BRIVIDI_ (84 articoli)

Recensioni dei migliori thriller usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Suicide Club è il circolo della morte di Shion Sono

    Suicide Club è il circolo della morte di Shion Sono

    Tokio sembra essere in preda ad un’epidemia di suicidi: prima 54 adolescenti si gettano sotto un treno, poi un’infermiera si lancia nel vuoto e degli studenti emulano il gesto dal balcone della scuola. Un poliziotto indaga sulla questione scoprendo verità inquietanti…

    In breve. Diffidate da qualsiasi recensione o parere troppo entusiastico, perchè il film non riesce a cogliere nel segno. L’incipit è memorabile, senza dubbio, ma seguono troppi accenni, troppi elementi sconnessi, una certa smania di stupire e delle interpretazioni non sempre di livello. Un’idea che forse, in altri contesti, sarebbe potuta essere più accattivante.

    Diretto nel 2002 dal visionario Shion Sono (già noto per il terrificante e fuori dalle righe Strange circus), Suicide Club (noto anche con il titolo “Suicide Circle“) è a mio parere un film riuscito solo a metà: se da un lato scatena suggestioni impulsive – il suicidio è senza dubbio uno dei tabù più colossali della società moderna – e nonostante riesca a divagare con una certa coerenza, un sentito gusto per il grottesco e per l’esagerazione sul tema, ne risulta una pellicola ampiamente sopravvalutata e sopravvalutabile. Suicide Club, pertanto, evoca più la più classica delle occasioni perse.

    Non male il livello di splatter, per quanto molte scene siano ai limiti dell’artigianalità più grossolana(quasi a livello di certi b-movie italiani anni 80); decisamente più suggestive molte delle scene topiche, tra cui il suicidio in metropolitana che vediamo all’inizio, e le morti più improbabili che rivaleggiano con quelle viste in “Final Destination“. La parola “capolavoro”, tanto abusata in queste circostanze, ci deve ricordare che non basta scomodare temi forti per essere considerati cineasti di livello: è anche questo di come si racconta. Questo difetto, a mio avviso, si concretizza per almeno due ragioni: da un lato non si capisce quasi per nulla dove il regista sia voluto andare a parare (cosa piuttosto chiara, invece, nella metafora circense del succitato film), dall’altro la trama appare piuttosto sconnessa, caotica – in certi passaggi si fatica a capire cosa stia succedendo. Il finale è visionario o realistico, ad esempio?

    Nonostante alcune trovate crudeli quanto azzeccate – la cintura di pelle umana è destinata a scolpirsi nella memoria di tutti gli spettatori – vi sono troppi momenti di sottovuoto spinto che fanno calare l’attenzione, e non riescono (a mio parere, ovviamente) a coinvolgerlo come si dovrebbe. Eppure le idee non mancano, del resto il tema era ghiotto: il focus è posto sull’alienazione dell’uomo moderno, svilito da mille giocattoli futili e disumanizzato al punto di sentirsi “solo tra la folla” come unica, autentica, condizione di esistenza. Una solitudine lacerante che porta a voler terminare la propria vita anche senza una ragione, forse semplicemente perchè la società lo imporrebbe, con i suoi ritmi pressanti ed autodistruttivi. Altri cineasti hanno mostrato in questa direzione, e pur sviluppando trame a volte ai limiti dell’astrattismo puro (penso a Tetsuo, ma anche a Izo e a Der Todesking) sono riusciti a cogliere nel segno: il regista Sono, al contrario, concretizza diversi incubi metropolitani moderni in perfetta penombra, e mostra teenager incoscenti propensi a trovarsi una fidanzata con la stessa tranquillità con cui commetterebbero un suicidio di massa.

    Del resto non sarebbe stato male lasciare un punto interrogativo sulla natura dell’eventuale setta che sembra aver condizionato le menti dei giovani mediante internet: ma i particolari del puzzle appaiono distanti tra loro, troppo per parlare di un film davvero memorabile.

  • Seguendo il sangue (A. Antonini, 2011)

    Seguendo il sangue (A. Antonini, 2011)

    “…al mondo non si fa quello che ci piace, solo e soltanto quello che si deve“. È questa probabilmente la summa del film di Alberto Antonini “Seguendo il sangue“, un thriller estremamente surreale a forti tinte horror, che deve moltissimo dell’impianto scenico alle opere più spaventose di David Lynch. (altro…)
  • Hard Candy: il thriller di David Slade stravolge le regole del genere

    Hard Candy: il thriller di David Slade stravolge le regole del genere

    Jeff e Hayley si conoscono in chat, e decidono di incontrarsi per la prima volta: tra di loro ci sono diciannove anni di differenza d’età.

    In breve. Thriller minimalista a tinte forti, girato in un asettico “appartamento degli orrori”. Da vedere, al netto di qualche lungaggine, di qualche nota pretenziosa e a patto che la violenza insistita (mai esplicita, ma intuibile) non vi risulti insostenibile.

    Hard candy rientra nel thriller claustrofobico come probabilmente tanti ne sono stati girati, ma con caratteristiche che lo rendono un unicum. Si tratta di un film dalle tinte decisamente cupe, girato in soli 18 giorni e quasi del tutto all’interno di un appartamento. Ci sono due soli personaggi, a differenza dei tre che popolano ad esempio La morte e la fanciulla, e interessante parallelismo (almeno in termini di tema principale) con l’opera di Polanski. Su tutti, il senso del dubbio che accompagna un processo giusto o sommario, indefinibile nella sua essenza e con un senso di risoluzione che lascia probabilmente più interrogativi che altro. L’idea di Slade è quella di interrogarsi su un inquietante what-if: cosa succederebbe se chi si prefigura come predatore non fosse realmente chi dice di essere? E se il predatore fosse invece la vittima?

    Il tutto a sottolineare un mood ossessivo ed inquietante per il primo lungometraggio di David Slade, noto anche per aver girato l’episodio interattivo Bandersnatch della serie Black Mirror. Poco budget e tanta qualità, da non perdere – seppur con qualche riserva. L’ispirazione della storia, per inciso, nasce dalla cronaca giapponese, secondo cui alcune ragazzine adescavano adulti via internet per derubarli o aggredirli, spesso mediante vere e proprie baby gang.

    È difficile parlare di questo film in termini assoluti, soprattutto perchè rifugge i meccanismi classici della narrazione, dello stesso rape’n revenge, dell’eroismo e di “togliersi un peso” – lo stesso che, solo alla fine, pervade addirittura pellicole nichiliste come The Human Centipede. Sono le specificità a farla da padrone nel lavoro di Slade: a cominciare dal tipo di riprese dettagliate, dalla fotografia magistrale ricca di primi piani, all’insistere su una recitazione fortemente drammatizzata (la sceneggiatura è scritta da Brian Nelson, americano che ha scritto molto teatro), dall’uso minimalista dei suoni e della colonna sonora, fino alla definizione di due personaggi per cui i ruoli – senza troppe sorprese, alla fine – si invertono.

    L’horror ci ha abituati suo malgrado, anche se non sempre, alle figure femminili vittime di “orchi” – alla meglio, diventavano scream queen coraggiose, violente quanto liberatorie. In Hard Candy, invece, Slade sembra prendere la storia come pretesto per mettere in risalto il problema della pedofilia, non in ottica puramente giustizialista (almeno, non del tutto) mostrando un’anti-eroina con cui può essere facile, o meno, identificarsi. Soprattutto se ci chiederemo a chi Hayley abbia scritto la mail raccontando dell’aggressione: alla baby gang di cui fa parte? Alla polizia che l’ha addestrata a dovere?

    Insomma un’ottica differnete dalla media, difficile da paragonare a qualsiasi altra cosa sia stata girata prima, e di questo ne va dato atto. Slade sembra comunque strizzare l’occhio ai revenge movie modello Prosperi e Craven, riprendendo quegli stessi eccessi – con la differenza fondamentale che, stavolta, il sadismo è di marca femminile, mostrando un adulto, con un certo bagaglio di esperienza (mite quanto insospettabile) contrapporsi ad una ragazzina dall’aria nerd, dalla natura infida e imprevedibile. Viene anche il dubbio, delle volte, di come una quattordicenne possa essere tanto attrezzata per seviziare la propria vittima, anche se qualcosa si intravede all’inizio fuoriuscire dalla borsetta (forse la pistola taser).

    Non c’è dubbio che Slade, poi, riprenda quanto era stato fatto in Funny Games, che – con le sue ville isolate ed i suoi adolescenti psicopatici pronti ad uccidere dietro l’aura del candore – presenta vari punti di contatto con Hard candy (termine, per inciso, è un modo slangato per indicare le minorenni che vengono adescate in chat). Il tutto con un aspetto importante da sottolineare: proprio come nel film di Heneke, non possiamo accertare il motivo della vendetta, o meglio lo conosciamo – ma non abbiamo prove certe. Ad ogni modo la revenge è cieca, e per questo terrorizza, e non rimane appesa inesorabilmente ad una coscienza collettiva, come avveniva ne La morte e la fanciulla. Il fatto che siano una ragazzina a torturare un adulto disorienta, ma viene comunque più volte il dubbio su chi sia la vera vittima e chi il reale carnefice.

    Se si volesse cercare un ulteriore difetto, poi, c’è da sottolineare che certi momenti sono troppo prolungati, e rischiano di risultare pleonastici: la fin troppo citata scena della castrazione, del resto, sembra raccontare di una parte di pubblico che implora per la conclusione della stessa – addirittura prima che il protagonista maschile si decida a farlo.

    “Solo perché una ragazzina sa imitare una donna, non significa che sia pronta a fare ciò che fa una donna”

    il meccanismo narrativo è affascinante, quanto subdolo: come in gran parte di La muerte y la doncella, non sappiamo se la vittima sia davvero responsabile, e nei panni di un invisibile avvocato Escobar, anche se lo meritasse fatichiamo a comprendere la situazione. Del resto vedere Jeff nelle mani di una teenager vendicativa (e forse poco realisticamente quasi invulnerabile) scatena un meccanismo di tensione raramente visto su schermo: basterà a fare un buon thriller? La risposta è, almeno in questa fase, che basta e avanza.

    Non c’è dubbio, poi, che molto della tensione psicologica vada a svilupparsi quando la protagonista rigira come un guanto la casa del fotografo, alla ricerca di prove della pedofilia di cui lo accusa. Prove che potrebbero esistere o meno: il messaggio di fondo è anche che ognuno possiede i propri scheletri nell’armadio, e la violazione della privacy di chiunque potrebbe portare a risultati inquietanti. Aspetto non banale che in pochi, in fase di analisi e critica, hanno osservato, a mio avviso.

    Hayley appare come un demone implacabile, scatenatore di una hybris (nel senso letterale di far “pagare le conseguenze del passato“), una vendetta feroce che, proprio come nella tradizione dell’antica tragedia greca, colpirà senza pietà e a prescindere. La cosa che potrebbe far sollevare qualche sopracciglio, del resto, è il sospetto che la vendicatrice anti-pedofila potrebbe essere una mitomane, che sta mortificando l’altro senza che lo stesso sia l’autentico responsabile. Non è chiaro, non sembrerebbe essere così, e forse poco importa: Hard Candy, per manifesto, si erge al di sopra di qualsiasi morale – e lo testimonia un finale tutt’altro che liberatorio. Questo, per inciso, non implica che non possa essere anche pretenzioso – o addirittura semplicistico – nel trattare un tema così delicato, cavalcando generalizzazioni magari improprie, troppo di “pancia” o biased.

    Hayley, in fondo, ammette di essere un “simbolo” di tutte le vittime della pedofilia, il che è una rivelazione ridondante: ci sta l’allegoria, ma ci si chiede anche perchè renderla didascalica. La narrazione A tale riguardo condivido e prendo in prestito la frase usata da Tim Brayton – in una recensione sarcastica,molto più critica della mia – dal suo sito AlternateEnding: “se un personaggio dovesse formalizzare in assoluto l’idea di rappresentare un gruppo o un classe, semplicemente non potrebbe farlo“. Il che è vero, per quanto se ne possa discutere, ed è probabilmente un limite narrativo che il film prova a sviscerare.

    Slade sembra comunque a proprio agio nell’impostare in questi termini la sua storia, che – al netto di almeno sei colpi di scena clamorosi – forma un buon film, un thriller sopra la media che vive, pero’, di un imprevedibilità diluita, spesso fine a se stessa. Ovviamente sarà importante vedere il film fino alla fine prima di esprimere qualsiasi giudizio, anche perché ribaltamenti di fronte saranno numerosi e, un po’ come nella tradizione argentiana o hitchcockiana, basta un dettaglio per ribaltare tutto. Ma resta l’idea che il bersaglio sia stato, in qualche modo, poco messo a fuoco.

    Dopo innumerevoli twist nella trama si arriva, dopo quasi due ore di film, ad un finale simbolico e angosciante – anche se pare ne esista uno più aperto ed ambiguo, ci racconta il regista nel commento audio. Hard candy è questo, un po’ come un film analogo (e altrettanto crudo) uscito l’anno prima – Mysterious Skin, per la verità forse tutt’altra storia. Blindato nella sua narrazione soffocante e minimale, caratterizzato da dialoghi molto curati e da interpretazioni di livello, minato imprevedibilmente da un’idea che non si capisce bene dove volesse arrivare. Ma in fondo, forse, va bene lo stesso.

    Hard Candy non è mai uscito in Italia (dato il tema trattato, non c’è troppo da meravigliarsene), per cui non esistono versioni doppiate, ma soltanto sottotitolate. Immagine di copertina di Bart ryker, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=1906180

  • Session 9 è il film di Schrödinger per eccellenza: piace e non piace al tempo stesso

    Session 9 è il film di Schrödinger per eccellenza: piace e non piace al tempo stesso

    Session 9″ sulla carta dovrebbe essere un thriller di buona fattura, un low-budget girato interamente in digitale, con diversi richiami a Shining – e alle atmosfere lugubri ed ambigue che caratterizzano buona parte della produzione di questo tipo. Probabilmente il condizionale è d’obbligo, e lo scrivo dopo aver appena finito di rivedere il film: poco da fare, manca qualcosa, che non è il mordente o simili – piuttosto la sensazione che provo è quella di essermi perso un maledetto dettaglio importante. Lo vidi quando uscì, e ricordo bene che mi fece un’impressione piuttosto nebulosa, anche se mi ero ripromesso di giudicarlo nuovamente (cosa che ho fatto stasera). Di fatto, la mia valutazione non è cambiata di una virgola.

    Un gruppo di operai – ci racconta la trama – si reca a ristrutturare con urgenza un vecchio edificio sede di un manicomio, nel quale iniziano a verificarsi strani avvenimenti, Uno dei manovali trova poi i nastri di un magnetofono: classificati come Session 1, 2, … e si tratta dei resoconti delle sedute psichiatriche di una ragazzina rinchiusa all’interno della struttura, contenenti delle inquietanti rivelazioni.

    Il rapporto ambiguo tra i due responsabili-capi del gruppo, di fatto, è la chiave di volta per la risoluzione della trama, che gioca abilmente su paranoie, paure ed il senso di smarrimento che un grosso edificio abbandonato naturalmente evoca. Il problema che ho rilevato, di fatto, è che tale sottostoria psicologica è a mio parere scollegata dal resto; se preferite, se esiste un collegamento è alquanto indigesto (una forzatura).

    Di fatto, rileggendo la sinossi, ho scoperto che ciò che ho trovato un po’ “campato in aria” è legato ad un preciso dettaglio sovrannaturale (il genius loci: per guardare horror e goderteli, purtroppo o per fortuna, devi essere un minimo colto – sennò non puoi manco criticare, a volte). Dal mio punto di vista roba del genere negli horror è un po’ fuori luogo, a meno che (unica eccezione) non sia inserito in un contesto gotico (e non è questo il caso): è uno dei motivi, peraltro, per cui sono arrivato a ritenere sopravvalutato addirittura “L’esorcista” (un giorno scriverò una recensione su questo film, a proposito: prima di allora sappiate che lo considero orrendamente sopravvalutato e troppo incentrato sulla zuppa di piselli, senza contare che a confronto ci sono film analoghi molto, molto migliori).

    Nonostante lo script di “Session 9” sia piuttosto avvincente, e nonostante la presenza di David “CSI” Caruso, ci troviamo di fronte ad un film che sostanzialmente lascia il tempo che trova: esiste un buon livello di tensione ed un’apparente linearità dell’intreccio, ma ad un certo punto ho perso il filo, e quando ti distrai da spettatore è solitamente un “cattivo segno”. Tuttavia non mi sento di definirlo un “brutto film”, semmai lo lascio confinato nel “non classificato” di cui sopra – e, per una volta, chi lo vedrà potrà giudicare da sè.

  • The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    The Den: chat-roulette e serial killer dal dark web

    Elizabeth è una studentessa universitaria incaricata di studiare un campione di persone che interagiscono con una chat-roulette, ovvero una videochat ad interlocutori casuali (The Den potrebbe tradursi come “il covo”); dopo aver incontrato persone di ogni genere, assiste ad un omicidio in diretta.

    In breve. Un serial killer che si annida nel dark web: è questa l’idea alla base di uno slasher modernizzato, “ambientato” quasi interamente in una chat. Può sembrare banalotto, ma non lo è.

    La caratteristica principale di The Den è che la maggiorparte del film – non tutto – viene ripreso dall’interno di una chat, quindi mediante schermi di Mac e di smartphone. Siamo di fronte ad uno degli archetipi meglio realizzati di quella che a breve sarebbe diventata una tendenza – gli horror “virtualizzati” – da Unfriended (che è simile in tanti aspetti) fino ad un precedente altrettanto interessante: l’ingiustamente sottovalutato Smiley (che condivide la presenza di Melanie Papalia come attrice).

    Ogni cinefilo che si rispetti diffiderà per forza di cose da un film girato in webcam, ma questo soprattutto per una forma di legittimo “purismo” (qui parzialmente ingiustificato: i mezzi visivi non latitano, e non c’è monotonia), ma soprattutto memore del precedente argentiano de “Il cartaio“, storia di un killer su internet con videopoker non troppo amato dai fan, quanto immensamente premonitore del filone (è un film del 2004, un anno in cui neanche esistevano cam in HD).

    Se da un lato la visione di un omicidio in webcam sembra poveristica quanto improbabile o voyeuristica (la protagonista assiste ad uno snuff in diretta, ed è questo che farà degenerare la storia), è la tecnologia ad essere la vera protagonista: fin dall’inizio, infatti, finiamo per curiosare via computer tra i vari momenti privati della giornata di Elizabeth, anche quando non sta facendo alcuna ricerca – testandone così umore, sentimenti e legami con l’esterno.

    Tutte cose che non vedremmo in questa veste con una telecamera ordinaria, e che viene affidata a situazioni realistiche, forse al limite del semplicistico quanto “appetitose” per lo spettatore, il quale ha la sensazione di spiare davvero nella vita intrigante e nei segreti di una ragazza. Del resto se la parvenza vuole essere quella di real life, o esperimento di vita vissuta che chiunque potrebbe vivere (le chat roulette esistono sul serio, e sono un’esperienza dai tratti effettivamente inquietanti), resta una considerazione di fondo sul fatto che ad Elizabeth piaccia davvero scoprire il “lato oscuro” delle stesse, al di là del fatto che ci sia una borsa di studio a finanziarla. Ed il pubblico è messo davanti a questa situazione prima di qualsiasi altra considerazione, e prima della rivelazione – totalmente realistica – di ciò che si nasconde dietro i delitti. The Den è soltanto un software, un mezzo che porta (non è chiaro se incidentalmente o volutamente) alla morte ed alla sua osservazione morbosa.

    L’aspetto hacker, in questo dilagare di tecnologia quotidiana, è quello che finisce per spaventare sul serio col trascorrere dei fotogrammi: una tecnologia che sembra ribellarsi al controllo della protagonista, non solo riattivandosi autonomamente – ma anche registrandola a sua insaputa ed inviando i filmati via email. Se tutto questo poteva sembrare fantascientifico anni fa, con lo sviluppo tecnologico di oggi sappiamo che tutto ciò è non solo possibile, ma già successo: si pensi ai software RAT, ai ricatti online con video intimi, ai software di controllo remoto o alle attività di spionaggio di chi produce di malware.

    La stessa protagonista, del resto, finisce vittima di un clickjacking, seppur ciò in realtà possa avvenire in casistiche circoscritte (per fortuna). A questo punto, in ottica modernizzatrice del genere, qualsiasi zombi o irrealistico villain dovrebbe farsi da parte in favore di questo orrore (quantomeno filosoficamente) cyberpunk, calato in una fantascienza che viviamo e che ci illude con il mito più difficile da combattere: quello dell’esistenza di un “mondo virtuale” (vedi la polizia che non da’ importanza alle denunce di Elizabeth), quando si tratta più propriamente di un mondo interconnesso.

    Del resto se si pensa allo sviluppo della trama, c’è qualche feeling che potrebbe richiamare Hostel, un film in parte degradato da un’etichetta semplicistica (torture porn), ed a cui il regista sembra essersi ispirato per più di un aspetto. Forse è proprio quest’ultimo, un virtuale che diventa realtà, a rendere il film nettamente superiore a qualsiasi altro epigono del virtual horror.

    Da un punto di vista di collocazione di genere, The Den si colloca a pieno diritto nello slasher modernizzato, dove le componenti di base sono quelle di sempre (il college, il killer di ragazzi), giusto posizionate in una moderna videochat. Il richiamo al sottogenere inventato – tra gli altri – da Non aprite quella porta sembra adeguato, del resto, se si pensa ad un killer dalle fattezze vagamente simili a Leatherface. Al tempo stesso, Donohue insiste parecchio sull’aspetto “guardone” della trama non a sproposito, utilizzando telecamere non convenzionali (a circuito chiuso, portatili, di uno smartphone, di un PC) come unico “occhio” per conoscere la realtà, conferendo peraltro un vantaggio enorme al killer, che si annida tra esse e che agisce come un “Grande Fratello” (vede tutto senza essere quasi mai visto).

    Questo lo porta registicamente ad abusarne anche quando non sarebbe necessario, ma tutto sommato riesce a risolvere in modo eccellente quasi ogni scena, fino ad un finale in crescendo e ad una discreta sorpresa conclusiva. Sarebbe bello pensare di aver di fronte una vera, nuova generazione di horror che parta da qui, ma Zachary Donohue è al suo primo – e ad oggi unico – lungometraggio: meglio andarci cauti prima di parlare di un vero e proprio cult, ma sicuramente si tratta di un ottimo horror passato inosservato ai più, di cui probabilmente riconosceremo i meriti solo tra qualche tempo.