POLITICA_ (39 articoli)

  • Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Sam Lawry è un tecnocrate onesto e sognatore quanto timido ed impacciato, che opera per il complicatissimo settore burocratico di una distopica società occidentale: ossessionato da un sogno ricorrente nel quale raggiunge, alato, la donna dei suoi sogni, un giorno finisce per riconoscerla in una conoscente…

    In breve. Considerato un capolavoro del genere sci-fi distopica (secondo Harlan Hallison si tratta addirittura del migliore in assoluto) si tratta effettivamente di un lavoro di eccellente fattura, che riprende toni e tematiche di “1984” (G. Orwell) ed è ambientato in uno scenario surreale, ricco degli aspetti bizzarri che i fan dei Monty Python riconosceranno immediatamente. La tragedia di un essere umano schiacciato dalle assurdità burocratiche moderne, che si tramuta in una feroce satira contro un certo tipo di modernità.

    Brazil” di Terry Gilliam è un surrogato – che non esiterei a definire epico – di tipiche situazioni di fantascienza distopica, ricchissima di simbolismi (che il regista sembra visibilmente aver amato alla follia), e che dai simbolismi stessi non si fa appesantire, come in altri film sarebbe facilmente potuto succedere. Proponendo un gioco duale e funambolico tra la realtà (sgradevole, noiosa e monotona) ed il sogno più liberatore che possa esistere, rende difficile comprendere cosa sia vero e cosa invece costruzione mentale. E nel fare questo Gilliam sembra essere stato molto attento a non cedere ad intellettualismi troppo astratti, confermando la natura “pop” del genere ed allegandovi messaggi profondi e molto mirati. Si mostra la vita di un uomo qualsiasi, un vero e proprio “numero” nel quale diventa ovvio identificarsi: una persona ricca di sfaccettature, sensibile e profondamente sognatrice, che si scontra con un mondo sordo, menefreghista e schiavo di burocrazie inutili e sfiancanti. “Brazil” rappresenta la lotta di un uomo prima di tutto contro se stesso, ed a testimoniarlo ci invia un gioco di parole intraducibile in italiano (i samurai contro cui Sam combatte evocano la frase “Sam, you’re I“) che rende decisamente più comprensibile alcune delle allucinazioni del protagonista.

    L’amore, visto in chiave “settantiana” come liberazione totale della bellezza e della purezza smarrita dall’uomo, assume caratteristiche “sovversive”, che non possono essere tollerate da un mondo repressivo e dominato da giocattoli tecnologici e chirurghi plastici senza scrupoli (il richiamo al mondo ipocrita del successivo Society non è neanche troppo azzardato). Per quanto il film possieda una stragrande maggioranza di elementi positivi, dunque, si rileva probabilmente un unico vero difetto nell’eccessiva lunghezza della pellicola, che finisce – pressapoco prima dell’ultima mezz’ora – per stancare un po’ lo spettatore meno paziente, lasciandolo pero’ in bilico ed imponendogli, di fatto, di vedere il tutto fino alla fine per forza di cose.

    Le enormi capacità comunicative ed artistiche di Gilliam, realizzate da momenti realmente bizzarri che evocano le divagazioni dei Monty Python, si esplicano in situazioni apertamente umoristiche e, senza preavviso, tragicamente realistiche e paranoiche. Molte delle tematiche, e parte delle conclusioni, sono accumunate al classico di Orwell “1984“, a cui il regista sembra essersi ispirato servendosi pero’, c’è da specificare, di un numero superiore di mezzi espressivi rispetto alla mediocre riduzione cinematografica del famoso romanzo.

    Memorabile l’interpretazione di De Niro, che compare nei panni del “libero professionista sovversivo” Tuttle, uno dei pochi alleati autenticamente umani del protagonista e focalizzato su alcune “micro-sequenze” realmente memorabili. Certamente alcune allusioni finiranno, al giorno d’oggi, per risultare inefficaci (le ossessioni da teledipendenza, ad esempio, erano state ampiamente sviscerate da Cronenberg qualche anno prima), anche se trovo impressionante rilevare come alcune trovate, come quella della macchina che fornisce volti e informazioni personali su qualsiasi cittadino, finisca per evocare l’omologazione presente all’interno dei moderni social network.

    Un film di grande valore artistico e con vari dettagli sorprendenti per un film dell’epoca: da vedere almeno una volta nella vita.

  • La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    La classe operaia va in paradiso: Elio Petri nelle fabbriche milanesi anni 70

    Secondo il regista Jean-Marie Straub, La classe operaia va in paradiso fu la “pellicola infame”, da mandare al rogo senza mezzi termini. Sui “Quaderni piacentini”, il film venne accusato di un imprecisabile revisionismo da Goffredo Fofi. Ad oggi, molta gente si interroga ancora su quel che rimane della classe operaia, sul suo significato, assimilandola spesso e volentieri al lavoro degli sfruttati di ogni ordine e grado – o peggio, declassando la questione come vetusta, utopistica o superata.

    Il film di Petri, come spesso accadde nella sua filmografia, provocò divisioni politico-sociali laceranti, facendo perno su un registro neorelista: i personaggi sono tipi comuni, che potremmo aver conosciuto nella nostra vita, e che si battono – disillusi – per un obiettivo più che per un ideale. Al centro del film c’è la figura di un operaio vittima di un incidente sul lavoro, interpretato da Gian Maria Volontè, che si ammazza di lavoro a cottimo “per queste quattro lire vigliacche“, come dirà lui stesso in seguito.

    L’individuo è uguale ad una fabbrica… de merda!

    Lulù Massa è, in altri termini, un operaio conformista e sostenitore del lavoro a cottimo (formula che prevede di essere pagati non in base al tempo, bensì alla produttività), il che gli permette di tenere uno stile di vita al di sopra delle proprie aspettative. Nel frattempo, i gruppi extra-parlamentari, all’ingresso della fabbrica in cui lavora, contestano le modalità di lavoro in fabbrica, evidenziando contraddizioni di forma e di modi con i sindacati.

    Come spesso avviene nei film di Petri, l’ambientazione è radicata in una città ed un dialetto specifico, che qui è Milano (anche se la fabbrica si trovava a Novara, in realtà) mentre in La proprietà non è più un furto era Roma. La fabbrica è rappresentata come un ambiente alienante e prevaricante, con alcune inquietanti figure di cronometristi addetti a misurare i tempi di lavorazione dei singoli operai, e mettere pressione a quelli che non si adeguano. Inutile sottolineare che Lulù viene preso come modello esemplare di produttività dalla dirigenza, attirandosi l’odio di tutti gli altri colleghi.

    Diretto da Elio Petri e scritto dallo stesso assieme ad Ugo Pirro, La classe operaia va in paradiso è il dramma di un uomo solo, spinto a lavorare a ritmi infernali per via della situazione difficile che vive in casa, con una donna divorziata ed il figlio che si trova, suo malgrado, costretto a mantenere. Un uomo che cadenza la propria vita sul lavoro senza badare a null’altro, perdendo interesse anche per il sesso per via dei ritmi produttivi della fabbrica che lo sfiniscono. Non è un caso, a tale riguardo, che l’unico all’appello all’”amore” per gli operai sia quello che ne accompagna l’ingresso in fabbrica: trattate la vostra macchina con amore.

    Fino a che un giorno, maneggiando i soliti macchinari, si taglia un dito: la circostanza viene presa come caso limite per indire finalmente uno sciopero. E prendere finalmente consapevolezza del proprio precariato, ma il film non si limita a cullarsi nell’assunto bensì, realisticamente, lo porta alle ulteriori conseguenze.

    Si affianca a Lulù la figura premonitrice di Militina (“io sono diventato matto in fabbrica“), un ex compagno di lavoro attualmente rinchiuso in manicomio, che evoca da vicino il compagno dell’anarchico Bonifacio, che ha seguito la stessa sorte in Chi lavora è perduto. Militina dice la verità, sia pur in pochi momenti di lucidità, sulla condizione alienante degli operai e sull’avidità dei padroni: ed è il punto di partenza del cambiamento di Lulù. Che improvvisamente, da stakanovista puro, diventa un operaio ribelle; e nel farlo risulterà paradossalmente inviso sia ai colleghi (che fondamentalmente non gli danno troppo credito) che gruppi extraparlamentari (che considerano il suo incidente sul lavoro solo opportunisticamente) che ai padroni, che usano il suo licenziamento come “arma” per intimidire tutti gli altri.

    Dopo aver passato in rassegna vari simboli del consumismo (tra cui un libretto di azioni, vari utensili da cucina ed un zio Paperone gonfiabile), Lulù si chiude in casa, finchè non vanno direttamente i sindacalisti a trovarlo: sono riusciti a farlo riassumere. Per quanto si senta tirato indebitamente in ballo e sfruttato ad ogni livello, accetta di tornare al suo vecchio impiego. Nella scena finale, durante il lavoro in catena di montaggio racconta un sogno, in cui ha visto il Militina sfondare un muro a testate, il che assume valenza evidentemente simbolica. Ma gran parte del discorso, tuttavia, viene travisato o mal percepito dai compagni di lavoro, perchè i macchinari producono troppo rumore e la maggioranza delle sue parole non è nemmeno udibile agli altri.

    Lulù è un personaggio fuori da ogni schema: se all’inizio nega la propria condizione precaria, in seguito presenta un risveglio di coscienza, che si rivela tragicamente quasi del tutto inutile. Il problema sollevato dal film, a questo punto, non è tanto sulla falsariga di chi non partecipa alla lotta, semmai risiede nell’indifferenza dei padroni e, per estensione, delle istituzioni. E c’è naturalmente il suo personaggio, sballottato tra un iniziale conformismo (suo e della compagna) nell’imitare i modelli consumistici che li stanno distruggendo, a finire con una rivolta confusa, rabbiosa quanto sostanzialmente strumentalizzata da tutti gli altri. Valeva per la condizione operaia dell’epoca, ma potrebbe valere – per estensione – in molti altri ambiti lavorativi di oggi: il problema, forse, è anche la presenza di numerosi epigoni del primo Lulù, per i quali non esiste alcun problema e si deve solo lavurà. Oggi, magari, li avremmo chiamati con un termine molto di moda come “negazionisti“.

    E adesso, adesso cosa sono diventato? Lo studente dice che siamo come le macchine. Ecco, io sono come una puleggia, come un bullone. Ecco, io sono una vite. Io sono una cinta di trasmissione, io sono una pompa! E non c’ho più la forza di aggiustarla, la pompa, adesso! Io propongo subito di lasciare il lavoro. Tutti! E che non lascia il lavoro è un crumiro e un faccia de merda!

  • La città delle donne: una satira felliniana contro il femminismo acritico

    La città delle donne: una satira felliniana contro il femminismo acritico

    Durante un viaggio in treno, un uomo decide di seguire la sua compagna di viaggio, dal quale è rimasto stregato: finirà in un hotel dove ha luogo un convegno di femministe, e sarà solo l’inizio di un percorso surreale nel suo vissuto.

    In breve. Spettacolare visivamente quanto frammentato; per certi versi, del tutto disorientante. Probabilmente si guarda meglio senza porsi troppi interrogativi, per quanto sia lontano dall’essere “il” film perfetto.

    Scritto e sceneggiato da Fellini e Zapponi, La città delle donne rientra sostanzialmente nel genere surrealista: a poco servirebbe, in questo ambito, una ricostruzione dettagliata del suo intreccio, fedele esclusivamente al flusso di coscienza registico. A poco servono, allo stesso modo, le interpretazioni basate sulla psicoanalisi (vedere nel treno e nella galleria un simbolismo legato al coito è scontato quanto, probabilmente, riduttivo), e questo perchè basta vedere il film per lasciarsi addosso una sensazione spiazzante.

    In primo piano c’è il dramma di un bon vivant che, suo malgrado, vive il sogno erotico di andare in una città di sole donne, ma senza sfiorarne nemmeno una. Snaporaz viene ammaliato dalla donna in treno che lo trascina in un hotel, nel quale è in corso un congresso di femministe militanti: neanche a dirlo, viene guardato con sospetto, scambiato per un giornalista e poi deriso dalla donna che lo aveva attratto, la quale mostra pubblicamente le foto che gli aveva fatto di nascosto (non sarebbe difficile immaginare una situazione del genere oggi, del resto, nell’era dei social, del bullismo virtuale e del body shaming).

    Al tempo stesso, ne “La città delle donne” emerge una visione sul mondo femminile a tutto tondo, ovviamente dal punto di vista di un maschio etero (come specificherebbero in alcuni ambienti oggi, con il rischio concretissimo che il film li faccia ancora una volta inorridire). C’è la ragazza senza scrupoli, che usa la propria avvenenza per dettare le regole – facendo fantozzianamente soccombere uno Snaporaz che si credeva audace – c’è la giovane più semplicemente soubrette o superficiale, c’è quella apparentemente dolce quanto inacidita, ci sono varie gradazioni di femministe (da quelle più hippie a quelle, per così dire, che si limitano a strizzare l’occhio all’idea senza capirla troppo). Peraltro la rassegna di tipi, puramente grottesca o addirittura satirica, considera anche anziane miti e premurose, ragazze che fanno uso di droghe, popolane rustiche e affamate di sesso – e poi, naturalmente, una delle fantasie erotiche più comuni nell’uomo: le donne poliziotto.

    Nella casa del playboy Xavier Katzone (nomen omen, probabilmente) si svolge la seconda parte del film: qui appaiono una serie di complessi simbolismi. Una festa orgiastica completamente surreale, ma soprattutto Snaporaz che scopre la singolare collezione di orgasmi registrati: sono quelli delle sue innumerevoli amanti, che il padrone di casa ama riascoltare premendo dei pulsanti. Tali pulsanti sono disposti lungo una doppia parete ricoperta di marmo, la quale evoca, pure abbastanza chiaramente, i loculi di un cimitero: al netto di ciò, verrebbe quasi da pensare al decadente nichilismo de L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, con il protagonista che riascolta ossessivamente i propri ricordi.

    Certo è che La città delle donne, con la sua interminabile contrapposizione tra vari tipi di donne (e al netto di qualche lungaggine che potrebbe renderlo, alla lunga, vagamento indigesto), finisce per rimanere impresso per le esagerazioni erotiche (a tratti quasi le stesse del Tinto Brass più politico, per quanto meno esplicite). Ma quello che conta davvero è l’attitudine satirica portata al parossismo, con il povero protagonista in bilico tra un istinto da latin lover (la cui riuscita, peraltro, resta tutta da verificare) ed un’attitudine malcelata alla ricerca sincera di una donna che, finalmente, possa andare d’accordo con lui.

    La reazione della stampa e delle femministe dell’epoca non tardò ad arrivare: il regista volle coinvolgere nel cast autentiche militanti, le quali (neanche a dirlo) lo contestarono duramente durante le riprese, ed è abbastanza sicuro che un film del genere non sia stato apprezzato dagli ambienti più oltranzisti. Qualsiasi critica in tal senso, ancora oggi (al netto della rappresentazione di una militanza calato in ideali giusti, senz’altro, quanto drogati da slogan ed autocelebrazioni di dubbia efficacia) dovrebbe considerare che La città delle donne non è un film politico. Pensare che lo sia implica non averlo visto; piuttosto, si tratta di un lavoro dalla connotazione personalistica incentrato sul vissuto e sulle esperienze di vita del regista, nel disperato tentativo di trovare una quadra e proporre più una riflessione filosofica che una storia compiuta (un sogno di più di due ore, del resto, resta molto difficile da credere possibile).

    Al tempo stesso, parte della critica riconobbe apertamente la potenza visuale – più che narrativa – della storia, esaltandolo come film originale e significativo quando, per certi versi, troppo diluito in passaggi verbosi, sussurrati, in cui emerge esclusivamente la figura di Snaporaz come elemento quasi del tutto passivo, impotente nei confronti della realtà che lo circonda. Una realtà in cui convivono diverse facce, ed in cui troverà donne di ogni genere (questa è la buona notizia), per quanto (e qui arriva la cattiva notizia) si troverà a soffrirne gli inevitabili difetti.

  • La zona di interesse: trama, spiegazione, finale

    La zona di interesse: trama, spiegazione, finale

    “La zona di interesse” è un film storico del 2023 scritto e diretto da Jonathan Glazer, una co-produzione tra Regno Unito, Stati Uniti e Polonia. Liberamente ispirato al romanzo del 2014 di Martin Amis, il film si concentra sulla vita del comandante tedesco del campo di concentramento di Auschwitz, Rudolf Höss, e di sua moglie Hedwig, che vivono con la famiglia in una casa situata nella “Zona di Interesse” accanto al campo. I protagonisti sono Christian Friedel nel ruolo di Rudolf Höss e Sandra Hüller in quello di Hedwig Höss.

    Lo sviluppo del film è iniziato nel 2014, in concomitanza con la pubblicazione del romanzo di Amis, che a sua volta trae parzialmente ispirazione da eventi reali. Jonathan Glazer ha scelto di raccontare la storia della famiglia Höss piuttosto che dei personaggi fittizi del libro, conducendo un’approfondita ricerca sulla famiglia per realizzare un’opera che demistificasse i perpetratori dell’Olocausto, presentandoli non come “mitologicamente malvagi”, ma come esseri umani reali. Il progetto è stato annunciato ufficialmente nel 2019, con A24 confermata come distributore. Le riprese principali si sono svolte intorno al campo di concentramento di Auschwitz nell’estate del 2021, con ulteriori riprese a Jelenia Góra nel gennaio 2022.

    “La zona di interesse” è stato presentato in anteprima al 76º Festival di Cannes il 19 maggio 2023 e distribuito nelle sale statunitensi il 15 dicembre 2023. Il film ha ricevuto il plauso della critica e incassato oltre 52 milioni di dollari. Tra i riconoscimenti, ha ottenuto cinque nomination ai 96º Premi Oscar, vincendone due: Miglior Film Internazionale (il primo per un film britannico non in lingua inglese) e Miglior Sonoro. Inoltre, ha conquistato il Grand Prix a Cannes, tre premi BAFTA, incluso quello per il Miglior Film in Lingua Straniera, e ricevuto tre nomination ai Golden Globe. La National Board of Review l’ha incluso tra i cinque migliori film internazionali del 2023.

    A Berlino, Rudolf Höss viene incaricato da Oswald Pohl di dirigere un’operazione che porta il suo nome. Questa operazione prevede il trasporto di 700.000 ebrei ungheresi nei campi di concentramento, destinati al lavoro forzato o all’eliminazione. Questo incarico gli permetterà di tornare ad Auschwitz e di ricongiungersi con la sua famiglia. Durante una festa organizzata dall’Ufficio Centrale Economico e Amministrativo delle SS, Höss partecipa con un atteggiamento apatico. Successivamente, al telefono con sua moglie Hedwig, confessa di aver passato il tempo alla festa riflettendo su quale fosse il modo più efficiente per gasare i presenti.

    Mentre lascia il suo ufficio a Berlino, Höss scende una scala e improvvisamente si ferma, conati di vomito lo travolgono mentre fissa nel buio dei corridoi del palazzo. Nel presente, l’Auschwitz-Birkenau State Museum viene pulito da un gruppo di inservienti, simbolo della memoria e della necessità di preservare i luoghi della tragedia. Tornando al 1944, Höss riprende la discesa lungo le scale, immergendosi sempre di più nell’oscurità.

    Il finale di The Zone of Interest è profondamente simbolico e suggerisce un contrasto tra il passato e il presente. La scena di Höss che scende le scale rappresenta metaforicamente la sua discesa nella disumanità e nella depravazione morale, un viaggio sempre più profondo nell’oscurità, che è sia fisica che spirituale. I conati di vomito potrebbero indicare un momento di rigetto fisico o emotivo, ma l’assenza di un reale pentimento mostra la natura automatizzata e spersonalizzata delle sue azioni.

    La presenza dei custodi nel museo di Auschwitz oggi sottolinea l’importanza della memoria e della riflessione su ciò che è accaduto. L’alternanza tra i due periodi rafforza l’idea che, nonostante il tempo passi, il peso di quegli eventi rimane tangibile, così come la responsabilità di ricordarli e di non dimenticare l’orrore causato da individui apparentemente “ordinari”.

  • I cannibali di Liliana Cavani portò l’indovino Tiresia nel centro di Milano

    I cannibali di Liliana Cavani portò l’indovino Tiresia nel centro di Milano

    Quattro ragazzini trovano uno sconosciuto accasciato in spiaggia, si incuriosiscono e lo svegliano. Fuggendo via, vengono brutalmente colpiti a morte da un gruppo di militari, mentre l’uomo (che si scoprirà essere Tiresia, la cui lingua è incomprensibile alla maggioranza delgi uomini) rimane inebetito ad assistere alla scena.

    Tu ci vedi, ma pur vedendoci non vedi in che abisso sei caduto è la citazione, attribuita a Tiresia, dall’Antigone di Sofocle da cui trae ispirazione questo film, che ne da’ il via dopo un inizio traumatico (la morte di quattro bambini, idea di per sè in controtendenza rispetto alla maggioranza delle pellicole).

    A dirla tutta, si potrebbe assistere alla visione de I cannibali anche senza sapere nulla del classico di riferimento, tanto la regia di Liliana Cavani è concisa, sintetica ed efficace. Antigone è il personaggio a tutto tondo che esce volutamente fuori dalle righe, consapevole della carica etica e rivoluzionaria del suo gesto, un gesto che la società utilitaristica e narcotizzata non può capire e che, per questo, verrà martirizzata dal sistema. Simbolo della libertà di coscienza e derisa dal potere capitalistico (ci sono più sequenze nel film che esprimono questa metafora), nell’antica mitologia Antigone sfidò le autorità, a prezzo della sua stessa vita, pur di garantire una degna sepoltura al fratello Polinice, contrastata dal re di Tebe che, dal canto suo, voleva proibirla al fine di consolidare il proprio potere politico.

    Ne I cannibali (noto all’estero anche con il titolo The year of the cannibals, e distribuito in Italia da Raro Video) c’è anche spazio anche per una profonda considerazione sociologica: in un mondo militarizzato di soldati cinici e obbedienti al Super Io del Potere, i media sono talmente allineati al potere da fare le sue veci, catturando personalmente uno dei dissidenti, facendo un grottesco annuncio al telegiornale in pompa magna. Basti poi considerare la sequenza in cui Tiresia prova a scappare e, invece di provare a riprenderlo, il commentatore TV si lascia andare ad una surreale telecronaca dell’evento per capire come un film del genere, per quanto dall’andamento serioso, non manchino momenti di cupa, autentica ironia.

    Tu sei mio padre, e tu sei… il mio padrone. (Emone)

    Nel clima distopico imperante, i dissidenti vengono uccisi e usati come monito per i sopravvissuti, e nella migliore delle ipotesi sono rinchiusi in una sorta di carceri-manicomi, dove sono sottoposti a vessazioni di ogni genere. The Cannibals è anche il primo film di Cavani a fare affidamento (per garantirsi massima libertà espressiva, si presume) a una casa di produzione indipendente, il che lo rende ancora più diretto e interessante da reperire. Vedremo pertanto Antigone (giovane donna dei giorni nostri, intepretata da una efficace Britt Ekland, da bellezza enigmatica dalle motivazioni oscure a corpo sfigurato e martirizzato) che trafuga il cadavere del fratello (un contestatore ucciso dalla polizia) assieme a quelli di altri ragazzi che hanno subito la stessa sorte, trasgredendo così la repressiva legge vigente.

    Nel compiere l’impresa sarà proprio Tiresia (Pierre Clémenti), giovane altrettanto misterioso con cui sembra l’unica a riuscire a capirsi, a dargli una mano nel realizzare la propria idea. Il contrasto, pertanto, sembra perennemente giocato sulla contrapposizione tra adulti calcolatori e privi di scrupoli e giovani rivoluzionari vessati dal sistema nei modi più fantasiosi.

    Il mito del poeta tragico Sofocle (497-406) viene così traslietterato ai giorni nostri mediante una sostanziale modernizzazione: il re diventa il primo ministro, la protagonista una figlia di buona famiglia non allineata, mentre le relazioni tra i personaggi restano sostanzialmente intatte rispetto all’originale. Non c’è alcun sentimento didascalico nel farlo, soprattutto, e questo favorisce la fruibilità di un lavoro che, per l’epoca, deve certamente aver fatto discutere parecchio (anche chi non dovesse conoscere l’originale poteva capire appieno il senso dell’opera, anche solo per la scelta di rottura di ambientarlo nel centro di una Milano fin troppo riconoscibile).

    Il significato de I cannibali appare chiaro nella propria valenza puramente politica, anche per il periodo in cui uscì: 1970, a cavallo del Sessantotto, in un periodo in cui gli scontri per strada tra polizia e manifestanti erano all’ordine del giorno, oltre che motivo di acceso dibattito nell’opinione pubblica. Un film che si potrebbe quindi collocare nella costellazione dei film anni settanta di matrice socio-politica come, per intenderci, La proprietà non è più un furto oppure Dilinger è morto.

    Dal canto suo, il Potere – il vero “mostro” della storia – appare auto-indulgente all’ennesima potenza: messo davanti alla situazione estrema della sua stessa figlia ricoverata in gravi condizioni in ospedale e personificato dal Re / Primo ministro, rifiuta cinicamente di salvarla in nome dello Stato, dato che cedere ad una richiesta di pietà avrebbe avuto il peso politico dell’auto-delegittimazione.

    La trama del film parte da una spiaggia (dove, chissà come , è arrivato Tiresia), mentre la regia equilibrata e realistica della Cavani mostra un mondo distopico, colmo di indifferenza, spie, allegorie e delatori. La gente muore per le strade, senza che nessuno sposti i cadaveri, e nessuno se ne lamenta. Il quadro è chiaro fin dai primi fotogrammi, proprio mentre vediamo passanti aggirarsi tra i morti come se fossero semplici elementi del paesaggio.

    Peggio ancora: esiste una legge specifica che punisce duramente chiunque osi toccarli o spostarli. Il clima di indifferenza e conformismo generale è alimentato dalle leggi dello stato: è ammessa la benedizione dei morti, ma solo durante la pulizia delle strade. La realtà dell’epoca sembra binaria quanto serializzata nel senso stabilito da Baudrillard: o sei contro il sistema o sei complice, non ci sono viene di mezzo, i corpi delle vittime devono rimanere per strada perchè servano da monito ai vivi, mediante un raffinato meccanismo di serializzazione (il simulacro del corpo di Polinice si trasforma in centinaia di corpi di contestatori sparsi). Il reale è riprodotto in serie e sono i morti, letteralmente, ad essere al centro della narrazione, probabilmente perchè risulterebbe destabilizzante per il sistema farli seppellire.

    Negare il diritto di sepoltura è un modo per mantenere l’ordine costituito, con una sorta di legge marziale in cui è concesso sparare a vista sui dissidenti senza processo. Di fatto, è ormai normale aggirarsi per la strada con decine di morti distribuiti ovunque, ridotti a elementi scenografici del numerosi non-luoghi meneghini.

    I cannibali rimane un film moderno, sostanziale ed imperdibile ancora oggi, impreziosito da una performance poco nota (e notevolissima nella sostanza) di Thomas Milian.

    Una versione restaurata del film è stata rilasciata su DVD e Blu-ray da Kino Lorber nel 2014.