POLITICA_ (39 articoli)

  • Il maestro e margherita: il classico di Bulgakov riletto da Aleksandar Petrović

    Il maestro e margherita: il classico di Bulgakov riletto da Aleksandar Petrović

    Uno scrittore sta lavorando a un’opera teatrale di ispirazione biblica su Ponzio Pilato; nel frattempo Woland (alter ego di Satana in persona) e due oscuri figuri sembrano interessarsi all’opera.

    In breve. La trasposizione è semplificata rispetto al romanzo, ma nel complesso regge e dovrebbe (al netto delle consuete – quanto irrealistiche – manìe traspositive) onorare la memoria dell’opera da cui è tratto. Memorabile anche per l’atipica e fondante interpretazione drammatica di Ugo Tognazzi.

    Bisogna guardare un film direttamente. il cinema non è l’arte degli accademici, ma degli illetterati“: a formulare il pensiero appena riportato è stato Werner Herzog in persona – la citazione è tratta dal libro-intervista Incontri alla fine del mondo, Edizioni Minimum Faxconsiderato uno dei principali portavoce del cinema colto e impegnato, esponente della corrente del nuovo cinema tedesco e (potremmo aggiungere, a corredo) intellettuale controcorrente.

    Ho visto questo film mentre finivo di leggere il mattoncino appena citato, e non ho potuto fare a meno di collegare le due linee narrative. La visione de Il maestro e margherita andrebbe effettuata, infatti, dopo aver ribadito quella frase un paio di volte, imparandola a memoria e rifiutando per questo motivo qualunque parallelismo letterario-filmico che rischierebbe, di fatto, di essere fuorviante. Se è vero quello che ha affermato Herzog, infatti, possiamo concederci questa edizione de Il maestro e margherita addirittura (!) senza aver mai letto il romanzo. Senza pensare nulla altro di atipico, lo faremmo giusto per attribuirci un grado di libertà che non è così scontato concederci.

    Lo faremmo, in effetti, anche solo al fine di evitare di farci travolgere dalla barbosa questione della “propedeuticità” del romanzo – vedi il putiferio scatenato dalla versione filmica de Il signore degli anelli, ad esempio – e la consumata dicerìa secondo cui “il film è sempre inferiore al libro da cui è tratto“. Se istintivamente tendo a dare ragione a questa affermazione, infatti, ho comunque ritenuto che le due forme espressive cinema/letteratura siano, in fondo, del tutto scorrelate, sostanzialmente imparagonabili tra loro, e basterebbe citare anche solo Arancia meccanica per convincersene: entrambi pregevoli, sia nella forma di Burgess che in quella di Kubrick. E che a nessuno venga in mente di citare Shining, a questo punto, perchè questo discorso di indipendenza vale addirittura in quel caso (sono due opere diverse, tanto che le schermaglie tra scrittore e regista in merito, viste oggi, sono superate e forse più egotiste che altro).

    Tutto questo spiegone senza aver ancora citato nulla del film? (Purtroppo) sì, è necessario perchè l’opera è complessa, non quanto il romanzo ma quasi, e merita un approccio da parte dello spettatore che non sia nè saccente nè tantomenoe superficiale: la teatralità marcata dell’opera potrebbe, ad oggi, essere meno compresa di quanto non fosse per il 1972, periodo in cui lo sperimentalismo era quasi la norma o la necessità. La regia di Petrović è di natura sperimentale ma non tanto da disorientare lo spettatore, e riesce ad essere avulsa dallo stile lisergico di (forse) troppe opere del periodo. Quando ho scritto che questo film onora il romanzo, in effetti, ritengo che lo faccia non perchè ricostruisca i passi della storia originale in modo fedele (cosa che sarebbe stata alquanto improbabile in ogni caso), quanto perchè evidenzia in pochi tratti il mood letterario che ha reso famoso Il maestro e margherita.

    Poche, scaltre pennellate bastano al regista per delineare il tutto: la raffigurazione dell’artista appassionato e destinato alla miseria, l’atteggiamento ottuso dei burocrati censori, la figura satanica che si pone come autentico sovversore dell’ordine costituito, che Petrovic sembra esprimere contrapponendo il satanismo e la sua anarcoide libertà ad un mondo piatto, ateo quanto conformistico, feroce contro i dissidenti e burocratizzato in modo grottesco. E lo vediamo chiaramente nella scena raffigurata anche nella locandina, quella del pubblico a cui Woland fa scomparire i vestiti, sequenza che si presta peraltro a più di una interpretazione simbolica (se  il pubblico siamo noi, per intenderci, siamo “nudi” di fronte al fascino della trasgressione, per quanto l’ateismo potesse sembrare almeno inizialmente la “vera” libertà).

    Il sovvertimento culturale di Petrović è sostanziale, in parte forse sottovalutato da parte della critica e merita un elogio anche solo per questo, sulla falsariga della sua appartenenza alla celebre Onda Nera – nome inquietante dietro il quale si firmavano vari cineasti “semplicemente” critici verso il regime sovietico. La sua riduzione è del 1972, ed è opportuno chiamarla “riduzione” perchè assume un approccio inesorabilmente riduzionista (quanto efficace, a mio avviso) rispetto alla pluri-citata complessità del romanzo originale, in grado di far comunque evolvere due trame in parallelo senza perdersi in virtuosismi letterari che, se da una parte lo hanno reso una delle opere più celebri della letteratura russa, sarebbe state improbabili sullo schermo. Parte dell’impianto scenico di base viene comunque mantenuto, e si vede che lo script è molto lavorato quanto, in alcuni casi, forse troppo da b-movie (le sequenze delle decapitazioni, ad esempio, danno l’idea di una lavorazione sbrigativa, per così dire). Stando a IMDB, per la cronaca, si sono occupati di soggetto e sceneggiatura il regista in persona, Barbara Alberti, Amedeo Pagani e Romain Weingarten.

    Del resto questo approccio critico non dovrebbe scandalizzare gli appassionati o “puristi” dell’opera letteraria, perchè non è questo il punto; come abbiamo ribadito, dovremmo accettare che Bisogna guardare un film direttamente. il cinema non è l’arte degli accademici, ma degli illetterati. In fondo siamo quasi tutti tentati, credo, a credere a quelle parole, e proprio perchè a dirlo è Werner Herzog, un cineasta impegnato e impegnativo par excellence che in quel passaggio è quasi toccante per la sua semplicità e umiltà. E proprio perchè non è Peter Jackson o Nando Cicero (tanto per citare due estremi opposti) a pensarla così, ci sentiamo un po’ più legittimati a recensire l’opera rigettando a priori di proporre inquietanti paragoni col romanzo, anche in nome della scarsa filmabilità di default che si attribuisce spesso, ad esempio, ad H. P. Lovecraft. Se infatti lo scrittore di Providence è considerato da decenni molto difficile da rappresentare sullo schermo, Bulgakov probabilmente rasenta l’impossibilità e, di fatto, costringe a spostare il focus sulla regia e (non troppo) sullo script.

    Ci sono due elementi fondanti questa riduzione filmica del romanzo di Bulgakov, che chiameremo “riduzione” in senso sia letterale che figurato, proprio perchè sarebbe stato insano proporre una versione uncut dell’opera, cosa che – a quanto pare – è avvenuto in una sola circostanza ed ha richiesto una lettura radiofonica di circa 20 ore. Le accuse di banalizzazione e riduzionismo a Petrović sono quindi, in partenza, frutto di un bias cognitivo molto radicato anche nell’animo di tanti cinefili che sanno il fatto loro, e che sarebbe il caso di mettere da parte.

    Il maestro e margherita rimane ovviamente un film complesso e ricco di sottotesti, allusioni, allegorie e simbologie complesse da decifrare: al tempo stesso è chiaro come voglia essere una critica feroce al regime sovietico ed al suo materialismo dialettico, considerato dalla sceneggiatura un elemento esecrabile quanto in grado di appassire o degradare la realtà. I due elementi che caratterizzano l’opera di Petrović sono, a questo punto, il grottesco (che pervade l’intera opera con momenti davvero sublimi ed altri forse un po’ meno efficaci) e la drammatizzazione spinta nella recitazione degli interpreti. Di fatto la prima componente si declina con effetti speciali artigianali quanto coraggiosi nel loro impianto, con alcune sequenze che sconfinano quasi nell’horror oltre che nel fantastico.

    Il feeling drammatico è di derivazione evidentemente teatrale, ed è anche chiaro che il parallelismo tra la storia di Pilato rispetto a quella del Maestro Nikolaj Afanasijevic Maksudov è giustamente rievocata durante lo svolgimento della trama. Proprio quest’ultimo personaggio è mirabilmente interpretato da Ugo Tognazzi, in una delle sue tante interpretazioni drammatiche, oltre che probabilmente uno dei motivi per cui il film ebbe una discreta popolarità anche in Italia. Maksudov si strugge perchè la sua arte non viene compresa, anzi viene boicottata dai burocrati sovietici, che dall’altro della loro arroganza e impunità non accettano la sua visionarietà, il suo andare oltre il “sacro” materialismo, meno che mai i riferimenti filo-anarchici di critica al potere come violenza.

    Se volessimo individuare un difetto filmico, a questo punto, non possiamo fare a meno di citare alcuni apparenti vuoti narrativi che poi, di fatto, sono semplici pause prolungate: lo spettatore ci mette probabilmente un po’ a sintonizzarsi con questo aspetto, allo stesso modo in cui non faticherà a farsi affascinare dalla figura di Woland (un diavolo allusivo e potentissimo che, probabilmente, è un po’ il padre putativo di tanti altri demoni di forma umana visti sullo schermo di seguito).

    Il film procede più speditamente di quanto quelle pause possano suggerire, e permette quasi di azzardare che la riduzione sia stata sintetica al punto giusto, nonostante qualche inevitabile fusione narrativa che i fan di Bulgakov quasi certamente criticheranno. Nonostante questo, il mio parere positivo non cambia, e vale la pena dare (o ridare) ancora oggi una possibilità a questo lavoro, a dispetto della sua età e del fatto che riesce a farsi amare, come pellicola, anche senza conoscere l’opera originale. E questo, anche se sembra incidentale o di poco conto, non andrebbe sottovalutato.

  • L’ape regina: sono andato in bianco, e sono contento

    L’ape regina: sono andato in bianco, e sono contento

    Alfonso decide di sposare Regina, dopo una vita da quarantenne single. L’uomo è convinto di aver trovato la donna perfetta, dato che si mostra sincera e riservata, tanto da non concedersi a lui prima del matrimonio. Dopo essersi sposati, le cose cambiano…

    In breve. Un climax senza sconti sugli effetti del bigottismo sulla società, con un indimenticabile Ugo Tognazzi in un ruolo ineditamente drammatico. Da non perdere.

    L’ape regina, rinominato “Una storia moderna: l’ape regina” dopo l’intervento della censura dell’epoca (siamo nel 1963), è un film grottesco da collocarsi nella complessa poetica del regista Marco Ferreri, che va da La grande abbuffata fino al più criptico Dillinger è morto, con numerose ulteriori opere espressione di un linguaggio complesso, mosso su vari registri e quasi sempre socialmente / politicamente impegnato. Il punto di vista contenuto ne L’ape regina (film per cui Marina Vlady vinse come miglior interprete femminile, e Ugo Tognazzi ebbe un Nastro d’Argento come Migliore attore protagonista) è quantomeno insolito, perchè narra di una neo coppia apparentemente “media”, per cui si disvela un inquietante scenario. Uno scenario in cui l’unico modo per cui la donna possa avere la meglio è, di fatto, quello di “allearsi” al cattolicesimo imperante – il film venne rimaneggiato e censurato dopo la sua uscita, ovviamente.

    Lo sai perchè sono contento? Perchè sono andato in bianco!

    By [1], Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=36692171
    Subito dopo il matrimonio, infatti, vediamo sbucare fuori la reale natura di Regina: molto religiosa (devota a una santa barbuta), obbliga il consorte ad abitare vicino al Vaticano, si mostra compiacente rispetto all’invasività nella coppia dei parenti di lei, oltre che condizionante sul carattere di Alfonso (uomo che si rivela fragile, insofferente al bigottismo quanto facile da plagiare). Vediamo la quotidianità ed intimità della coppia, che sembra fatta in apparenza di passione e complicità – ma che sta logorando Alfonso, pressato dalla sessualità dirompente ed invasiva da parte della moglie (che, neanche a dirlo, vorrebbe rimanere incinta ad ogni costo).

    Del resto la religione, abilissima ad avere la pretesa di controllare l’istinto altrui, in questa circostanza si mostra ostile ad Alfonso e strumento nelle mani di Regina: ce ne accorgiamo dalla sequenza in cui l’uomo prova a confidarsi col prete che li ha sposati, il quale gli prescrive un ricostituente ormonico – tanto lo prendono tutti, perchè Sant’Alfonso (evidentemente, nomen omen) ha scritto in ginocchio […] sui rapporti coniugali […]: il coniuge non può e non deve sottrarsi al desiderio legittimo dell’altro coniuge. Il desiderio santo (così come viene definito) è accettabile sempre e comunque, purchè adagiato sui dettami della chiesa, anche se poi diventa ossessivo e svilente per il protagonista, al quale viene ripetuto più volte di fare un figlio alla svelta per “risolvere” il problema.

    Non lo fo per piacere mio, ma per far piacere a Dio!

    In nuce sembra di assistere alle medesime tematiche affrontare, in tempi recenti, da quel piccolo cult quale è The lobster, in cui la sessualità era gestita a comando ed andava finalizzata in modo pre-determinato: coppia o single, senza vie di mezzo e senza sfumature, a voler per fora accondiscendere una delle due distopìe. Ferreri intuisce la questione in modo atipico, se vogliamo, invertendo i ruoli tradizionali uomo-donna e mostrando un uomo succube della consorte. È anche chiaro che manda il messaggio forte e chiaro che la religione svilisca l’aspetto piacevole del sesso e ne esalti, puramente, quello procreativo; tanto peggio se lo fa sfruttando l’avvenenza di Regina, fino alla fine cinica e calcolatrice. Alla fine l’uomo diventerà un vuoto a rendere, privato di ogni individualità, padre destinato a cedere il passo ad una prole mai davvero voluta, prima del tempo.

  • Porte aperte: trama, cast, curiosità sul film

    Porte aperte: trama, cast, curiosità sul film

    “Porte Aperte” è un film italiano del 1990 diretto da Gianni Amelio. Il film è noto per il suo impegno sociale e politico ed è stato ispirato da eventi reali. Di seguito, ti fornirò dettagli sulla trama, il cast, la regia, la produzione, lo stile, alcune curiosità e una spiegazione dettagliata del finale con un avviso spoiler.

    Trama: “Porte Aperte” è ambientato in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale e segue la storia di un prete cattolico, Don Benedetto (interpretato da Gian Maria Volontè), che lavora per aiutare e proteggere i detenuti politici antifascisti. La storia ruota attorno alle sue interazioni con un giovane detenuto politico di nome Luigi (interpretato da Ennio Fantastichini), che è stato condannato a morte per le sue attività antifasciste.

    Il film esplora il conflitto tra Don Benedetto, che cerca di offrire conforto spirituale e sostegno umano a Luigi e agli altri detenuti, e il regime fascista che cerca di reprimere l’opposizione politica in Italia. La narrazione si sviluppa attraverso una serie di incontri tra Don Benedetto e Luigi, rivelando il crescente legame tra i due uomini e la lotta per la sopravvivenza e la giustizia.

    Cast:

    • Gian Maria Volontè come Don Benedetto
    • Ennio Fantastichini come Luigi
    • Renato Carpentieri
    • Tuccio Musumeci
    • Renato Scarpa

    Regia: Il film è stato diretto da Gianni Amelio, un regista italiano noto per il suo stile realistico e la sua attenzione per i temi sociali e politici. La sua regia in “Porte Aperte” è stata apprezzata per la sua capacità di catturare l’angoscia e la tensione dei personaggi e dell’epoca storica in cui è ambientato il film.

    Produzione: Il film è stato prodotto da Giuseppe Tornatore e Angelo Rizzoli Jr. ed è stato distribuito nel 1990.

    Stile: Il film presenta uno stile realista, con una fotografia che cattura l’atmosfera cupa e opprimente del periodo storico. La narrazione si concentra sulla profondità dei personaggi e sulle loro relazioni, piuttosto che su effetti speciali o azione spettacolare.

    Sinossi: “Porte Aperte” racconta la storia di un prete che cerca di sostenere detenuti politici antifascisti durante la Seconda Guerra Mondiale in Italia, mettendo in evidenza i conflitti morali e politici dell’epoca.

    Curiosità:

    • Il film è stato nominato per l’Academy Award come Miglior Film Straniero nel 1991.
    • È basato su eventi e personaggi reali, il che aggiunge una dimensione storica significativa alla storia.

    Spiegazione dettagliata del finale (SPOILER ALERT): Nel finale del film, Luigi è stato condannato a morte, ma Don Benedetto continua a sostenere spiritualmente e moralmente il giovane prigioniero fino all’ultimo momento. Mentre Luigi viene condotto al plotone di esecuzione, Don Benedetto è presente e lo guarda morire. Questa sequenza finale è profondamente toccante e rappresenta il culmine della relazione tra i due personaggi.

    La morte di Luigi sottolinea la brutalità del regime fascista e il sacrificio di coloro che si sono opposti ad esso. Don Benedetto, pur avendo fatto tutto ciò che poteva per aiutare Luigi, è costretto a confrontarsi con l’ingiustizia e la durezza della realtà politica dell’epoca.

    Il finale offre una potente riflessione sulla lotta per la giustizia, la fede e la resistenza contro le forze oppressive. È un momento di grande impatto emotivo che rimane con lo spettatore anche dopo la fine del film, rappresentando il tema centrale della storia e la sua forza emotiva.

  • Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto: l’uso della libertà, secondo E. Petri

    Via del Tempio, 1: Augusta Terzi viene assassinata dal capo della sezione politica della questura: l’assassino non solo si auto-denuncia, ma cosparge la scena di prove della propria colpevolezza. La macchina burocratica e istituzionale della polizia, corrotta fino all’osso, non potrà mai attivarsi contro il protagonista, in virtù  della massima “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano“. Questa clamorosa conclusione è ciò a cui ci porta il capolavoro di Elio Petri, uno dei film più famosi del regista romano che si colloca nel clima turbolento degli anni Settanta italiani: all’uscita del film si vociferò di un possibile sequestro, anche per via della concomitanza con gli attentati di piazza Fontana e la morte di Pinelli (la critica di Lotta Continua vide nella figura del protagonista un alias del commissario Calabresi).

    Al di là dei contenuti politici – spesso abusati o retorici in altri lavori – e dell’ovvia metafora contro il Potere e le sue perversioni, il film è denso di riferimenti culturali, dallo stile brechtiano e straniante di Volontè (in una delle sue più belle interpretazioni) all’intero paradosso di matrice kafkiana che avvolge l’intera storia. Il capo della sezione omicidi ha appena ucciso la propria amante, e sembra beffarsi delle stesse istituzioni che proteggono lui come altri colleghi corrotti: è una situazione di stallo circolare, in cui non sembra esserci speranza di giustizia se non per la sparuta ed isolata figura dell’anarchico Pace (nomen omen), unico relativo barlume di speranza e positività della storia.

    Nessuna impronta interessante, ci sono solo le sue, dottore… sì, su una maniglia, e su una tazzina di caffè, dottore, si vede che lei avrà avuto sonno. Questo nella doccia, lì siamo entrati tutti, anche il dottor Mangani ricorda? E poi nella cucina, anche lì siamo entrati  tutti… e sempre distrattamente avrà preso qualche cosa senza precauzioni… ecco, e poi sul telefono… ma lei senza dubbio avrà telefonato, ricordo benissimo che lei telefonò, e poi su un bicchierino da liquore, ma lei si sentì male, quella sera, un bicchierino di Fernet glielo versai io, si ricorda (Dott. Panunzio)

    Un’istituzione giudiziaria evoluta in una macchina cinica e burocratese, in cui nessun uomo comune è realmente al sicuro – ma che, al tempo stesso, si cura bene di proteggere i più forti. Nel farlo, il vero colpo di genio è l’uso del frame tipico del thriller all’italiana, tanto che le prime sequenze evocano i migliori lavori di Fulci o Argento, per poi diventare cinema politico con una forte connotazione “teatrale”. Tale sfumatura è visibile in diversi spaccati del film, come nei frammenti di riflessione interiore del protagonista, o quando ascolta la propria confessione registrata e ne ripete, drammatizzandoli, alcuni passaggi. L’aspetto singolare del film è legato al fatto che l’intera vincenda – quello che sarebbe un giallo, in altre circostanze, con finale a sorpresa – sono orchestrati dal protagonista che si beffa deliberatamente della legge che rappresenta.

    La Bolkan è una borghese irrequieta, attratta morbosamente dai segreti del poliziotto e, per estensione, invaghita del Potere (tanto feroce quanto infantile, in questa rappresentazione), arrivando da farsi trattare da bambola nella grottesca ricostruzione di più scene del delitto. Il punto cardine del film passa, poi, per un’intuizione brutale: l’identificazione da parte delle autorità del reato politico con quello criminale (sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo), il che porta la stessa a prendersi gioco di tutto il resto, e a schedare ferocemente i cittadini infangandoli ed accusandoli a convenienza. Le indagini sull’assassino della Terzi, peraltro, sono svolte da umili individui sottomessi al capo dell’attuale sezione politica, che vivono in perenne soggezione nei suoi confronti e sembrano non avere modo di poterlo incriminare, neanche volendolo sul serio. Uno scenario kafkiano fatto di accenni, riferimenti occulti e cenni di intesa, vissuta dal punto di vista del più forte ed in cui è evidente il senso di straniamento e di assurdo, che non avrebbe sfigurato in una tragi-commedia di Beckett o Ionesco.

    L’importanza culturale di Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto è molteplice: al di là del tentato risveglio delle coscienze e del forte senso di denuncia, si tratta di un importante passo avanti verso una società più adulta, […] più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri (corsivo tratto dal Corriere della sera); non quindi una semplice analisi del problema, ma anche una possibile soluzione ed una potenziale svolta dietro l’angolo. Non è un caso che l’unico vero testimone del delitto sia un cittadino proclamatosi anarchico individualista, la cui effettiva efficacia d’azione è comunque messa in discussione dall’ambigua pantomima del poliziotto. La riunione “un po’ all’americana” con il delirio di onnipotenza del dirigente stesso (il cui nome non viene mai pronunciato), il successivo svelarsi di un archivio in corso di informatizzazione (nel quale vengono regolarmente schedati soggetti politici e comuni cittadini: una specie di NSA ante litteram, vista oggi), e la discussione con il commendatore che considera irrilevante l’auto-denuncia del collega (“per me è stato… il marito“) sono soltanto tre dei passaggi magistrali di Investigation of a Citizen Above Suspicion.

    L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite… L’uso della libertà, che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, che ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della legge che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà!

    Un film dai registri perfetti, dalle sublimi interpretazioni di tutti i personaggi, i quali recitano un canovaccio dell’assurdo in cui sono tutti colpevoli ma, al tempo stesso, nessuno lo è davvero. Il black humor e la feroce satira di cui è cosparso il film, elemento considerevole di altri lavori di questo genere (ad esempio Signore, Signori, Buonanotte), rendono questo lavoro di Petri forse tra i film italiani più importanti e maturi di sempre. Prima parte della “Trilogia della Nevrosi“, che sarà seguita da La classe operaia va in paradiso (1971) e La proprietà non è più un furto (1973).

  • Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Brazil: un sublime saggio distopico, tuttora ineguagliato

    Sam Lawry è un tecnocrate onesto e sognatore quanto timido ed impacciato, che opera per il complicatissimo settore burocratico di una distopica società occidentale: ossessionato da un sogno ricorrente nel quale raggiunge, alato, la donna dei suoi sogni, un giorno finisce per riconoscerla in una conoscente…

    In breve. Considerato un capolavoro del genere sci-fi distopica (secondo Harlan Hallison si tratta addirittura del migliore in assoluto) si tratta effettivamente di un lavoro di eccellente fattura, che riprende toni e tematiche di “1984” (G. Orwell) ed è ambientato in uno scenario surreale, ricco degli aspetti bizzarri che i fan dei Monty Python riconosceranno immediatamente. La tragedia di un essere umano schiacciato dalle assurdità burocratiche moderne, che si tramuta in una feroce satira contro un certo tipo di modernità.

    Brazil” di Terry Gilliam è un surrogato – che non esiterei a definire epico – di tipiche situazioni di fantascienza distopica, ricchissima di simbolismi (che il regista sembra visibilmente aver amato alla follia), e che dai simbolismi stessi non si fa appesantire, come in altri film sarebbe facilmente potuto succedere. Proponendo un gioco duale e funambolico tra la realtà (sgradevole, noiosa e monotona) ed il sogno più liberatore che possa esistere, rende difficile comprendere cosa sia vero e cosa invece costruzione mentale. E nel fare questo Gilliam sembra essere stato molto attento a non cedere ad intellettualismi troppo astratti, confermando la natura “pop” del genere ed allegandovi messaggi profondi e molto mirati. Si mostra la vita di un uomo qualsiasi, un vero e proprio “numero” nel quale diventa ovvio identificarsi: una persona ricca di sfaccettature, sensibile e profondamente sognatrice, che si scontra con un mondo sordo, menefreghista e schiavo di burocrazie inutili e sfiancanti. “Brazil” rappresenta la lotta di un uomo prima di tutto contro se stesso, ed a testimoniarlo ci invia un gioco di parole intraducibile in italiano (i samurai contro cui Sam combatte evocano la frase “Sam, you’re I“) che rende decisamente più comprensibile alcune delle allucinazioni del protagonista.

    L’amore, visto in chiave “settantiana” come liberazione totale della bellezza e della purezza smarrita dall’uomo, assume caratteristiche “sovversive”, che non possono essere tollerate da un mondo repressivo e dominato da giocattoli tecnologici e chirurghi plastici senza scrupoli (il richiamo al mondo ipocrita del successivo Society non è neanche troppo azzardato). Per quanto il film possieda una stragrande maggioranza di elementi positivi, dunque, si rileva probabilmente un unico vero difetto nell’eccessiva lunghezza della pellicola, che finisce – pressapoco prima dell’ultima mezz’ora – per stancare un po’ lo spettatore meno paziente, lasciandolo pero’ in bilico ed imponendogli, di fatto, di vedere il tutto fino alla fine per forza di cose.

    Le enormi capacità comunicative ed artistiche di Gilliam, realizzate da momenti realmente bizzarri che evocano le divagazioni dei Monty Python, si esplicano in situazioni apertamente umoristiche e, senza preavviso, tragicamente realistiche e paranoiche. Molte delle tematiche, e parte delle conclusioni, sono accumunate al classico di Orwell “1984“, a cui il regista sembra essersi ispirato servendosi pero’, c’è da specificare, di un numero superiore di mezzi espressivi rispetto alla mediocre riduzione cinematografica del famoso romanzo.

    Memorabile l’interpretazione di De Niro, che compare nei panni del “libero professionista sovversivo” Tuttle, uno dei pochi alleati autenticamente umani del protagonista e focalizzato su alcune “micro-sequenze” realmente memorabili. Certamente alcune allusioni finiranno, al giorno d’oggi, per risultare inefficaci (le ossessioni da teledipendenza, ad esempio, erano state ampiamente sviscerate da Cronenberg qualche anno prima), anche se trovo impressionante rilevare come alcune trovate, come quella della macchina che fornisce volti e informazioni personali su qualsiasi cittadino, finisca per evocare l’omologazione presente all’interno dei moderni social network.

    Un film di grande valore artistico e con vari dettagli sorprendenti per un film dell’epoca: da vedere almeno una volta nella vita.