DENTRO_ (101 articoli)

Film psicologici, thriller e opere che hanno valorizzato e approfondito gli studi di Lacan, Jung e molti altri.

  • L’ape regina: sono andato in bianco, e sono contento

    L’ape regina: sono andato in bianco, e sono contento

    Alfonso decide di sposare Regina, dopo una vita da quarantenne single. L’uomo è convinto di aver trovato la donna perfetta, dato che si mostra sincera e riservata, tanto da non concedersi a lui prima del matrimonio. Dopo essersi sposati, le cose cambiano…

    In breve. Un climax senza sconti sugli effetti del bigottismo sulla società, con un indimenticabile Ugo Tognazzi in un ruolo ineditamente drammatico. Da non perdere.

    L’ape regina, rinominato “Una storia moderna: l’ape regina” dopo l’intervento della censura dell’epoca (siamo nel 1963), è un film grottesco da collocarsi nella complessa poetica del regista Marco Ferreri, che va da La grande abbuffata fino al più criptico Dillinger è morto, con numerose ulteriori opere espressione di un linguaggio complesso, mosso su vari registri e quasi sempre socialmente / politicamente impegnato. Il punto di vista contenuto ne L’ape regina (film per cui Marina Vlady vinse come miglior interprete femminile, e Ugo Tognazzi ebbe un Nastro d’Argento come Migliore attore protagonista) è quantomeno insolito, perchè narra di una neo coppia apparentemente “media”, per cui si disvela un inquietante scenario. Uno scenario in cui l’unico modo per cui la donna possa avere la meglio è, di fatto, quello di “allearsi” al cattolicesimo imperante – il film venne rimaneggiato e censurato dopo la sua uscita, ovviamente.

    Lo sai perchè sono contento? Perchè sono andato in bianco!

    By [1], Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=36692171
    Subito dopo il matrimonio, infatti, vediamo sbucare fuori la reale natura di Regina: molto religiosa (devota a una santa barbuta), obbliga il consorte ad abitare vicino al Vaticano, si mostra compiacente rispetto all’invasività nella coppia dei parenti di lei, oltre che condizionante sul carattere di Alfonso (uomo che si rivela fragile, insofferente al bigottismo quanto facile da plagiare). Vediamo la quotidianità ed intimità della coppia, che sembra fatta in apparenza di passione e complicità – ma che sta logorando Alfonso, pressato dalla sessualità dirompente ed invasiva da parte della moglie (che, neanche a dirlo, vorrebbe rimanere incinta ad ogni costo).

    Del resto la religione, abilissima ad avere la pretesa di controllare l’istinto altrui, in questa circostanza si mostra ostile ad Alfonso e strumento nelle mani di Regina: ce ne accorgiamo dalla sequenza in cui l’uomo prova a confidarsi col prete che li ha sposati, il quale gli prescrive un ricostituente ormonico – tanto lo prendono tutti, perchè Sant’Alfonso (evidentemente, nomen omen) ha scritto in ginocchio […] sui rapporti coniugali […]: il coniuge non può e non deve sottrarsi al desiderio legittimo dell’altro coniuge. Il desiderio santo (così come viene definito) è accettabile sempre e comunque, purchè adagiato sui dettami della chiesa, anche se poi diventa ossessivo e svilente per il protagonista, al quale viene ripetuto più volte di fare un figlio alla svelta per “risolvere” il problema.

    Non lo fo per piacere mio, ma per far piacere a Dio!

    In nuce sembra di assistere alle medesime tematiche affrontare, in tempi recenti, da quel piccolo cult quale è The lobster, in cui la sessualità era gestita a comando ed andava finalizzata in modo pre-determinato: coppia o single, senza vie di mezzo e senza sfumature, a voler per fora accondiscendere una delle due distopìe. Ferreri intuisce la questione in modo atipico, se vogliamo, invertendo i ruoli tradizionali uomo-donna e mostrando un uomo succube della consorte. È anche chiaro che manda il messaggio forte e chiaro che la religione svilisca l’aspetto piacevole del sesso e ne esalti, puramente, quello procreativo; tanto peggio se lo fa sfruttando l’avvenenza di Regina, fino alla fine cinica e calcolatrice. Alla fine l’uomo diventerà un vuoto a rendere, privato di ogni individualità, padre destinato a cedere il passo ad una prole mai davvero voluta, prima del tempo.

  • Francesca: il thriller argentiano di  Luciano Onetti

    Francesca: il thriller argentiano di Luciano Onetti

    Un serial killer si aggira per la città prendendosi gioco della polizia, disseminando indizi relativi alla Divina Commedia di Dante Alighieri. Il tutto sembra ricollegarsi ad un caso irrisolto di quindici anni prima: la giovane figlia di un noto drammaturgo che scompare nel nulla.

    In breve. Un giallo anni 70 fuori tempo massimo (il film è del 2015), senza che ciò risulti stucchevole nè narcisistico. Archetipizzato su un modello di successo del passato (tra i film più noti c’è Profondo rosso), è tutt’altro che un mero esercizio di stile; al contrario, risulta accattivante per certe scelte fuori canone, sempre spiazzanti in positivo. Il retrò non disturba neanche il più accanito modernista: una vera e propria gemma del genere, per quanto destinata quasi esclusivamente a baviani o argentiani DOC. Da riscoprire.

    Scritto e diretto da Luciano Onetti e in collaborazione con Nicolas Onetti (nei titoli di testi gli Onetti abbondano, ed è facile perdere il conto), Francesca è un thriller appartenente alla corrente del revival anni 70, in particolare il giallo-thriller archetipizzato da Tenebre, senza dimenticare la tradizione del genere che risale, per dovere di cronaca, a quasi venti anni prima, e vede come primo antesignano Sei donne per l’assassino di Mario Bava.

    Di recente esperimenti analoghi sono stati realizzati, per intenderci, da film come Amer opppure (almeno in parte) The house of the devil: girati come si girava negli anni settanta, riproponendo visionarietà, personaggi, situazioni e stilemi tipici del genere – il più banale dei quali, presente in Francesca, è la onnipresente bottiglia di J&B, autentico sponsor non ufficiale dei film d’epoca.

    Sorprende – in certa misura – come un film del genere sia stato poco considerato dalla critica e dal pubblico: Davinotti gli assegna 2 stelle su 5, IMDB non arriva nemmeno alla sufficenza (poco meno di 6, al momento in cui scrivo), in tanti hanno un po’ snobbato la sua uscita (il film è disponibile su Prime Video, per la cronaca). Certo è che Francesca assume un ruolo tanto preciso da assurgere a genere a sè stante, tanto è significativo, coinvolgente ed impregnato di cinema di vecchia scuola, senza risultare troppo derivativo ed introducendo elementi di originalità non da poco. Onetti ha stile ma possiede anche quella personalità registica che gli consente, a ben vedere, di produrre un film del tutto autonomo, che sembra quasi un inedito del periodo riesumato per l’occasione. Il che non potrà che provocare il tripudio degli amanti di Dario Argento e Mario Bava, per quanto la perplessità lecita di questi revival afferisca al perchè sia stato fatto così e non, ad esempio, ambientato in tempi moderni (risposte brevi che mi viene in mente: perchè gli eccessi tecnologici di oggi risulterebbero banalizzanti nel risolvere certe situazioni, e perchè l’immaginario anni 70 resta inarrivabile).

    Sono trascorsi quindici anni dalla scomparsa di Francesca, figlia di un noto drammaturgo italiano: Vittorio Visconti, ridotto su una sedia a rotelle a causa dell’aggressione che ha portato al dramma familiare in questione. Nel frattempo, la moglie è caduta in depressione per la perdita dell’amata ragazza, e non sembra volersi più muovere dal letto. Un serial killer agisce per la città bersagliando varie vittime e mostrando un singolare filo conduttore negli omicidi: uccide quasi sempre con un punteruolo e poi, come firma del delitto (come tradizione pagana è solita raccontare) pone due monete sugli occhi della vittima. Ben presto la polizia scoprirà un legame con la storia misteriosa di cui sopra, svelando una verità sorprendente. Una verità conclusiva che possiede come autentica ispirazione – e si badi allo spoiler ineluttabile, per una volta – più di qualcosa della filosofia di fondo di film poco citati in questo ambito, e che a mio avviso restano primari: parlo di Vestito per uccidere e di Sleepaway Camp, anche per via della sessualità repressa di cui la killer è evidentemente imbevuto.

    Non che il film sia un esercizio di stile da scuola del cinema, peraltro: Francesca propone qualche variazione sul tema considerevole, ad esempio l’identità del killer – che sembra banale, ma in realtà non lo è; il doppio finale alla Dario Argento (anche questa volta c’è di mezzo l’amore verso i figli spinto all’estremo), l’omicidio a sorpresa dopo i titoli di coda, il che vìola la regola generale che il climax di questi film debba essere continuo, o che almeno il finale sia tranquillizzante o stabilizzante. Di fatto, anche quell’inserto post titoli di coda da alcuni criticato, è meno gratuito di quello che potrebbe sembrare, dato che predilige la continuità del Male su quella narrativa, un po’ sulla falsariga del primo Halloween di John Carpenter.

    Ed è proprio a certi vecchi, epici ed immarcescibili archetipi di thriller all’italiana e non solo (citiamo a campione, non potendo fare altrimenti: Profondo rosso, Tenebre, Shock, A Venezia un dicembre rosso shocking, Chi l’ha vista morire); modelli assimilati, visti, annotati e rielaborati dalla regia, a livello sia narrativo che di stile visuale. Ed il risultato, per il suo sotto-genere, rasenta il capolavoro. Non mancano nemmeno le musiche alla Goblin, composte  dal regista stesso in totale mood carpenteriano (regia e musiche affidati alla stessa persona). Non mancano poi i traumi infantili irrisolti, i personaggi dal passato non raccontabile, la presenza del personaggio poliziesco che viene un po’ per volta ridimensionato, sopraffatto dalla banalità del male e, anche qui, contravvenendo alla regola non scritta per cui, in questi film, anche se il bene non vince sempre, quantomeno alla fine spiega come sono andate le cose. In Francesca non esiste alcun finale falsamente consolatorio, e al contrario si rincorre un effetto di shock sullo spettatore che esibisce un feroce irrazionalismo.

    La regia di Onetti è infaticabilmente settantiana, quasi da sembrare ossessivo-compulsiva nel senso buono del termine, tanto è ricca di allusioni allucinatorie, primi piani su guanti, occhi, mani, pori della pelle, attizzatoi, magnetofoni e pianoforti: il regista cura la direzione della fotografia ed è pesantemente influenzato dall’estetica argentiana esaltata da Profondo rosso, primariamente. Il vero difetto di Francesca, a ben vedere, potrebbe forse essere ricondotto ad una eccessiva referenzialità, per quanto la presenza di elementi narrativi originali, fuori canone anche per l’epoca, eviti almeno in parte accuse di questo tipo. Per convincersene basterebbe  pensare al serial killer dall’identità sessualmente ambigua, che si vede quasi da subito chiaramente (e che poi non è chi sembra), che si ispira all’Inferno dantesco (il canto terzo, per la precisione: quello che narra delle porte dell’inferno), possiede un passato oscuro ed esprime una marcata sessualità repressa. Senza contare la maestria registica, al limite del talentuoso, con cui i suoi delitti sono mostrati, con qualche eccesso violento e insistito ma sempre con un sostanziale equilibrio. Oggetti di casa quali l’attizzatoio ed il ferro da stiro diventano feroci armi del delitto, in una spaventosa rilettura d’epoca dai colori psichedelici, tanto accesi da sembrare incandescenti.

    Mamma, ho voglia di giocare con te. Mamma, ho voglia di giocare con te. Mamma, ho voglia di giocare con te…

    In Francesca il flusso di coscienza guida una sceneggiatura dai tratti chiari e sempre distinguibili, che non si fa fatica a seguire e che raccontano di una killer, almeno in apparenza, dall’aria avvenente, di cui intravediamo anche le fantasie sessuali e che sembra essere l’incarnazione sadica di una ragazzina scomparsa: ragazzina che non esita, nella prima sequenza, a martoriare la carcassa di un uccellino, per poi trapassare – in una traumatizzante sequenza iniziale – l’occhio del fratellino ancora in fasce. L’occhio sarà anche, in successive sequenze del film, la parafilia primaria o ossessione prediletta del killer, e rappresenta molto più di quanto una visione superficiale possa suggerire.

    La killer in cappotto rosso, gonna nera e guanti in pelle sembra essere guidata da intenti moralistici, ed in questo potrebbe ricordare l’archetipo argentiano ben noto che poi, a ben vedere, quasi mai era ciò che l’apparenza poteva suggerire. In questo caso, per inciso, non si fa eccezione: il finale di Francesca sorprende quanto i migliori lavori argentiani, sia per come viene costruito e fuorvìa anche lo spettatore con più esperienza, sia per la violazione di una ulteriore convenzionale regola non scritta: l’ultimo omicidio e rivelazione avviene quando l’ispettore chiede spiegazioni, ed è la narrazione a rendere esplicito cosa sia realmente successo. Glii echi familiari perversi dovuti ad un’educazione repressiva sono più che evidenti, in un vero e proprio rehash della narrazione che ha reso Profondo rosso famoso in tutto il mondo, film da cui si ereditano le parafilie, le ossessioni e le immagini in primo piano: quella di un bambolotto prima impiccato a un albero e poi cullato dentro a una carrozzina, a testimoniare la natura sadica di una piccola killer fin dall’età adolescenziale.

    Come nota finale, il film è una produzione italo-argentina recitata in italiano, per cui non è stato proposto un doppiaggio: gli attori sono caratterizzati da una curiosa inflessione italo-argentina.

  • 39 immagini generate da una intelligenza artificiale su paranoia e inconscio

    39 immagini generate da una intelligenza artificiale su paranoia e inconscio

    Inconscio, paranoia, fobie e psicoanalisi. Cosa succede se si da’ in pasto come input ad un software di generazione immagini dei concetti spaventosi, intimisti o legati al mondo dell’horror? Abbiamo provato a generare delle immagini basate su frasi di Lacan e Freud, e su quanto di più intrigante e spaventoso possa esistere.

    L’intelligenza artificiale di starryai, progetto software gratuito nato quest’anno, sembra aver colto nel segno: di seguito i risultati più impressionanti che abbiamo ottenuto (credits: Starryai).

    Clicca su ogni immagine per vederla meglio.

    Come si generano le immagini mediante intelligenza artificiale?

    È possibile generare immagini (disegni, anche fotorealistici, con vari stili) grazie all’intelligenza artificiale e software come StarryAI.

  • 11 Video Creepypasta che potete vedere su Youtube

    11 Video Creepypasta che potete vedere su Youtube

    In alcuni casi, i creepypasta video presenti su Youtube sembrano più che altro sensazionalismo o informazione di bassa qualità, cosa che sorbiamo periodicamente anche dalle nostre parti, del resto, e che non è il caso di approfondire (alcuni esempio possono essere quelli del bambino ventriloquo, del fantasma in pieno giorno o di certi video di avvistamenti fantasmi o UFO). In altri casi, la creepypasta – una storia horror breve ma intensa, per definizione –  è perfettamente attinente, e siti come Reddit sono letteralmente zeppi di contenuti di questo tipo. Molti creepypasta celebri in passato, del resto, sono stati cancellati per sempre, e a meno di recuperarli per vie traverse o se qualcuno ne avesse una copia nei propri dischi sconnessi dalla rete, difficilmente potremo mai rivederli.

    Quasi tutte le creepypasta citate, per inciso, sembrano semplicemente video horror ultra-amatoriali realizzati più o meno bene, i migliori dei quali hanno ottenuto effetto virale.

    La posizione antibufala in merito, del resto, è quasi sempre assodata (quindi tutti i video non sono reali, senza eccezioni) per quanto possa sembrare a volte contraddittoria insoddisfacente: si assume che quasi tutte le creepypasta non siano reali, e si ispirino più che altro a leggende urbane raccontate in forma di video, un po’ come avvenuto per il revival degli horror POV e realistici modello [REC] diffusi nei cinema fino a qualche anno fa. C’è ad esempio, su questa falsariga, il cortometraggio Still Life, che rientra nel novero del genere per quanto non sia esattamente una creepypasta vera e propria (che in genere sono al più film amatoriali).

    Nulla rende meglio l’idea della diffusione ed il successo di queste video-storie se non il fatto che, per convenzione perturbante, vengono credute reali anche se sappiamo bene non esserlo.

    Avvistamento di un magnapinna

    Le profondità dei mari sono ancora poco studiate e il magnapinna rientra tra gli animali più misteriosi che vivono tra quelle oscurità.

    Bigfin Squid

    Video del Tuyul

    Sul modello di [REC] esiste un video che si chiama semplicemente Ghost, e che vanta molte visite e sul quale non sembrano disponibili molte informazioni in merito. La qualità è bassa, la questione è un po’ confusa e certi aspetti del video non sembrano troppo credibili, ma le visualizzazioni sono state più di 500.000 ad oggi. Se facciamo una lista di creepypasta video è impossibile non citare il Video di un tuyul, un demone della tradizione indonesiana, che nel video appare sul divano con effetto scary jump assicurato.

    Meow meow I am a cat

    Meow meow I am a cat

    Rientra a pieno titolo nel bizzarro sul web, se non proprio nelle creepypasta. Quasi due milioni di visualizzazioni ad oggi per il creatore di questa animazione.

    Il film è suddiviso in quattro parti, reperibili ad oggi su Youtube (anche solo la prima rende perfettamente l’idea).

    Max Headroom Pirating Incident

    Max Headroom Pirating Incident non è una creepypasta vera e propria, ma poco ci manca: la storia vera di una delle prime incursioni hacker nella storia della televisione americana, con quest’uomo mascherato che si intromette nel canale di comunicazione dell’emittente TV e si diverte a trasmettere se stesso per diversi secondi mentre balla e delira in diretta nazionale. Alla base dei fatti una banale disattenzione del tecnico incaricato della trasmissione, a quanto sembra. L’identità di Max Headroom è rimasta ignota fino ad oggi.

    The Wyoming Incident

    Versione “alternativa”, molto simile e meno nota del caso di Max Headroom, per quanto abbia una parvenza più costruita a tavolino si tratta di un altro caso di incursione TV non prevista. Secondo questo sito si tratterebbe dell’opera di un hacker riuscito a interrompere le trasmissioni da un canale di programmazione locale (che si ritiene servisse diverse comunità più piccole nella contea di Niobrara, negli USA) e ha mandato in onda il proprio video. Il video conteneva numerose clip con visi umani in varie pose. Nella narrazione da urban legend della storia, la visione del video provocherebbe vomito, mal di testa e addirittura allucinazioni, per via delle particolari tonalità di colore e frequenza di riproduzione utilizzata.

    The Wyoming Incident

    There Are Monsters

    Questo cortometraggio, fondato essenzialmente su un mood misterioso e sui primi piani ai suoi grotteschi personaggi, esprime forse al meglio lo spirito dei creepypasta, e li rende un film patinato e ben realizzato, tanto da finire nella selezione del London Film Festival nel 2008.

    There Are Monsters

    Maskie

    Si tratta di una storia postata il 4 luglio 2012 sulla versione di 4chan dell’epoca, e che mostra il video di una figura accovacciata e non visibie che sembra pregare. Sembrerebbe essere il video degli omicidi di un killer girati in prima persona, se si vuole credere alla sospensione di incredulità, e sul quale non sembrano disponibili molte altre informazioni ad oggi. Sicuramente tra le creepypasta più suggestive di sempre.

    You Will Never Find Me

    The Gable Film

    In questo caso si tratta di un cortometraggio, girato da Mike Agrusa, diventato virale sul web nell’anno 2007. Presenta l’apparizione di una strana ed ignota creatura, il Michigan Dogman, una sorta di quadrupede di colore bianco e dalla parvenza quasi umanoide. Figura appartenente al folklore americano, in The Gable Film si tratterebbe dell’unico video che ne mostra uno autentico.

    Il figlio di Aaron Gable sale in sella alla propria motoslitta per compiere le proprie consuete attività: bere birra,  spaccare la legna, andare in motoslitta. All’improvviso un cane non si accorge di qualcosa che non va, finchè non viene avvistata una creatura che cammina a quattro zampe nella foresta. Gable ferma il camion per cercare di riprenderlo, ma non è una buona idea: l’animale resta fermo da lontano, poi sembra attaccare il cameraman. La creatura si vede da vicino solo per un attimo, prima che l’operatore cada evidentemente a terra.

    The Gable Film

    Altro caso di creepypasta virale sul quale non si sa molto: un video dai tratti psichedelici che mostra varie immagini grottesche in alternanza, e che produce quella che potrebbe essere definita la pertubanza, ovvero quel mix di familiarità delle immagini e paura indotta dalle stesse tipica di qualsiasi horror ben realizzato.

    FACE

    Body of a pig

    Altro creepypasta molto suggestivo e spaventoso, con colpo di scena finale (in inglese con sottotitoli).

    Body of a Pig EVP

    (Foto di copertina generata via Starryai)

  • Flesh of the void: l’horror criptico di James Quinn

    Flesh of the void: l’horror criptico di James Quinn

    Girato interamente in Super 8 e 16mm, Flesh of the void è un horror sperimentale austriaco diretto dall’esordiente James Quinn, classe 1995 nonchè founder della Sodom & Chimera Productions, specializzata (secondo la bio ufficiale su IMDB) in film diretti quanto oscuri, con l’obiettivo di creare un forte impatto emotivo. In altri termini Quinn sembra ispirarsi alla tradizione della shoxploitation e dei finti snuff modello August Underground, abbastanza noti a chiunque conosca il cinema anni novanta e prima di questo film, probabilmente, relegati quasi nel dimenticatoio.

    Quinn dirige Flesh of the void seguendo i dettami dell’arthouse, impreziosendo la propria scelta artistica sfruttando l’ormai introvabile pellicola Kodachrome, ad esempio, e ufficializzando solo i nickname degli attori coinvolti. Espediente peraltro determinato più dal desiderio di misticheggiare e far parlare di sè che da un’effettiva necessità, dato che quasi tutti i personaggi sono diversamente mascherati (maschere antigas, bianche teatrali e, seguendo la tradizione di Leatherface e di Ed Gein, in pelle umana). Gran parte dell’opera è composta da oscure riprese paesaggistiche in cui si alternano, a seconda dei momenti, situazioni degenerate che hanno a che fare con la morte e con il sesso (a volte con entrambe, incluso un crocifisso usato da una donna per scopi ludici e un pene, visibilmente di gomma, inquadrato a lungo e in primo piano anche qui per atti onanistici).

    Chiamatelo arthouse, o se preferite con espressioni elitarie quanto ridicole tipo film artistico (come se i film mainstream non siano, in qualche caso, artistici) oppure, peggio ancora, film d’autore (come se gli altri registi non possano essere autori): sta di fatto che l’horror e lo sperimentalismo confermano ancora una volta un rapporto ambivalente, decisamente perverso, nel senso di proteso alla crudeltà ad ogni costo. Non solo: con in più la pretesa, ancora più radicale, di dire qualcosa. E non è per nulla facile farlo, vale la pena di scriverlo a chiare lettere.

    Non serve essere per forza David Lynch – e non bisogna necessariamente creare il nuovo Eraserhead, il rispetto è quasi sempre dovuto a chiunque provi a fare cinema anche con pochi mezzi – ma sarebbe anche ora di sgombrare il campo dalla mistificazione per cui l’horror sperimentale sia un genere da intellettuali (è troppo provocatorio per esserlo sul serio, anzi a ben vedere è spesso anti-intellettuale per sua natura, un po’ come avveniva col primo heavy metal, ovviamente prima che diventasse un vezzo da musicisti snob). Un rapporto decisamente infido, insomma, e questo anche – forse soprattutto – per chi scrive di questi film, perennemente in balìa di tendenze estremistiche che vanno da “è una stronzata” a “è un capolavoro“, senza vie di mezzo.

    Utilizzando una colonna sonora (decisamente intrigante) di natura dark ambient e con numerosi spunti industrial, Flesh of the void è un catalogo di efferatezze quasi sempre sessuali, più o meno allusive o esplicite, senza soluzione di continuità (il film non ha trama, o alla meglio la stessa è affidata ad un insondabile flusso di coscienza), intervallate da inquietanti monologhi fuori campo, che sembrerebbero provenire da un “orco” alla ricerca di bambini da cui rapire (oppure, se preferite, la voce distorta di una donna che ha appena smarrito il figlio). Una prima metafora che potrebbe essere interessante e riguardare la Morte, che ghermisce senza distinzione di età. Poco dopo, pero’, si va oltre e quasi ci si dimentica del topic mortifero, concentrandosi su sentimento anti-religioso, efferati killer e incomprensibili danze in un bosco da parte di una misteriosa figura femminile.

    Oscuri rituali esoterici o satanici, figure che indossano maschere rituali, carcasse di animali inquadrate meticolosamente, atti sessuali espliciti (anale, masturbazione, fellatio), loschi individui incappucciati coinvolti in rituali (?), imprecisabili micro-narrazioni che si consumano nel tempo di qualche minuto e di cui, con l’incedere della pellicola, è sempre più difficile trovare un senso. Ostinarsi a trovarne uno, in questi casi, è la cosa peggiore che si possa fare, per cui tanto vale farsi investire dalla suggestione e accettarla: senza contare che il pluricitato parallelismo con Begotten è accettabile, forse, in misura minore di quanto non dica l’intuito (il lavoro di Mehrige aveva un messaggio ambientalista sia pur criptico, Flesh of the void è un film comunque diverso, più introiettato nella testa di chi l’ha concepito).

    Senza contare che ci sono stati film più simili come Der todesking, il che è intrigante come parallelismo ma rischia di lasciare il tempo che trova: sono lavori figli di un’epoca diversa, tempi in cui fare film del genere era considerato tutt’altro che artistico, nel senso dell’arthouse che intendiamo oggi. Tempi in cui la povertà delle immagini era figlia di mezzi tecnici amatoriali, mentre qui – se da un lato sappiamo che il film è stato auto-prodotto senza finanziamenti – non è chiaro se si tratti di un manifesto programmatico (si pensi a August Underground, tanto per citarlo) oppure una mera provocazione punk.

    I tempi sono cambiati e non è più tempo, forse, di fare l’ennesimo Nekromantik: bisogna fare i conti con una sostanziale inversione di sensibilità, con il fatto che ci si scandalizza sempre meno per tutto, che il peccato è sempre più ordinary administration, che internet partorisce i mostri dello snuff (per inciso: mostrare una fellatio forzata in un clima mortifero è shockante, ma lo è molto meno a causa del dilagare di infinite, impensabili parafilie ricercabili con un click). Senza contare il fatto che – lo scriviamo senza ostilità artistica verso alcuno, s’intende – difficilmente si diventa “registi di culto” a comando, tantomeno infarcendo un film criptico di velleità artistiche originali quanto, alla prova dei fatti, poco comprensibili oggettivamente. Facendo finta di non vedere, tra l’altro, che anche le scene più esplicite viste in questo film ricordano più un videoclip uncensored che un vero e proprio lungometraggio, alla lunga, e questo non depone in favore di un giudizio positivo. Che poi, delle due l’una: o film del genere sono una inevitabile saga (concettuale, filosofica e/o narrativa) di vari cult inguardabili, osceni o incompiuti che siano – per cui sempre ne verranno fatti, e pace – oppure non ha mai avuto senso fare film del genere, con buona pace dei fan o di certa critica, alla fantozziana ricerca dell’immarcescibile bello che nessuno aveva notato.

    Flesh of the Void immagina, a detta della sinossi ufficiale, cosa sia davvero la morte casomai, in un certo senso, non si rivelasse il pacifico spegnersi di una vita: in tal caso sarebbe giusto quella carovana di orrore e incubi concentrici, incentrati su tutte le cose più sgradevoli che possano venirvi in mente, riassunte in circa un’ora buona di riprese. Un presupposto ad oggi, peraltro, parzialmente falsato dai tempi in cui viviamo, che vedono minacce di morte più condizionanti (dal terrorismo dei primi anni 2000 fino alla pandemia), per cui uno potrebbe anche domandarsi, lecitamente, di cosa si stia davvero parlando in lavori del genere, dato che manca il sottotesto per definizione. Vale anche la pena di ricordare che gran parte del focus narrativo dell’opera è incentrato su varie forme di parafilia, che vanno dall’esibizionismo all’autoerotismo voyeur e pedofilo (la critica al mondo della chiesa sembra sostanziale) fino al vero e proprio stupro, con particolare attenzione ai rapporti fetish omosessuali e all’onnipresenza del pene (e del dito mozzato) quale simbolo fallico degradato. Strano che la critica non si sia ancora inventata etichette come explicit porn horror, per quanto ovviamente le etichette siano anch’esse ridicole e riduttive in ogni caso.

    Un film comunque premiato in vari festival del genere, destinato agli estimatori del sottogenere e praticamente a nessun altro, dandosi la possibilità di guardarlo (cosa a cui non siamo perfettamente riusciti, per la verità) senza pensare di stare assistendo ad un gigantesco videoclip black metal.

    Flesh of the void è stato disponibile a noleggio e per l’acquisto su Vimeo, con altri tre corti sperimentali in omaggio: Free the crow (simbolico quanto difficilotto da capire), The beauty of which that is fucking ugly (evidentemente sarcastico: un monologo poco comprensibile, paesaggi industriali che culminano su un immancabile uomo incappucciato che si masturba) e Conjure, forse il migliore dei tre, dato che sembra voler omaggiare giusto Nekromantik. Ad oggi, il film non sembra purtroppo reperibile da alcun canale ufficiale (agg. al 13 luglio 2022)