FILM TIPO INCEPTION_ (9 articoli)

Quali sono i film simili a uno dei più noti lavori di fantascienza di Cristopher Nolan? Abbiamo fatto una selezione di film a tema, dopo averne visti un bel po’, che potrebbero piacertise apprezzi questo genere di film. Eccoti, pertanto, senza altro indugio alcuni film tipo Inception di Cristopher Nolan che potresti apprezzare.

  • Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Sam Lawry è un tecnocrate onesto e sognatore quanto timido ed impacciato, che opera per il complicatissimo settore burocratico di una distopica società occidentale: ossessionato da un sogno ricorrente nel quale raggiunge, alato, la donna dei suoi sogni, un giorno finisce per riconoscerla in una conoscente…

    In breve. Considerato un capolavoro del genere sci-fi distopica (secondo Harlan Hallison si tratta addirittura del migliore in assoluto) si tratta effettivamente di un lavoro di eccellente fattura, che riprende toni e tematiche di “1984” (G. Orwell) ed è ambientato in uno scenario surreale, ricco degli aspetti bizzarri che i fan dei Monty Python riconosceranno immediatamente. La tragedia di un essere umano schiacciato dalle assurdità burocratiche moderne, che si tramuta in una feroce satira contro un certo tipo di modernità.

    Brazil” di Terry Gilliam è un surrogato – che non esiterei a definire epico – di tipiche situazioni di fantascienza distopica, ricchissima di simbolismi (che il regista sembra visibilmente aver amato alla follia), e che dai simbolismi stessi non si fa appesantire, come in altri film sarebbe facilmente potuto succedere. Proponendo un gioco duale e funambolico tra la realtà (sgradevole, noiosa e monotona) ed il sogno più liberatore che possa esistere, rende difficile comprendere cosa sia vero e cosa invece costruzione mentale. E nel fare questo Gilliam sembra essere stato molto attento a non cedere ad intellettualismi troppo astratti, confermando la natura “pop” del genere ed allegandovi messaggi profondi e molto mirati. Si mostra la vita di un uomo qualsiasi, un vero e proprio “numero” nel quale diventa ovvio identificarsi: una persona ricca di sfaccettature, sensibile e profondamente sognatrice, che si scontra con un mondo sordo, menefreghista e schiavo di burocrazie inutili e sfiancanti. “Brazil” rappresenta la lotta di un uomo prima di tutto contro se stesso, ed a testimoniarlo ci invia un gioco di parole intraducibile in italiano (i samurai contro cui Sam combatte evocano la frase “Sam, you’re I“) che rende decisamente più comprensibile alcune delle allucinazioni del protagonista.

    L’amore, visto in chiave “settantiana” come liberazione totale della bellezza e della purezza smarrita dall’uomo, assume caratteristiche “sovversive”, che non possono essere tollerate da un mondo repressivo e dominato da giocattoli tecnologici e chirurghi plastici senza scrupoli (il richiamo al mondo ipocrita del successivo Society non è neanche troppo azzardato). Per quanto il film possieda una stragrande maggioranza di elementi positivi, dunque, si rileva probabilmente un unico vero difetto nell’eccessiva lunghezza della pellicola, che finisce – pressapoco prima dell’ultima mezz’ora – per stancare un po’ lo spettatore meno paziente, lasciandolo pero’ in bilico ed imponendogli, di fatto, di vedere il tutto fino alla fine per forza di cose.

    Le enormi capacità comunicative ed artistiche di Gilliam, realizzate da momenti realmente bizzarri che evocano le divagazioni dei Monty Python, si esplicano in situazioni apertamente umoristiche e, senza preavviso, tragicamente realistiche e paranoiche. Molte delle tematiche, e parte delle conclusioni, sono accumunate al classico di Orwell “1984“, a cui il regista sembra essersi ispirato servendosi pero’, c’è da specificare, di un numero superiore di mezzi espressivi rispetto alla mediocre riduzione cinematografica del famoso romanzo.

    Memorabile l’interpretazione di De Niro, che compare nei panni del “libero professionista sovversivo” Tuttle, uno dei pochi alleati autenticamente umani del protagonista e focalizzato su alcune “micro-sequenze” realmente memorabili. Certamente alcune allusioni finiranno, al giorno d’oggi, per risultare inefficaci (le ossessioni da teledipendenza, ad esempio, erano state ampiamente sviscerate da Cronenberg qualche anno prima), anche se trovo impressionante rilevare come alcune trovate, come quella della macchina che fornisce volti e informazioni personali su qualsiasi cittadino, finisca per evocare l’omologazione presente all’interno dei moderni social network.

    Un film di grande valore artistico e con vari dettagli sorprendenti per un film dell’epoca: da vedere almeno una volta nella vita.

  • Mr. Nobody: un viaggio tra universi paralleli

    Mr. Nobody: un viaggio tra universi paralleli

    2092: Mister Nobody è ufficialmente l’uomo più anziano al mondo. L’attenzione mediatica è talmente concentrata su di lui che decide di raccontare la propria vita ad un giornalista. Racconto che si rivela, pero’, contraddittorio in vari punti, come se il protagonista non sapesse o non volesse scegliere tra fantasie e realtà.

    In breve. Una fantascienza in pieno stile Nolan pregna di originalità ed elementi accattivanti. Una forma che tende pero’ a surclassare la sostanza, vagamente autoreferenziale, diluita e didascalica: troppo per urlare al vero e proprio capolavoro.

    Terzo lungometraggio di Jaco Van Dormael, regista belga avvezzo allo sperimentalismo ed influenzato apparentemente dai salti spazio-temporali di Nolan – come dalle trovate grottesche di Terry Gilliam, che scrive e dirige Mr. Nobody presentando un universo non lineare composto di possibilità di ogni tipo. L’intreccio racconta, a ritroso o mediante flashback disordinati, la storia della vita di Nemo Nobody, chiaramente nomen omen interpretato da Jared Leto, simbolo dell’uomo in generale e “signor nessun” per eccellenza. Il protagonista è al centro dell’attenzione all’interno di una società futuristica del 2092 , che viene solo accennata (e che non sembra diversa dagli scenari modello Blade Runner o The zero Theorem). La cosa essenziale, che rende il focus della narrazione profondamente umano e fonte di facile identificazione per il pubblico, è che sembrerebbe trattarsi dell’ultimo mortale rimasto sulla terra (mentre il resto della popolazione sembrerebbe composta da androidi semi-immortali).

    L’autobiografia di Nemo, tuttavia, è contraddittoria in vari punti, dato che contempla 3 matrimoni diversi, circa 4 modi diversi in cui sarebbe morto ed una serie di problemi da affrontare di ogni ordine e grado (tra cui un probabile disturbo bipolare di una delle consorti). La sliding door principale sembra comunque essere legata al divorzio dei genitori, che lo pongono fin da bambino in una situazione impossibile da dover scegliere: stare con il padre o con la madre, il tutto – forse in modo vagamente didascalico, in una stazione dal nome Choice. Ma l’autentica stranezza è rappresentata dal racconto di più storie in parallelo, dove in ognuna attraversa eventi differenti, si innamora di donne diverse, fa lavori differenti (dal fisico divulgatore al tecnico pulitore di piscine) e sembra, peraltro, “ricordare” o collegarsi alle possibili identità che lo avrebbero caratterizzato. Nemo sembra anche morire più volte durante la storia, per i motivi più vari: per uno scambio di identità, per annegamento, per via di un incidente stradale. In alcune versioni della propria vita Nemo è stato felice, innamorato e appagato lavorativamente, in altre era insoddisfatto e covava rabbia nei confronti della moglie.

    Se la storia tende ad indurre un discreto livello di confusione nello spettatore, è possibile quantomeno rimanere ancorati ad una narrazione centralizzata, che è sempre ricollegata ad un protagonista ultra-centenario che racconta, compone, ricombina le storie (e sembra anche divertirsi a farlo), mandando sempre più in crisi il povero giornalista che vorrebbe saperne di più. Sembra di avere a che fare con un mix di ricordi autentici e falsi ricordi del protagonista, tanto più che il tempo trascorso è parecchio, in alcuni frammenti familiarizza con personaggi che non riconoscere in successivi episodi e c’è di mezzo, peraltro, un significativo viaggio su Marte (per fare il quale Nemo si è dovuto ibernare per qualche mese).

    Mr. Nobody e i suoi pregi

    A livello registico ci sono un paio di cose da osservare: le riprese sono accattivanti, incuriosiscono e catturano lo spettatore – giocando su allusioni, richiami e non detti. È uno stile che cerca, forse un po’ troppo pedissequamente, di imitare quello di Nolan, cosa apprezzabile quanto in parte poco soddisfacente, dato che Van Dormael non sembra disporre della sistematicità e delle “regole” che caratterizzano quei film. Il livello di storie intrecciate è fin troppo fitto, considerando la morale del film che viene affidata ad una celebre citazione di Tennessee Williams, che funziona discretamente, in effetti, un po’ a prescindere da quello che si vede sullo schermo. Se questo depone a favore della grandiosità del messaggio, lascia la vaga sensazione che potesse andar bene anche la storia di Giannino il tecnico del gas, al posto di quella di Nemo fisico, fotografo o operaio addetto alla pulizia delle piscine. Cosa che rimane come considerazione ironica e mera apparenza, dopo aver visto il film, ma che lascia comunque la sensazione di aver visto due ore di film-impossibile zeppo di salti temporali in lungo, in largo ed in diagonale in cui sostanzialmente non puoi capire cosa sia reale e cosa, invece, non lo sia (ancora peggio: sono i personaggi stessi che si interrogano apertamente sull’essere reali o meno!). In ottica spirituale – testimoniata dall’antefatto degli angeli che segnano i bambini “dimenticandosi” di Nemo – sembra quasi che la realtà finisca per non avere alcuna importanza, dato che ogni storia, in fondo, merita di essere raccontata (per carità, nessuno dica una cosa del genere ad un qualsiasi aspirante scrittore).

    Non tutto, nel film, funziona davvero

    Non mancano alcune banalità altisonanti, per la cronaca (un paio di uova di colombo del tipo: Finché non scegli, tutto è possibile), ma alcuni intermezzi come quello in cui si spiega l’effetto farfalla sono davvero deliziosi. Sono notevoli anche le sequenze simil-lynchiane, come quello di Nemo bambino dentro un teatro, o ancora Nemo adulto che batte a macchina la propria storia intrecciandola con teorie sugli universi paralleli. C’è anche un riferimento al gioco degli scacchi, in cui si applica il concetto desueto di zugzwang, parola tedesca che indica la situazione in cui il giocatore è obbligato a fare una mossa – e qualsiasi mossa farà, dovrà necessariamente subire una perdita o subire uno scacco matto. In genere il film da’ una discreta impressione in positivo per quanto, alla fine, i dubbi restino e sia difficile emettere un giudizio su quello che si è visto, proprio per il gran numero di dettagli e per via del fatto che viene il dubbio, in fondo, se abbia davvero senso razionalizzare quelle storie.

    Il messaggio c’è ed è profondo, e suona anche svilente ridurlo ad una rielaborazione didascalica della massima del drammaturgo statunitense (per inciso: “Anything might have been anything else and had as much meaning to it“, che è anche il modo più scontato per trovare una spiegazione coerente di un finale abbastanza criptico, per la verità). Al tempo stesso è altrettanto complesso spiegare meglio ciò che si è visto: si può dire tutto ed il contrario di tutto, e non a caso su Mr Nobody imperversano vari spiegoni che lo rendono, di fatto, uno dei tanti film più discussi che visti.

    Il finale di Mr. Nobody

    Sul finale è stato scritto parecchio: l’apice della storia coincide con la fine della vita del protagonista, che dimostra (?) di avere doti di preveggenza ma anche un’eccellente memoria, la quale risulta evidentemente viziata da falsi ricordi su ciò che sarebbe stato e su un rimuginio incessante sul proprio passato. La “beffa”, se vogliamo, è che solo una delle linee temporali è quella corretta e nessuno ci dice quale sia, come se il film scaricasse sullo spettatore l’onere di sceglierla – fermo restando che sono considerate tutte egualmente degne di essere state vissute.

    La struttura narrativa

    Dormael dirige sulla falsariga di film come Inception, presentando i medesimi personaggi che vivono storie differenti e “parallele” tra loro, al tempo stesso sembrerebbero riuscire a comunicare accidentalmente tra un livello e l’altro. In questo senso la scelta di ambientare il tutto nella medesima città (come sembrerebbe) appare un po’ forzosa quanto, probabilmente, necessaria per motivi pratici. Nemo in effetti riconosce un altro se stesso da altre linee temporali in almeno un’occasione, anche se poi la spiegazione effettiva non viene data nemmeno qui – e si opta per un surrealismo che, alla lunga, sa più di esercizio di stile che altro.

    Per quanto la formalizzazione di quelle storie rimanga per molti versi piuttosto vaga, comunque, il film suscita una discreta curiosità fin dall’inizio, per poi altalenare tra momenti intensi ed altri francamente poco coinvolgenti, senza contare il diluirsi del lavoro in sotto-sottostorie non sempre significative o pregnanti. In definitiva, un discreto film da riscoprire ancora oggi, a patto di sottostare al più classico dei patti regista-spettatore e non avere la pretesa che ci venga spiegata qualsiasi cosa.

  • The divide: l’horror distopico che riflette sulla socialità e la solitudine

    The divide: l’horror distopico che riflette sulla socialità e la solitudine

    In un futuro prossimo New York è devastata dal nucleare, ed otto persone si ritrovano nel sotterraneo di un palazzo, allestito a mo’ di rifugio antiatomico. Poco dopo qualcuno inizia a forzare l’ingresso…

    In breve. Ottimo saggio di Gens di genere post-apocalittico (dopo il deludente, e vagamente pretenzioso, Frontiers), visto in un’ottica introspettiva – insolita, quanto apprezzabile – e soprattutto concreta e poco spettacolarizzata. Merita, senza dubbio, una visione: tra i migliori del genere degli ultimi anni.

    Con “The divide” Xavier Gens, dopo aver scomodato la critica a blaterare ripetutamente di new horror “alla francese”, vira quasi completamente genere, e si dedica al post-apocalittico: un genere spinoso, storicamente difficile da rappresentare sullo schermo, che raramente ha visto prodotti di reale qualità – se non per le notissime eccezioni (Carpenter in primis: Fuga da New York, e soprattutto Fuga da Los Angeles).

    Se è vero che di esempi del genere non mancano, neanche nei mai troppo osannati anni ottanta italiani (dove era soprattutto l’artigianalità a farla da padrone), resta un dato di fatto che gli sceneggiatori Karl Mueller e Eron Sheean abbiano prodotto un intreccio avvicente, perchè coglie nel segno, mostrando “quel tanto che basta” a fare un buon film. Niente inutile spettacolarizzazione delle trama, niente effetti speciali o eccessi di digital art (se non negli splendidi attimi conclusivi), ed un’idea fissa in mente: mescolare le dinamiche del cinema di genere claustrofobico (alla Wes Craven degli esordi, per capirci) con quelle post-apocalittiche (ed annessa sociologia pessimista), e tirare fuori un nuovo lavoro originale. Che risulta originale perchè, alla fine, “The divide” porta una ventata di aria fresca al genere, a dispetto delle varie esalazioni tossiche di cui è disseminata la trama.

    Non era agevole farlo, vista la sovra-abbondanza di emuli che, alla fine dei conti, puntano quasi sempre un nemico preciso (si veda Cloverfield, o il più recente The Gerber Syndrome), e quasi sempre – aggiungerei – inserendo qualche morto vivente e/o un novello Godzilla a guastare i piani dei protagonisti. La prevedibilità del post apocalittici è ben nota, ma “The divide” è diverso da quei film per una varietà di ragioni: la più importante è legata al fatto che è incentrato sui caratteri dei protagonisti, a formare un campionario di esseri umani tra cui sarà difficile non immedesimarsi. Un post-apocalittico di genere, introspettivo e profondamente umano (quanto feroce, a suo modo).

    Questo film è in fondo la storia di un viaggio estremo che rappresenta l’evoluzione dei caratteri, delle condizioni (fisiche e psicologiche) vissuto sulla pelle di otto tipi umani: personaggi che lottano per la sopravvivenza, con le consuete speranze malriposte e le immancabili conseguenze negative, degne degli esperimenti sociali visti in The experiment (Hirschbiegel, 2001).

    Gens resta un fan dell’horror e non risparmia sulla dose di terrore del film, inserendo innesti che sembrano ispirati a veri e propri snuff e, soprattutto, costruendo un crescendo che culmina in un finale memorabile, che colpisce e affonda per quanto, per forza di cose, potrà non piacere a tutti. La claustrofobia diventa la sintesi del vero orrore di “The divide“: essere costretti in una cantina angusta, razionando cibo e aria, mentre il mondo attorno finisce per andare letteralmente a rotoli.

    Certo, “The divide” non è privo di difetti: il ritmo del film non è uniforme, e spesso il voler indagare sui cambiamenti dei protagonisti (o della natura umana, se vogliamo metterla sul piano generale) in presenza di condizioni estreme rischia di sconfinare in quel cinema “da intellettuali” interessante, forse, ma a forte rischio di appensantire inutilmente la visione, anche per via degli eccessi presenti in più parti del film. Gens è stato comunque attento sia alla forma che alla sostanza, per cui il rischio di restare insoddisfatti dalla visione è limitato rispetto alla media.

  • Corti di fantascienza degni di nota: “Pathos” (2009, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Fabio Prati)

    Corti di fantascienza degni di nota: “Pathos” (2009, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Fabio Prati)

    In un futuro post apocalittico la Terra è un deserto inospitale e sommerso di spazzatura: gli uomini vivono in squallide stanze chiuse, nelle quali pagano mediante carta di credito anche per sognare…

    In breve. Corto “mordi e fuggi” all’italiana, che cita apertamente il tema distopico alla Verhoeven, si fa contaminare sia da “The cube” che da “Matrix”, ha certamente considerato la crudeltà di qualche post-apocalittico cult (pur senza svilupparla, di fatto) ed esce fuori in assoluta autonomia, senza poter essere tacciato di citazionismo o scopiazzatura.

    Mentre viviamo, il Grande Fratello ci osserva, e ci suggerisce come vivere, come pensare e cosa sognare: i cinque sensi non sono più gratuiti, nel futuro esiste un vero e proprio abbonamento da rinnovare. Chi ritarda per qualsiasi motivo l’abbonamento periodico, si ritroverà a perderne l’uso. Film forse troppo breve (a volergli trovare un difetto) e sostanzialmente privo di un vero e proprio intreccio (ma questo, in fondo, non è un problema): forse avrebbe potuto essere maggiormente arricchito da dettagli di vario tipo, caratterizzazioni dei personaggi, interazioni.

    Probabilmente il tutto, confinato tra inquietanti schermi televisivi alla Videodrome e squallide stanze semi-vuote, finisce per accentuare il senso di isolamento degli individui e, in tal senso, è una mossa molto azzeccata. Inquadrature e fotografia cyberpunk da brivido: un ottimo prodotto, in definitiva, per chi ama l’essenzialità e la fantascienza classico-complottistica.

    L’interpretazione di Fabio Prati, vittima della macchina “pathos”, è davvero convincente ed intensa, e merita certamente una citazione finale.

  • Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    Blade Runner: la fantascienza filosofica di Ridley Scott

    All’interno di una Los Angeles distopica nell’anno 2019, la tecnologia ha consentito di creare i “replicanti”, androidi o robot fortemente umanizzati, utilizzati per servire gli esseri umani e esteticamente non distinguibili da questi ultimi. Sei di essi, particolarmente evoluti e dotati di possente forza fisica, sono fuggiti dalle colonie extramondo e cercano di introdursi nella Tyrell Corporation, la fabbrica che li produce. Il poliziotto Deckard è sulle loro tracce.

    In breve. Suggestivo, sempre straordinario da rivedere e ricco di spunti, suggestioni onirico-futuristiche ed affascinanti ambiguità, mai veramente sciolte e oggetto di infinite fan theory. Chi sono gli umani, chi gli androidi? Quale valore assumono i ricordi nella vita dell’uomo? Forse, senza timore di esagerare, uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi assieme a Brazil.

    Scrivere oggi di “Blade Runner“, indimenticabile capolavoro (che potremmo definire proto-cyberpunk) girato da Ridley Scott, rischia di ricadere inevitabilmente nella sterile ripetizione di concetti, idee e visioni futuristiche che hanno formato buona parte del cinema di fantascienza “colta”.

    L’analisi, che non può – in casi del genere – essere approssimativa in alcun modo, dovrebbe comunque basarsi su una duplice considerazione. Se da un lato infatti questo film ha stilato dei veri e propri canoni stilistici all’interno del cinema di fantascienza, dall’altro – senza nulla togliere a regia ed interpretazioni – è in effetti la storia di Philip Dick da cui è tratta ad avere gran parte della responsabilità del successo della pellicola. “Do Androids Dream of Electric Sheep?” (1968) poneva, in anticipo sui tempi, una tematica estremamente intrigante: se è umano amare, proteggere e relazionarsi con altri simili, cosa implica uccidere un androide che, in preda ad una “presa di coscienza” progressiva, si senta “vivo”?

    Bisogna rispondere a questa domanda formulandone molte altre, e questo potrebbe non piacere a chi concepisce la fantascienza in modo più orientato verso l’azione pura che altro. Il film possiede dunque la capacità di far immedesimare grandi fette di pubblico, e questo sia nella coscienza per così dire “organica” di alcuni protagonisti che in quella “artificiale” dei replicanti, rendono impossibile la chiarificazione definitiva dei ruoli di ognuno – è quasi certo che Deckard sia un replicante (forse…), e rimane vivido il fascino di lasciare questo interrogativo “appeso” fino all’estremo.

    Se si guarda Blade runner oggi, peraltro, va fatta una certa attenzione a procurarsi la director’s cut: la versione voluta dal regista con il finale ambiguo, mille volte più poetico e intrigante di quanto non sia la versione imposta dalla produzione, che forza fantozzianamente un happy end che, visto oggi, convince meno della metà del pubblico a cui era teoricamente rivolto. Il punto merita una breve digressione tanto per capirne il grottesco: dopo averci raccontato per quasi due ore che gli androidi vivono solo per pochi anni, tanto che sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa pur di diventare immortali (vedi la caccia al loro creatore, che vanno a stanare direttamente a casa per farsi rivelare il segreto della vita eterna), quel finale scellerato (che è lo stesso che potete vedere nella versione Amazon Video, per inciso) afferma, mediante un improbabile solipsismo di Deckard, che Rachael in realtà non era programmata per morire dopo quattro anni e che dovremmo goderci la vita, demolendo la simbologia fondamentale degli origami (l’unicorno e via dicendo) e di conseguenza, a nostro modesto avviso, uno dei capolavori del genere, rendendolo incoerente prima che melenso.

    Una scelta che risulta ancora peggio oggi, e per cui uno dovrebbe scusarsi con il cast a cominciare dal compianto Rutger Oelsen Hauer, scomparso giusto nel 2019 (per una macabra coincidenza, verrebbe da scrivere, tra la scomparsa del suo personaggio e dell’attore) e qui artefice di una delle sue interpretazioni più iconiche di ogni tempo. Il suo personaggio è un androide diventato dolorosamente consapevole di sè, in un processo psicologico di rinnovamento e ricerca del senso della vita che mai gli ingegneri genetici avrebbero potuto prevedere. E anche oggi, per restare sul pezzo, l’eco di Blade Runner risuona sinistramente nelle nostre coscienze, mentre rabbrividiamo nello scoprire che certe profezie del film si sono quasi avverate (i robot umanoidi sono una realtà, e riusciamo a creare video deepfake talmente realistici da ingannare anche i più esperti).

    In fondo il tratto distintivo di questo cult – uno dei film che possiede ben 7 cut differenti, tra Director’s, International e Final – è rappresentato essenzialmente dalla profondità dei topic che tira in ballo: questo è visibile non soltanto all’interno di ambientazioni metropolitane gigantesche e tutt’altro che a misura d’uomo, ma anche per via delle tematiche esistenzialiste che sono inserite nell’intreccio. È interessante la chiave visiva scelta da Ridley Scott, pure, che affianca al futurismo classico delle automobili che possono volare – il film è del 1982, ed è ambientato nel 2019 – il degrado dei bassifondi delle città, in cui troverai un ambiente fumoso, personaggi ambivalenti e poliziotti intenti a mangiare sushi. Una scelta che, anch’essa, è diventata profondamente iconica.

    https://www.youtube.com/watch?v=Wo3HpcRJxUg

    I replicanti, del resto – umanoidi che assumono le precise fattezze di esseri umani – non soltanto possono pensare, agire e vivere per quattro anni, ma si trasformano in autentici “oggetti” sia multimediali che biologici. È questa loro duplice natura che li rende i veri elementi tragici della storia, e ciò è visibile soprattutto nel momento in cui iniziano a porsi delle domande, a crescere mentalmente, ad interrogarsi sul presente. Oggetti, dunque, che sono consapevoli di esserlo e che sviluppano autonomamente sofferenza, disgusto e – di rabbioso controbalzo – desiderio di diventare immortali. Cosa ci sarà dato fare nell’arco della nostra breve vita? Ha davvero importanza se i ricordi ci sono stati impiantati artificialmente oppure sono frammenti di vita vissuta?

    La complessa simbologia scomodata da “Blade Runner“, di cui i celebri origami di Gaff sono soltanto la punta dell’iceberg, pone domande per il nuovo millennio che meriterebbero risposte fin troppo articolate. Risposte che si possono provare a cercare vedendolo ancora una volta, senza esitazioni.

    Per finire, un tutorial per emulare Gaff, e fare un origami a forma di unicorno.