del Toro (mentre scriviamo è in post-produzione il numero dodici, che sarà – a quanto pare – un adattamento di Pinocchio di Carlo Collodi in stop motion). Il film trae il soggetto dal romanzo omonimo di William Lindsay Gresham: un romanzo che è vecchiotto di suo, come dicevamo, essendo dei primi del Novecento, ambientato durante la seconda guerra mondiale e sul quale l’effetto retrò poteva provocare un fastidioso effetto vintage, non apprezzabile da tutti. Cosa che per  fortuna non succede, tanto è abile la regia a modernizzarne la forma ed attualizzarla, nonostante il fatto che le riprese si sono dovute interrompere causa una delle prime ondate della pandemia di Covid-19.

    L’ispirazione

    Si tratta del secondo adattamento cinematografico tratto dal romanzo, dopo quello datato 1947 (firmato all’epoca dalla regia Edmund Goulding). Sembra assodato che Del Toro lo faccia partire dagli stessi presupposti di Freaks, il capolavoro oscuro e romanticheggiante di Tod Browning, senza disdegnare qualche trovata (la “donna elettrica”, ad esempio) che ad oggi fa parte dell’immaginario pop anche grazie a Freaks Out di Mainetti. I personaggi sono pochi quanto essenziali: il vecchio mentalista che non esercita più, per paura di perdere il controllo e abusare del proprio pubblico, la scaltra finta maga, la ragazza elettrica dal lato umano, l’antieroe Stan, i vari freak e personaggi da baraccone sfruttati e costretti a varie mostruosità pur di dare spettacolo (e, si dice apertamente durante il film, far sentire il pubblico migliore di loro). L’impianto scenico della regia è quello di sempre, come prevedibile dato il contesto, in bilico tra l’horror e la fiaba macabra, tanto da far pensare a più riprese alle trovate teatrali o circensi di Funhouse di Tobe Hooper o, per restare su film più recenti, le incursioni di pagliacci mostruosi modello Rob Zombi. Ma c’è anche una seconda metà del film in cui il tono si normalizza, il focus si sposta magicamente da un vecchio baraccone pieno di stranezze ad un lussuoso studio di consulenza psicologica, con una costante neve a fare da sottofondo.

    Le chiavi di lettura

    Si respira un’aria malsana, in effetti, tanto più che vediamo l’ambiguo personaggio di Stan (un Bradley Cooper monumentale, tanto da voler girare una scena di nudo senza controfigure per sua scelta) muoversi sulla scena senza presentare o far presagire nulla di sè: all’inizio, semplicemente, parla con qualcuno in un letto, poi da’ fuoco ad una casa. Che il suo personaggio sia un anti-eroe di quelli epocali è chiaro, e lo è fin da subito: con l’aria dell’uno qualunque, misterioso, col tempo si svela anche infido, arrivista e donnaiolo. Non fosse per quel look a cui manca solo la frusta per sembrare (involontariamente, s’intende) Indiana Jones ante litteram, avremmo avuto l’antieroe perfetto, ideale, immarcescibile.

    Un antieroe mentalista, peraltro, in grado di usare disivoltamente tecniche di lettura a freddo e manipolazione psicologica, facendosi passare per veggente (il libro Paranormale di Richard Wiseman, per inciso, descrive fedelmente alcuni dei trucchi che vengono svelati nel film: uno su tutti, la tecnica nota come black rainbow, che consiste nel profilare la persona a cui si sta “leggendo il futuro” attribuendogli descrizioni generiche o contraddittorie: cose che affascinano e valgono un po’ per tutti, insomma, tipo tendi ad essere socievole ma a volte preferisci stare per conto tuo). Gran parte della narrazione è incentrata sul dilemma etico di usare il mentalismo come innocuo intrattenimento oppure forzare la mano di quelle tecniche, fingersi autentici medium ed ingannare spudoratamente persone molto ricche (quanto propense alla creduloneria). Un horror drammatico che, in definitiva, è difficile da racchiudere nel genere classicamente inteso, e che è in grado di svelare i misteri e gli imbrogli da sempre utilizzati in certi ambiti. In un periodo come quello che viviamo, del resto, un’opera del genere esce con un tempismo perfetto, rischiando di diventare (quasi per forza di cose) addirittura un film politico. Il significato recondito nel film, qualora ve ne fosse solo uno, probabilmente risiede tutto in questo aspetto primario.

    Il dark mood

    I toni oscuri sono effettivamente relegati alla prima parte, perchè è la seconda ad essere sorprendente: l’apparizione della figura algida e sinistra figura della psichiatra senza scrupoli (una Cate Blanchett perfetta, mostruosamente sensuale – come già in Don’t look up – per troppo tempo associata meccanicamente ad un ruolo relativamente insipido ne Il signore degli anelli di Peter Jackson), la quale entra in combutta con il protagonista, al fine di raggirare pezzi sempre più grossi. Il tutto in nome dell’avidità, di una malintesa attrazione reciproca e in barba all’etica, il che non potrà che risolversi dentro quel giardino labirintico innevato, che non poteva che ricordare quello quasi esoterico del kubrickiano Shining. Con una perla ulteriore, peraltro: una imperdibile seduta psicologica – di scuola freudiana, presumibilmente, o comunque del periodo in cui la psicologia faceva uso fin troppo disinvolto dell’ipnosi – con cui Lilith Ritter (nomen omen) sbatte sul lettino psicoanalitico (in un’incalzante seduta, sessualmente allusiva quanto manipolativa)  il povero Stan, evidenziando le fragilità del personaggio e scoperchiando i suoi segreti. Su tutti, il suo autentico rapporto col padre, soprattutto, che sarà il vero e proprio twist del film.

    Curiosità. Nel film viene curiosamente usato il termine geek, non nel senso di “super nerd” informatico bensì dalla parola tedesca geck, ovvero letteralmente “sempliciotto” con riferimento specifico ai fenomeni da baraccone più selvaggi, sia uomini che donne. Si trattava realmente di cruenti spettacoli di freak in voga fino a inizio Novecento, che prevedevano ad esempio che staccassero sul serio la testa di animali vivi sulla scena, e che il pubblico pagasse per vederli.

  • Povere creature! di Lanthimos è il trionfo dell’Anti-Edipo

    Povere creature! di Lanthimos è il trionfo dell’Anti-Edipo

    “Povere Creature!” (titolo originale: Poor Things), è un romanzo di Alasdair Gray pubblicato nel 1992. Si tratta di una storia in stile gotico che combina elementi di satira sociale e politica con una narrazione surreale. Il libro è ambientato in una Glasgow vittoriana e segue la vicenda di Bella Baxter, una donna riportata in vita attraverso esperimenti scientifici. “Poor Things” è stato adattato in questo film del 2023 diretto da Yorgos Lanthimos, con Emma Stone nel ruolo della protagonista. La pellicola è stata molto apprezzata per la sua estetica unica e le tematiche profonde.

    Scrivere recensioni assomiglia a volte a uno sport bizzarro, nel quale non solo devi “sollevare i pesi” della tua esibizione interpretativa ma, come se non bastasse, sei costretto ad affannarti in derive letterarie improbabili, trovando rifugio tra i meandri di quello che hai provato, delle cose che hai letto e che forse c’entrano qualcosa, degli episodi che ti vengono in mente, le suggestioni che ricevi dallo schermo. Almeno per me è stato così, dopo aver visto Povere creature! in un cinema (purtroppo) mezzo vuoto, per quel che mi riguarda: e vale soprattutto quando assisti ad un lavoro del genere, semplice eppur complesso nel suo concepimento, incerto sull’attribuzione del genere, attualissimo – soprattutto – per le tematiche che scomoda. Un film che urla, letteralmente, la necessità di parlarne, di vederlo una prima o una seconda volta, per coglierne le numerose stratificazioni che lo caratterizzano.

    Cosa significa poor things

    Andrebbe come prima cosa sgombrato il campo sul titolo, e sulla pseudo-polemica legata alla traduzione: Poor things non significa povere cose (nè cose da nulla, come qualcuno ha maccheronicamente tradotto), ma andrebbe tradotto come poverini, poveracci, poveretti. In molti casi l’espressione vorrebbe esprimere disperazione e sofferenza, come in she just seemed more desperate, poor thing (sembrava disperata, poverina). Il sempre affidabile Urban Dictionary, peraltro, sottolinea come l’espressione poor thing finisca per denotare compassione per qualcuno, per una persona in questione a causa del dibattere su di essa. Da escludere, pertanto, l’idea che Povere creature! possieda una qualche componente exploitation (che è considerato il sottogenere che mostra violenza, sesso e derivati per il gusto di shockare o, al limite, per presunti scopi educativi o sociologici): l’attenzione sembra semmai posta sull’empatizzare con la vittima, impersonificandone la sofferenza e provando a mostrare come uscirne.

    Si è molto parlato di questo film negli ultimi tempi – la sua produzione risale al 2021 – e si tratta dell’ennesimo del prolifico Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro), il quale dirige l’ennesima storia simil-distopica dai tratti singolari. Una narrazione dotata di un approccio diretto e privo di fronzoli, costruito come un romanzo di formazione (è la storia di una fanciulla che rinasce, letteralmente, grazie ad una ardita forma di chirurgia) con numerosi echi al Von Trier di Nimphomaniac. Per il soggetto il regista greco va a pescare da un romanzo di Alasdair Gray del 1992, che racconta di questo singolare personaggio dai tratti freak che, per ribadirlo con l’espressione del film, finisce per essere “madre e figlia nello stesso corpo“.

    Noi nasciamo capaci d’imparare, ma non sapendo nulla, non conoscendo nulla – scriveva Rousseau nel suo celebre romanzo pedagogico Emilio del 1762. È curioso osservare che i presupposti di Povere creature! potrebbero collocarsi su questa falsariga. Qualche riga dopo, infatti, l’autore ipotizza per assurdo che se un fanciullo avesse alla sua nascita la statura e la forza di un adulto, quest’uomo bambino sarebbe un perfetto imbecille, un automa, una statua immobile e quasi insensibile. Serve a rimarcare il potere dell’educazione e l’importanza per ogni essere umano di imparare a conoscere  e capire il mondo (trovare l’a che serve per agire, per dirla alla Rousseau). Ed è come se l’autore del romanzo, ed il regista come diretta conseguenza, partissero dai presupposti posti per assurdo da questo celebre scritto, immaginando non un fanciullo ma una fanciulla bambina nel corpo di un adulto, che si comporta come tale assorbendo progressivamente il bene ed il male, suo malgrado, dal mondo che la circonda.

    La storia è quella di Bella Baxter, una giovane donna dal comportamento infantile, frutto del lavoro di un esperto chirurgo (Godwin Baxter, ovviamente nomen omen). Il medico è dedito ad esperimenti arditi – tra cui innestare teste e corpi di animali viventi diversi, come cani, gatti e maiali, al fine di creare nuove specie o, al limite, di mostrare i limiti oltre i quali la scienza non dovrebbe andare. Complicato effettuare operazioni del genere in una struttura sanitaria, del resto: per cui vediamo l’allestimento di una sala operatoria all’interno di una villa privata. Un ambiente che non può non evocare quello grottesco dell’isola del dottor Moreau, in cui un mad doctor supera i limiti dell’etica in onore dell’ossessione per la scienza. Ma il vero focus è  su Bella, il suo esperimento meglio riuscito: il personaggio non ha alcun ricordo, è infantile, libera e spensierata, oltre al fatto non indifferente di vivere senza saperlo nel corpo della madre morta suicida poco prima. Il corpo della madre di Bella è stato recuperato dal chirurgo in extremis, e si è deciso di impiantarle il cervello del feto che portava in grembo. Ogni conseguenza è imprevedibile, a questo punto, e la domanda pressante è: Bella scoprirà di vivere nel corpo della madre, oppure no? Cosa le comporterà saperlo, quando arriverà questo momento?

    Gli echi di Frankestein sono gli stessi del romanzo a cui il film si ispira, ma la dimensione horror classica è solo una condizione di partenza, non esclusiva, dalla quale si sviluppa un film totalmente surreale, imprevedibile e multisfaccettato, con numerosi echi erotici e vari significati psico-sociali. Sì, perchè il rito di iniziazione di Bella è la scoperta della sessualità, che la porta a fare sì che il suo Es scardini ogni convenzione e richieda, ad un certo punto, al proprio creatore di essere lasciata libera di scegliere. Un lavoro a cui Lanthimos conferisce una parvenza tra il vittoriano e lo steampunk, una sorta di mondo incantato in cui le funivie sovrastano il cielo delle città, i colori sono tanto saturi da sembrare fumetti, e in cui è ordinario che una giovane donna (interpretata da Emma Stone, che si muoverà meccanicamente per buona parte del film) vada a chiedere ad una attempata signora, appena conosciuta, se compensi con la masturbazione la mancanza di sesso che vive da più di vent’anni. La sua (ri)scoperta del sesso è un insight autentico, un’illuminazione, una rivelazione quasi mistica che la spinge a scoprire la logica del mondo e, come prevedibile, ad impattare in ogni suo aspetto.

    Povere creature è (anche) un film sulla degenerazione, sulla perdità di umanità, sul sesso come tabù e sulla sua valenza liberatoria, tanto orgasmatica quanto rivoluzionaria, che tanto si lega alle tematiche del desiderio e della repressione e che – soprattutto – rifiuta il familiarismo tipico delle pellicole più claustrofobiche di questo tipo: quelle per cui tutto nasce, vive e muore in famiglia, con la famiglia che diventa prigione, lettino dello psicoanalista e tomba. In questo film il focus sembra essere aprire noi stessi al mondo, che è probabilmente ciò che Lanthimos ci invita a fare – pena perdere la nostra umanità.

    Per questo è necessario, oggi e per sempre, non soffermarsi superficialmente sull’aspetto sessuale prompente che l’attivissima Bella ci propina, per quanto la regia insista su di esso senza tabù sfruttando frequenti primi piani facciali, nonchè una rassegna di pratiche erotiche che vengono quantomeno citate se non mostrate (masturbazione, coito in qualsiasi posizione, rimming, cunnilingus, sado-masochismo). Il punto, semmai, è il significato simbolico di queste pratiche, che da un lato vogliono dire emancipazione sessuale (femminile, soprattutto), dall’altro fanno diventare la trama diventa una riflessione spassionata e coinvolgente sui perchè dell’essere umano, dal punto di vista di un cervello non completamente sviluppato o “immaturo” come quello di Bella, che appare, grottescamente, più ragionevole e sensato di quello di un uomo adulto, viziato da rabbia e gelosie irrazionali, senso di possesso, patriarcato e via delirando.

    Il cervello della protagonista recepisce il mondo in modo sostanzialmente innocente, scopre da sola la propria sessualità, poi scopre le relazioni, le imposizioni, i tabù, fino a scoperchiare il dolore del mondo (la sequenza annessa è dotata di un’intensità rara, quasi commovente). Poi inizia a leggere libri e romanzi, scopre il socialismo a Parigi e alcuni lavori “proibiti” per mantenersi, inizia a studiare medicina per poi costruirsi il proprio mondo poli-amoroso da manuale.

    L’idea di Godwin, del resto – un dio che ha vinto, letteralmente – era quella di dimostrare scientificamente che Bella è un autentico reset biologico, una donna creata al di fuori dell’evoluzione proprio perchè in grado di liberararsi completamente dall’influenza dei genitori. Anti-Edipo, insomma. Mamma e papà non erano al lavoro mentre studiavi e avevi il primo fidanzatino: semplicemente non c’erano, non ci sono mai stati, perchè sei nata ed hai aperto gli occhi su un tavolo operatorio, con un corpo di madre che solo incidentalmente si trovava lì.

    Ecco perchè Lanthimos (e Gray, di riflesso) uccidono la madre, metaforicamente, e costringendo lo spettatore a superare qualsiasi triangolazione edipica, a buttarsi nella mischia, a conoscere il mondo (che riserva ovunque anfratti di amore e libertà, nonostante le minacce e le brutture), in nome della bellezza dell’esperienza, dell’apertura verso il mondo, della (ri)scoperta e dei piaceri che ciò può provocare. Non è la rappresentazione del sesso in sè a essere tabù, in fondo: è l’idea di Bella a sconvolgerne il bieco conformismo, se si pensa che era stata lei, ingenuamente, a chiedersi perchè la gente non trascorresse interamente le proprie giornate a fare qualcosa di meraviglioso come il sesso.

    Il personaggio è incredibilmente potente, al punto da risultare spaventoso o destabilizzante per qualche spettatore, e diventa sempre più tale col progredire di una trama variabile e dai tratti a volte nostrani, altri esotici. Inizialmente il comportamento di una bambina dispettosa diventa un’adolescente in tempesta ormonale, poi viene promessa in sposa all’assistente del chirurgo (che se ne innamora) fino a diventare una donna e scoprire il mondo, le sue perversioni, le sue brutture, la sua bellezza, la sua speranza. Un viaggio tra Lisbona, Parigi, Alessandria, alla scoperta del proprio sè, a contatto con un mondo ben più cinico di quanto la sua innocente empatia suggeriva, probabilmente, fino a tornare nella Londra vittoriana in cui era inizialmente ambientato il film. Rinascere, anche qui, ancora una volta.

    È in discussione la narrazione più classica, del resto: se è vero si inizia con la tipica triangolazione di personaggi tra Io (il giovane medico che ascolta, come noi, la storia), SuperIo (il chirurgo creatore onnipotente) ed Es (Bella, in progressiva preda dei propri desideri, il film prende una piega inaspettata proprio perchè il personaggio femminile rifiuta deliberatamente di ridurre tutto a mamma e papà (per usare l’espressione antiedipica forse più usata da Deleuze e Guattari), ma soprattutto accetta, con coraggio e audacia, di affacciarsi nel mondo, di relazionarsi nel proprio singolare modo, a proprio rischio e pericolo. È una donna, ed è libera, accarezza idee socialiste e – naturalmente – è minacciata non solo dal patriarcato del mite spasimante ma anche da quello di molti uomini con cui avrà una relazione. E poi il sesso che la entusiasma candidamente non potrà essere accettato dal perbenismo imperante, per cui conoscerà il dolore della repressione; la sincerità che la contraddistingue non sempre sarà motivo di successo, anzi la renderà vittima di sopraffazione e bieco patriarcato; il suo viaggio nella sessualità a 360° la porterà ad aprirsi a nuovi mondi, a nuove sensazioni, fino a spalancare le porte ad una relazione poliamorosa che sembra, di fatto, chiudere uno dei migliori film mai girati da Lanthimos.

    Povere creature è un film complesso, senza dubbio, che va interpretato alla luce delle tematiche non banali che abbiamo elencato. Ma è anche un film che fa della chiarezza narrativa il suo più importante pregio, per quanto l’ambientazione fantascientifica dirompente lasci il pubblico privo di un vero e proprio punto di riferimento. Poco importa: perchè guardi Bella, guardi i personaggi attorno a lei, ti capaciti che il tuo mondo non era poi così diverso e pensi che, tutto sommato, potresti provare ad aprirti anche tu. Magari da lunedì prossimo, nel giorno da incubo per eccellenza, accettando di attraversare la nostra formazione, di accelerare il processo, di spingersi oltre a nostro consapevole rischio e pericolo. Per vivere come uomini – ma soprattutto come donne – sempre più autenticamente liberi e libere.

    La spiegazione di “Povere creature!”

    Spiegazione di Povere Creature!: un viaggio tra cinema, letteratura e filosofia

    Povere Creature!” (titolo originale Poor Things) è un’opera che affonda le sue radici nel romanzo gotico e nella satira sociale, diventando un fenomeno culturale capace di affascinare lettori e spettatori. Il romanzo di Alasdair Gray, pubblicato nel 1992, ha ispirato l’omonimo film diretto da Yorgos Lanthimos nel 2023, con Emma Stone nel ruolo della protagonista Bella Baxter. Quest’articolo esplora la trama, le tematiche principali e il significato simbolico dell’opera, mettendo in luce perché sia diventata un punto di riferimento nel panorama culturale.


    Trama

    Il romanzo e il film seguono la storia di Bella Baxter, una giovane donna riportata in vita da Godwin Baxter, un chirurgo geniale e controverso. Bella è il risultato di un esperimento radicale: il suo corpo appartiene a sua madre, deceduta, mentre il cervello proviene dal feto che portava in grembo. Questo “reset biologico” crea un personaggio unico, che esplora il mondo con un misto di innocenza infantile e curiosità adulta.

    Ambientata in una Glasgow vittoriana che richiama atmosfere steampunk, la narrazione mescola elementi gotici con riflessioni filosofiche, creando un’esperienza profondamente stratificata.


    Il titolo: “Poor Things” e il suo significato

    Una delle prime curiosità riguarda il titolo originale: Poor Things. La traduzione “Povere Creature!” è appropriata, ma il termine “poor things” porta con sé sfumature di compassione e empatia verso chi soffre. Non si tratta di una semplice espressione di pietà, ma di una riflessione sull’umanità e le sue contraddizioni.

    Il titolo anticipa la chiave di lettura dell’opera: non uno spettacolo di sfruttamento o violenza, ma una narrazione che invita a empatizzare con i personaggi, esplorando temi come la libertà, la sessualità, e l’identità.


    Tematiche principali

    1. Educazione e libertà
      Bella rappresenta un “foglio bianco” che si riempie lentamente attraverso le esperienze. Questo richiama le teorie di Rousseau in Emilio, dove l’educazione è fondamentale per lo sviluppo dell’individuo.
    2. Sessualità e autodeterminazione
      Un aspetto centrale del film è la scoperta della sessualità di Bella. Questa non è presentata come semplice tabù, ma come un mezzo di emancipazione personale e sociale. Le sue esperienze erotiche simboleggiano la libertà dai vincoli imposti dal patriarcato e dalla morale vittoriana.
    3. Scienza ed etica
      Godwin Baxter incarna il classico “mad doctor” che spinge la scienza oltre i limiti morali. Tuttavia, il focus non è sull’orrore delle sue azioni, ma sulle implicazioni filosofiche: cosa significa essere umani? Fino a dove può spingersi la scienza senza perdere di vista l’etica?

    Estetica e regia di Yorgos Lanthimos

    Lanthimos porta sullo schermo un mondo visivamente sorprendente, unendo atmosfere vittoriane a dettagli steampunk. I colori saturi e le scenografie oniriche contribuiscono a creare un’esperienza cinematografica unica. Emma Stone offre un’interpretazione magnetica, incarnando la dualità di Bella: innocenza e saggezza, fragilità e forza.


    Perché vedere Povere Creature!?

    Povere Creature! è più di un semplice film o romanzo: è una riflessione profonda sull’umanità, la libertà e il progresso. Che siate attratti dalla narrazione surreale, dalle tematiche filosofiche o dall’estetica unica, quest’opera offre spunti per riflettere e discutere. In definitiva il film ci invita probabilmente a esplorare cosa significa essere vivi, imparando a conoscere il mondo e noi stessi, un passo alla volta.

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  • Natale di sangue è l’horror definitivo su Santa Claus

    Natale di sangue è l’horror definitivo su Santa Claus

    Il giovanissimo Billy Chapman, dopo aver parlato con il nonno (o aver immaginato di averlo fatto), diventa ossessionato dal lato punitivo di Babbo Natale; poco dopo, rimane traumatizzato da un killer vestito da Santa Claus, che uccide entrambi i genitori davanti ai suoi occhi. Cresce così in un orfanotrofio…

    In breve. Un classico dell’horror natalizio, uno dei migliori mai realizzati; perfetto nella storia come nei ritmi, nella regia e nei tocchi di horror ed erotismo, mai gratuiti quanto davvero traumatizzanti. Da non perdere.

    Something terroristic about Christmas: è questa una delle lettere più risentite da parte di genitori indignati che, all’uscita del film nel 1984, contestarono nei cinema questo lavoro di Charles Sellier, regista e produttore cinematografico molto prolifico, qui alle prese con uno dei più celebri film della sua sterminata produzione. Piuttosto che impedire la diffusione del film, queste polemiche contribuirono ad elevarne il livello cult. C’è da chiarire che le polemiche potevano essere giustificate all’epoca, dal punto di vista del pubblico più perbenista o bigotto; ad oggi, probabilmente, parte di quella carica sovversiva finirà forse per lasciare indifferenti. Quelle polemiche non consideravano, in ogni caso, i veri punti di forza del film, quelli che lo hanno reso a mio parere uno dei migliori mai realizzati in questo sotto-genere.

    Di Davy1509 - screenshot catturato personalmente da un'edizione in DVD del film, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4329945
    Di Davy1509 – screenshot catturato personalmente da un’edizione in DVD del film, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4329945

    Natale di sangue è una favola nera moderna, che riesce a sconvolgere il pubblico quale horror di ottima fattura, nichilista e crudele nelle sue conclusioni, in grado di turbare anche il pubblico più disilluso. Il trauma infantile diventa, in questo, non solo la scintilla da cui parte la storia, ma anche il feeling con cui si chiude l’intreccio, lasciando un senso di sospensione perfetto (oltre che terreno fertile per un sequel). Con una sorta di ciclicità innata (che infatti giustificherà almeno un seguito), i bambini restano profondamente affascinati e, al tempo stesso, turbati dalla presenza di Santa Claus, che potrebbe essere l’assassino insospettabile della porta accanto, e colpire da un momento all’altro. Questo è il sentimento che il film finisce per trasmettere, per quanto ovviamente non si tratti di un prodotto adatto a dei bambini. Vediamo Billy crescere in un mondo complicato, tra un evento che segnerà la sua vita per sempre ed un’educazione severa. La sua vita potrebbe davvero cambiare in meglio se non fosse che, lavorando in un negozio di giocattori, un bel giorno gli viene richiesto di vestirsi proprio da Babbo Natale. Cosa che il protagonista fa senza conseguenze, ma che poi innesca una paurosa reazione a catena, in grado di evocare antichi orrori vissuti in passato.

    In questo, appare chiaro l’intento rivoluzionario della pellicola: un film sostanzialmente blasfemo nei confronti della figura del classico Babbo Natale, quanto ragionato e ben congegnato, convinto della tesi che nulla sia sacro nel Natale consumistico e buonista, e che – soprattutto – un’educazione punitiva e repressiva (come quella che subisce Billy) non possa che portare a risultati nefasti. In effetti, il protagonista non si compiace di violenza gratuita giusto per fare qualcosa nella vita: la sua trasformazione in killer seriale è maturata, anzitutto da un trauma profondo (un ladruncolo vestito da Babbo Natale gli ha ucciso i genitori), si consolida con le punizioni corporali (la severità dell’orfanotrofio in cui cresce), arriva allo zenith nel momento in cui la ragazza che sogna di portarsi a letto finisce tra le braccia di un collega. Proprio questo climax, questo accumulo di elementi negativi che pongono paradossalmente Billy soggiogato al killer (un killer qualsiasi ed insignificante, non un villain: questo è forse l’aspetto più inquietante) diventa il vero punto di forza del film.

    Natale di sangue è portatore sano di horror ottantiano puro: quello fatto da un mix di erotismo (mai inutile nè volgare, sostanzialmente gradevole) e di violenza (mai gratuita, e sempre ragionata: si veda la sequenza grottesca del “regalo” del taglierino insanguinato alla bambina “buona”). A questo si aggiunga la spettacolarità di alcune sequenze, destinate a rimanere nella storia per il loro tasso di trovate originali, e per la caratterizzazione del mutamento di Billy, sempre graduale e sostanzialmente realistica quanto spaventosa. Per percepire la teatralità macabra e completamente priva di sbavature di Silent Night, Deadly Night, del resto, basterebbe sentire la voce del killer in originale, che fa sobbalzare dalla sedia urlando “Punish!” prima di ogni delitto (ovviamente evocando l’educazione repressiva che ha subito). Chiaro che il film è influenzato da Halloween (per il tema del baby-killer) e Venerdì 13 (per quello del trauma infantile), ma possiede nel proprio DNA una originalità che lo fa spiccare, soprattutto rispetto ad una sovrabbondanza di epigoni natalizi a volte insulsi, e non sempre significativi.

    Natale di sangue è un film Horror con la “H” bene in vista, che potrà certamente piacere o meno – ma che sicuramente resta un ottimo lavoro, ben girato ed interpretato, la cui tesi di fondo è che non esiste nulla di sacro, e che bisognerebbe sempre dialogare coi bambini facendo in modo che la loro scala di valori non vada a corrompersi senza che se ne accorgano. In definitiva, uno dei migliori horror natalizi mai realizzati, con la giusta dose di tutte le componenti e perfettamente equilibrato nella resa visiva. Certo il pubblico più puritano in fatto di tradizioni natalizie farebbe bene a restarne alla larga, ma tutti i veri appassionati di horror possono accomodarsi, e gustarselo appieno. Non troppo reperibile in italiano sul mercato dei DVD, esiste una certa confusione tra una marea di titoli simili: questo film circola col titolo originale Silent Night, Deadly Night, ma non è Silent Night, Bloody Night (che è pure un buon horror natalizio, ma non è quello di cui parliamo); non si tratta neanche di Christmas Evil – Un Natale macchiato di sangue, bensì si può trovare su Amazon in lingua inglese (abbastanza comprensibile se masticate la lingua).

  • L’Uomo della Sabbia: Hoffmann Rivisitato da Giulio Questi

    L’Uomo della Sabbia: Hoffmann Rivisitato da Giulio Questi

    Metà dell’Ottocento: Nataniele (interpretato da Donato Placido) sta per sposare Clara (Francesca Muzio); il film ha inizio con una confessione che riguarda l’infanzia del protagonista, che avviene in presenza del fratello di lei Lotario (Saverio Vallone). Si parla del padre, di un incidente durante un esperimento e della sua passione insana per l’alchimia: il tuto in collaborazione con un inquietante scienzato, sedicente fisico, di nome Coppelius (Mario Feliciani).

    Sinossi del film

    Nataniele sembra cresciuto con l’idea, apparentemente assurda, che Coppelius fosse letteralmente Il Mago Sabbiolino, un personaggio mitologico le cui storie terrificanti lo fanno sentire minacciato fin da bambino. Di suo, Nataniele è l’eroe romantico dal cuore puro per eccellenza: vive nell’idealizzazione dell’amore e rifiuta il razionalismo che invece caratterizza il futuro cognato. Epica, quasi ai livelli della scazzottata interminabile di Essi vivono, il duello tra i due uomini in cui, nel bel mezzo del combattimento, espongono ferocemente i reciproci punti di vista in materia di scienza e filosofia (!).

    Del resto guardare non costa niente…

    Se l’effetto di queste prime sequenze potrebbe risultare un po’ goffo, tutto sommato, non va dimenticato che il film è fortemente contestualizzato nel periodo in cui è ambientato il racconto: racconto da cui è impossibile prescindere, in quanto relativamente fedele all’originale di Hoffmann e considerato, a ragione, uno dei capolavori della letteratura fantastica di ogni tempo.

    La regia di Questi (che tutti ricorderanno quantomeno per Se sei vivo spara) è ben strutturata e solida, oltre che – per contesto e mezzi in ballo, relativamente modesti per essere un film di inizio anni ottanta – abbastanza convincente, per quanto il lavoro sia pur sempre girato nel formato dello sceneggiato TV, al limite un po’ fuori dalle righe, e il lavoro sia stato quasi certamente ridoppiato in seguito.

    Non si spiega, se non così, una certa rigidità nei dialoghi, che costringono lo spettatore ad adeguarsi al ritmo che, per la verità, non parte esattamente con lo sprint che ci si potrebbe attendere. E dire che si tratta di uno dei racconti più emblematici di Hoffman, un proto-Frankenstein che ha scomodato l’analisi psicoanalitica della trama da parte di Sigmund Freud.

    Tra occultismo e psicoanalisi

    Nella narrativa de L’uomo della sabbia vi sono vari elementi di rilievo che si barcamenano tra l’occultismo e le tecniche psicoanalitiche, all’epoca neanche pienamente sviluppate: da un lato c’è l’ossessione del protagonista per una conoscenza che non sia solo rigidità, nozionismo e sperimentazione, ma che possa arrivare qualcosa in più anche a costo di ricorrere all’occultismo e all’alchimia. Questo punto di vista gli provoca incomprensione da parte della futura sposa e del fratello di lei, che guardano con sospetto le sue posizioni fino ad allontarlo da casa.

    Se l’alchimia, del resto, era pur sempre considerata scienza all’epoca, l’occultismo sarebbe quasi interpretabile come una proto-psicoanalisi: questo appare plausibile nella misura in cui la conoscenza di ciò che è nascosto potrebbe, in effetti, fare riferimento all’inconscio del protagonista, al suo scavare alla ricerca di un rimosso – tanto più che il racconto inizia con un ricordo d’infanzia, confuso e traumatizzante, che verrà via via ricostruito dalla memoria e dalla coscienza del protagonista.

    Occhi, amore, ossessione

    L’uomo di sabbia da’ una grande importanza allo sguardo ed alle conseguenze dello stesso: lo fa mediante gli occhi, l’organo adibito alla vista che, mediante un cannocchiale che Coppelius rifilerà a Nataniele, viene sfruttata per soddisfare una forma di parafilia o voyeurismo. Il protagonista intravede una figura algida e molto avvenente dalla finestra di fronte, e il cannocchiale gli serve per innamorarsene definitivamente. È qui che il film prende la sua svolta e costruisce un climax sempre più intenso, che è accompagnato dal sentimento di perturbanza di cui parlava Freud: un senso di straniamento, di disorientamento accompagnato dal desiderio di saperne di più, che avvinghia lo spettatore, il quale non capisce bene cosa non vada. Una sorta di “doppio” del protagonista, che nel frattempo è completamente invaghito della ragazza che scorgeva dalla finestra: è una cantante, apparentemente figlia di un fisico (Spalanzani, interpretato da Ferruccio de Ceresa), di nome Olimpia.

    La scena probabilmente più bella del film è quella del ballo: Nataniele, ormai innamorato di Olimpia, le propone di ballare. La donna accetta, ma i suoi movimenti sono meccanici, quasi innaturali, freddi e determinati da una rigidità di fondo. Al tempo stesso la coppia non perde un colpo nella danza, e Olimpia sfoggia una cultura incantevole – il che alimenta l’invaghimento del romantico protagonista. La regia propone l’alternanza dei commenti degli altri partecipanti alla festa (che malignano su Olimpia – per quanto, sostanzialmente, abbiano ragione a rilevare qualcosa di strano in lei: è un automa meccanico con parvenza di donna) e il dialogo idealizzato ed ipnotizzante dell’incontro in corso. Secondo Freud, si definisce (il) “perturbante” (uncanny in inglese) l’esperienza psicologica di provare qualcosa che abbia un carattere misterioso o spaventoso, con l’aggiunta di una sorta di familiarità nell’esperienza. In tedesco Freud usa il termine un-heimlich (raccapricciante, una sorta di archetipo dell’orrore) alternato con heimlich (segretamente, ma anche pacificamente, intimamente), due termini che riferiscono la stessa semantica in coppia, e che sono tipici di alcune perversioni sessuali, specie quelle legate a parafilie e sado-masochismo.

    Il tema dell’illusione amorosa è stato sviscerato dal cinema non solo di genere, e per quanto l’idea di un robot o automa non sia nuova è chiaro che è il modello narrativo ad essere fortemente debitore verso chiunque (viene in mente Blade Runner e la controversa storia con il replicante da parte di Deckard, ulteriormenete complicata dal dilemma esistenziale, mai risolto, che non sia anche lui un “lavoro in pelle”; ma andrebbe citato anche quel piccolo capolavoro che è ancora oggi L’invenzione di Morel). L’intuizione di Hoffmann, se servisse specificato, è stata quella di raffigurare La tragedia psicologica a tutti gli effetti: non solo perchè Nataniele si innamorerà perdutamente di un automa, incapace di ricambiare il sentimento sia fisicamente che interioremente, ma anche perchè la scoperta della sua natura proto-robotica sarà causa della sua follia.

    Follia da cui, inspiegabilmente, sembrerà guarire (sembra quasi di immaginare Freud offrirsi di psicoanalizzare e far guarire il ragazzo), tornando al suo vecchio amore, ma poi rievocando il trauma grazie allo strumento che glielo aveva provocato la prima volta, ovvero il cannocchiale (perturbante, evidentemente!). L’uomo di sabbia è probabilmente più efficace in forma scritta che in qualsiasi lavoro cinematografico, ma gli va comunque riconosciuto il suo carattere seminale, in grado di influenzare qualsiasi film con twist finale degno di questo nome, da Shutter Island a Dario Argento o Mario Bava, passando per il thriller psicologico anni novanta – e chi più ne ha, ne metta.

    L’uomo della sabbia di Giulio Questi è un adattamento del racconto The Sandman di E.T.A. Hoffmann, ed è stato l’episodio di apertura della serie TV, suddivisa in 6 parti, dal nome “I giochi del diavolo“, che presentava storie dell’orrore ambientate nel XIX secolo.

    La serie è stata trasmessa per la prima volta da Rai Uno nel 1981.

    Dove vedere il film

    È possibile vedere in streaming gratuito L’uomo della sabbia su RaiPlay.

    REGIA: Giulio Questi
    SOGGETTO: E.T.A. Hoffmann
    MUSICHE: Luis Bacalov
    Anno: 1981