RIDERE_ (65 articoli)

Recensioni dei migliori film commedia usciti al cinema e per il mercato home video.

  • Fracchia la belva umana è uno dei masterpiece di Neri Parenti

    Fracchia la belva umana è uno dei masterpiece di Neri Parenti

    Il più grande criminale (La belva umana) ed il più mediocre impiegato (Fracchia) si ritrovano ad essere perfettamente somiglianti…

    In breve. Probabilmente uno dei film più divertenti e meglio riusciti del periodo, con una trama insolitamente avvicente ed un finale da incorniciare. Cult, e non per modo di dire.

    Molti cinefili meno esperti potrebbero non sapere che i personaggi dell’impiegato umile e sottomesso interpretati da Paolo Villaggio erano due: Fantozzi da un lato, e Giandomenico Fracchia dall’altro. Simili ma non uguali, per quanto questa differenza sia effettivamente rimarcata in modo più chiaro, forse, leggendo la trilogia letteraria di Fantozzi. Giandomenico Fracchia compare a Quelli della domenica, per la prima volta, nel 1968, e quello in questione è uno dei film che lo ha consacrato nell’immaginario pop collettivo.

    Diretto dal Neri Parenti re della commedia all’italiana, e scritto in collaborazione con Paolo Villaggio, Piero De Bernardi, Leonardo Benvenuti e Giovanni Manganelli, Fracchia la belva umana viene ricordato per la doppia parte di Paolo Villaggio (il cinico Belva Umana versus il sottomesso ed incapace Giandomenico Fracchia), per la presenza di Lino Banfi (il commissario Auricchio, coi sui irresistibili e leggendari siparietti: IMDB riporta che la sequenza canterina “Benvenuti a sti frocioni” venne completamente improvvisata dall’attore, che riuscì a sorprendere sia il chitarrista che il resto del cast) e di Anna Mazzamauro (qui la Signorina Corvino, un personaggio molto simile alla Silvani nota nei vari Fantozzi).

    Meriterebbero menzione, in questo contesto, anche Gigi Reder (nei panni di una donna, ovvero l’apprensiva madre della Belva ed il suo stridulo tormentone da mamma del sud ontologicamente apprensiva: figghiuuu-figghiuuu!), Massimo Boldi (poco prima che diventasse famoso, e che qui interpreta la micro-parte del criminale Pera) e pure lo spesso dimenticato Francesco Salvi (il caratterizzatissimo Neuro), quest’ultimo in particolare interprete di un apparente tributo parodistico-giocoso ai cattivi della exploitation in voga all’epoca (per certi aspetti vorrebbe parodiare Trentadue di Cani Arrabbiati e Krug Stillo de L’ultima casa a sinistra). Tutti piccoli caratteristi che, come da tradizione dell’epoca, uniscono le forze e contribuiscono a formare una delle commedie più riuscite di quegli anni, assieme all’immortale Vieni avanti cretino e pochissimi altri. Troppe furono le commedie italiane anni 80 evitabili e logore, ma Fracchia certamente non rientra in alcun modo in quella classificazione, tanto che la stessa etichetta di b-movie, per certi aspetti, gli sta addirittura stretta.

    Due parole sull’origine del film, che forse in pochi conoscono: se il personaggio di Fracchia è stato inventato da Villaggio nei suoi romanzi (e spesso affiancato e a volte confuso con quello di Fantozzi), il soggetto originale va cercato nel racconto Jail Breaker di W.R. Burnett ( 1932) e nel film di John Ford noto in Italia come Tutta la città ne parla (1935). Da qui è presa l’idea di una persona comune che si ritrovi ad essere il sosia di un feroce criminale, con quest’ultimo che inizia a perseguitarlo per i propri fini: ed in questi termini Fracchia la belva umana andrebbe considerato un remake vero e proprio.

    C’è tutto, in questo film: ci sono gag che sarebbero diventate leggendarie (ad esempio il divano del direttore sul quale è impossibile, per Fracchia, sedersi senza sdraiarsi o stare molto scomodo: era Fracchia, e non Fantozzi come erroneamente riportato dalla stampa, ad occupare il divano fantozziano, che sarebbe più corretto chiamare “fracchiano”), c’è la prima sequenza del footing che finisce disastrosamente (girata a Villa Borghese a Roma, location predefinita del film) in cui il povero Fracchia si caratterizza nella propria frustrazione ed incapacità, ci sono i siparietti all’Osteria da Cencio, ristorante di Trastevere diventato noto anche grazie a questo film (e qui chiamato “Da Sergio e Bruno – Gli Incivili“), ci sono decine di dettagli, di battute salaci e di comicità slapstick diluita, molto probabilmente, nei ricordi televisivi di una generazione o due di attuali trentacinque-quarantenni che sono (più o meno consciamente) cresciute con film di questo genere.

    Rivisto oggi, l’effetto di Fracchia è suggestivo: per quanto molte trovate si confondano con altri Fantozzi, e per quanto Villaggio sia riuscito a differenziare Fracchia da Fantozzi stesso (proponendosi peraltro in una doppia parte davvero magistrale), rimane il rimpianto di uno degli ultimi esempi di cinema comico ottantiano davvero genuino, originale e divertente: qualche anno dopo, per inciso, non sarebbe più stato così. Merita menzione, infine, il finale del film: grazie ad una polizia tipicamente litigiosa e pasticciona (un must tra gli stereotipi dell’epoca, anche qui) i due personaggi verranno continuamente confusi, ed il lasciapassare si rivelerà una vera e propria condanna “infernale” per il povero protagonista.

  • Supervixens: la summa dei film Russ Meyer

    Supervixens: la summa dei film Russ Meyer

    Clint è il prototipo di “bravo ragazzo” onesto e lavoratore, fidanzato con la splendida SuperAngelica: una formosa ragazza tanto focosa quanto ferocemente possessiva. Un litigio particolarmente pesante tra i due darà inizio ad una pazzesca avventura erotica del protagonista…

    In due parole. “The sum total of all my films“, la summa erotica dell’arte meyeriana, priva dei fronzoli dei precedenti lavori ed incentrata su due aspetti: omaggiare la bellezza femminile come valore assoluto, e deridere la remissività del maschio represso medio. Il risultato finale, diluito in due ore che difficilmente riusciranno ad annoiare, sarà un vero spasso.

    Lanciato da una tagline all’insegna dell’eccesso (“Troppo… per un solo film“) “Supervixens” di Russ Mayer è probabilmente uno dei migliori film del famoso cineasta: un artista che seppe conferire un minimo di rilievo artistico ad un genere, quello erotico-pornografico, che tradizionalmente è ritenuto dalla “critica seria” di scarsa ampiezza e valore. Mayer sovverte questa convinzione mantenendo un tono scanzonato ed auto-ironico, per certe trovate strizzando l’occhio a certe trovate alla Monty Python, con grande stile.

    E come se non bastasse, realizza tutto questo mediante uno script costruito in circa una settimana, concretizzando una fotografia fuori dagli standard e – ci mancherebbe altro – sempre da vero amante delle più prosperose curve femminili. Tanto che, in questo film, delizia il pubblico con ben sei bellezze maggiorate: la mora Uschi Digard della locandina, Christy Hartburg, Colleen Brennan, Deborah McGuire, Haji – già vista in Motorpsycho e Faster pussycat… kill, kill! – e la splendida Shari Eubank, che interpreta il doppio personaggio SuperAngel / SuperVixen.

    Non c’è il tempo di cercare sottotesti o messaggi subliminali tra le immagini, di fatto, perchè l’intento è “solo” quello di far godere il pubblico, e questo mediante una visione erotizzata, umoristica, movimentata, estremamente allusiva per quanto – rispetto agli standard odierni – praticamente mai esplicita. Se alcune sequenze hanno certamente fanno scuola nel seguito della cinematografia di genere, l’inquadratura di seni giganteschi e  falli sproporzionati di alcuni protagonisti (che probabilmente provocarono il divieto del film ai minorenni) potrebbe ormai essere parte di un “ordinario” demenziale-erotico di oggi, ed in questo Meyer mostra di essere stato un fiero precursore: un po’ come il collega italiano Joe D’Amato, il quale – a prescindere da fenomeni di successivo cultismo dei suoi film – ha semplicemente saputo dare al pubblico quello che desiderava.

    Sfondando le porte delle ordinarie convenzioni, e liberandosi di qualsiasi sciocca inibizione (siamo pur sempre nella metà degli anni 70), Meyer immagina la storia del timido Clint Ramsey, benzinaio letteralmente sottomesso alle volontà di SuperAngelica, con la quale litiga perennemente per via della gelosia di lei. Dopo uno scontro particolarmente violento – la donna gli distrugge la macchina a colpi di ascia in una sequenza che rappresenta una sorta di proto-pulp – inizia un lungo peregrinare che fa diventare “Supervixens” un road movie erotico, una sequenza di avventure porterà il protagonista, dopo mille peripezie, verso la sua vera donna ideale (SuperVixen, neanche a dirlo).

    Tormentato fino al parossismo da splendide fanciulle che sembrano non aspettare altro che saltargli addosso (Meyer nel farlo, peraltro, abolisce l’idea di mercificazione del sesso, evidenziandone l’aspetto sano, di puro divertimento: in questo effettua a mio parere uno smacco considerevole verso qualsiasi possibile accusa di sessismo), l’operaio Clint vivrà all’interno di una specie di sogno/incubo ad alta densità erotica, caratterizzato dall’esaltazione di corpi femminili in bella vista e, ovviamente, da rappresentazioni grottesche e decisamente acrobatiche dell’atto sessuale (ad esempio la copula sulla cima di una montagna).

    Il linguaggio scelto, del resto, riesce a rendere “Supervixens” diverso da un porno vero e proprio, nel quale invece il tutto è focalizzato in modo totalitario sull’aspetto sessuale e sui primi piani, con tanti saluti alla trama ed al ritmo del film stesso. Il sesso, se ci fosse bisogno di scriverlo, per quanto assuma una valenza fondamentale non è certamente l’unico elemento di spicco, visto che sussistono elementi di pura explotation (l’omicidio nella vasca da bagno, crudele ed improvviso, sembra in parte precursore degli omicidi della saga ottantiana Venerdì 13).

    Tuttavia il tono cartoonesco della pellicola, ricca di momenti realmente spassosi nei quali la risata è quasi sempre dovuta ad una presenza femminile dominante, contribuisce a rendere il film gradevole, interessante e mai noioso. La cosa è talmente evidente, nonostante qualche inevitabile istante di calo, che non ci si capacita di come un film di due ore possa non provocare questo effetto in nessuna sequenza. Il quadro che ne risulta, per quanto volutamente grottesco ed estremizzato, non è in fondo troppo distante da alcune realtà che conosciamo, anche se naturalmente sarà difficile che lo si possa ammettere e ci sarà qualcuno che parlerà per forza di esagerazioni, quando non di sessismo.

    Del resto il tono gioioso che accompagna l’intero film serve a sdrammatizzare il tutto, e a rendere la visione di “Supervixens” indispensabile per conoscere un esempio di cinema “leggero” – nel senso di poco impegnativo – e, al tempo stesso, non banale.

    DVD di SuperVIXENS + Ultra-Vixens su Amazon

  • Il grande capo: una satira pungente sulle aziende di informatica (L. von Trier, 2006)

    Il grande capo: una satira pungente sulle aziende di informatica (L. von Trier, 2006)

    In crisi finanziaria con la società per cui lavora, Ravn assolda un attore per interpretare il ruolo di un fantomatico “super-capo”, e rimettere ordine nelle relazioni tra i dipendenti…

    In breve. Un Von Trier – diverso dal solito – abbandona per un attimo i toni lugubri e seriosi, e produce una commedia satirica sui paradossi di un’azienda informatica. Lavoro scorrevole e di buon livello, con vari siparietti memorabili.

    Quello che si nota da subito in questa commedia di von Trier è il tono sublimamente regolato: una via di mezzo tra una commedia americana arguta ed un documentario-verità dai toni frammentari. Non era facile trovare un equilibrio in questi fattori, ma il regista sembra esserci riuscito appieno.

    Guardando Il grande capo si vedono soggetti fuori campo, inquadrati male o dal viso “tagliato”. Dietro ciò esiste una singola scelta registica inventata dal regista quale Automavision: in pratica si piazza la macchina da presa normalmente, e in post-produzione un algoritmo stabilisce un’impostazione casuale per riprese e suono. Questo metodo si riflette sia sul sound del film che sul crop delle immagini, che appariranno più volte “riprese in modo strano” contribuendo a dare al lavoro un che di “vissuto” o realistico al lavoro, al limite del documentaristico, senza mai scadere nel fine a se stesso per via dell’ottimo ritmo che la commedia fine dall’inizio.

    La storia de Il grande capo vuole raccontare con registri ironici le vicende di un individuo che si trova in un contesto totalmente estraneo alla sua natura, e che farà di tutto per nascondere la propria identità, saggiando le proprie capacità di improvvisazione. L’ispirazione fu tratta dai rapporti tra il regista ed il suo ex produttore Vibeke Vindeloev, che colpì von Trier perchè dotato di particolare savoir-faire nel comunicare coi propri attori. Nell’intreccio del film, un attore teatrale – l’egocentrismo all’ennesima potenza, secondo la rappresentazione satirica del regista – viene pagato dal boss di un’azienda di informatica (benvoluto da tutti quanto occultamente affarista) per fingersi a sua volta il “grande capo”. Il tutto, se da un lato costruirà dei rapporti di necessità in bilico tra attrazione ed ostilità, servirà nel frattempo a Ravn a svincolarsi dalle proprie responsabilità; e se all’inizio l’attore si troverà impacciato con gergo, ritmi e modus operandi aziendali, presto inizierà a calarsi nella parte, esercitando su tuti il fascino magnetico del big boss, fino ad arrivare alle più imprevedibili conseguenze.

    Il grande capo” è una commedia intelligente, divertente e godibile nel rappresentare nevrosi ed ansie dei personaggi: non c’è tempo e modo per analisi ed introspezioni psicologiche perchè, ricorda il regista, la cosa essenziale è godersi lo spettacolo, ed uscire dal cinema con la “coscienza a posto”. Una parentesi di livello, e tutt’altro che fine a se stessa, per un regista senza dubbio più funzionale a registri differenti, ma che si fa apprezzare lo stesso nel marasma di commedie leggere in circolazione (quelle che divertono pure, magari, ma che difficilmente sono originali e genuinamente spassose come questa).

    Il divieto ai minori di 14 anni, di fatto, sembra più figlia di un preconcetto su von Trier che altro: il motivo, di fatto, pare essere legato all’unica scena di sesso che si vede nel film, peraltro neanche esplicita – quanto apertamente grottesca.

  • Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    Studio 666: l’horror iconico (ed ironico) per soli metallari

    I FOO FIGHTERS si trasferiscono in una villa di Encino per provare a registrare il loro decimo album: la mancanza di ispirazione si tramuterà in una storia macabra dai toni splatter.

    Arriva in Italia il 23 giugno 2022 (e resta nelle sale fino al 29) il nuovo film scritto da Dave Grohl (Nirvana, Foo Fighters), Studio 666: un horror splatter dai toni ironici che racconta in chiave autobiografica la registrazione dell’album . Girato nel periodo più lungo della pandemia di Covid-19 per compensare alla mancanza di un tour, è un film dai toni celebrativi e autoironici pensato e concepito per i fan della band e per chiunque conosca la carriera dell’attivissimo musicista. Sebbene con diversi spunti riusciti, si lascia dimenticare appena qualche istante dopo l’uscita dalla sala, dando la sensazione di essere stato un intenso videoclip dell’orrore, o poco più.

    Abbiamo di fronte una comedy horror modello The babysitter, questa almeno è la sensazione che si avverte dalle prime sequenze, costellate di cameo che sembrano voler alleggerire il carico da horror serioso che, in modo nemmeno troppo velato, Studio 666 vorrebbe assumere in seguito. Il problema principale del film risiede proprio in questa ambivalenza di fondo: da un lato è un horror demenziale come miriadi ne sono usciti, dall’altro sembra voler diventare il racconto dei tormenti interiori di Grohl (cosa che ci poteva stare, ed avrebbe forse sorpreso più in positivo se fosse stata mantenuta come linea: una rockstar che medita inconsciamente di uccidere la propria band non era malvagia, come idea, tanto più se girata modello primo Peter Jackson). Di fatto, Studio 666  degenera nello splatter horror fine a se stesso, un po’ come da media delle produzioni USA un po’ modello Troma, con ritmi incalzanti, dialoghi essenziali, gore a non finire, qualche sprazzo surreale modello Nightmare ma soprattutto dimenticando per strada quello che stava raccontando.

    Un film in cui, in altri termini, le esagerazioni sono all’ordine del giorno e prefigurato il must, la necessità; per quanto i mezzi visuali siano superiori alla media, durante la visione ci si sente più che altro barcamenati da una narrazione incerta, difficile da decodificare. Si guarda il film, si ride o si sorride o si resta indifferenti (dipende dai casi), e non si è mai sicuri se sia un horror o una commedia, se il tono sia introspettivo o retrospettivo, se sia uno scherzo o se si faccia sul serio. Studio 666 è tutt’altro che noioso, per la verità, anzi vive di momenti autenticamente divertenti o intensi; tuttavia non assume mai un feeling chiaro, sembra dilatato all’infinito per quanto racconti una storia horror già vista mille volte (il che diventa l’ultimo dei problemi, ovviamente). Se non altro vedere i Foo Fighters suonare un pezzo doom di quasi un’ora, quasi tipo Sunn O))), rimane al netto di tutto un’esperienza suggestiva per qualsiasi fan del genere (e anche qui, solo per lui).

    Il tutto per quanto sia girato in maniera impeccabile, da horror vecchia scuola, di quelli fatti bene-bene: la primissima sequenza lo dimostra, così come i vari omicidi con le pugnalate modello Dario Argento, i demoni dagli occhi rossi alla Lamberto Bava(o anche The fog), le reminiscenze inequivocabili di Sam Raimi, la citazione de L’esorcista e i richiami al John Carpenter anni 80 e 90, regista che firma assieme al figlio Cody la colonna sonora del film. Anche i Foo Fighters come interpreti di se stessi sono ben caratterizzati, ma latita un po’ troppo il piano narrativo per poter apprezzare appieno l’idea.

    Probabilmente ha ragione Peter Bradshaw sul Guardian a scrivere che il film conferma una certa tendenza della horror comedy nel non saper essere nè spaventosa nè propriamente divertente, per quanto si lasci un po’ prendere la mano dalla critica definendo addirittura “sconcertante” che una commedia (o presunta tale) prenda ispirazione da fatti violenti avvenuti negli anni 90 (è plausibile che nel dirlo ritenga reale l’assunto della band maledetta, il che immagino farebbe molto ridere Grohl e il regista). In realtà che si crei una urban legend o un dubbio sulla realtà dei fatti raccontati fa parte delle ordinarie dinamiche degli horror moderni “fuori dalle righe”, almeno dai tempi di Cannibal Holocaust, ma questo – più che altro – è mera ordinarietà da un punto di vista filologico, e vale per tutti gli horror seriosi o finto-snuff, non certo per un film che, tra le altre cose, strizza l’occhio a lavori come Tenaciuos D di Liam Lynch (pur senza le stesse musiche spettacolari).

    È stato sicuramente divertente per la band auto-interpretarsi o immaginarsi calati all’interno di una trama horror anni ottanta che più topica non si potrebbe, ma il dubbio di fondo è che sia un film più divertito che divertente, che il modo narrativo non sia troppo intellegibile per il pubblico a cui è rivolto il film, che non è affatto scontato (specialmente negli ultimi anni) essere cultore dei cult del genere. Ed il rischio è quello di non cogliere, annoiarsi, rimanere perplessi, senza contare che tante sequenze risultano fiacche se non sai con precisione che quello che interpreta il fonico folgorato è il chitarrista degli Slayer (Kerry King), oppure che la vicina di casa della band è una delle più famose e dissacranti stand up comedian americane (Witney Cummings). Insomma, siamo sempre lì: Studio 666 non ha un’identità chiara e per quanto sia un film divertente (specie da vedere tra metallari) rischia di farsi dimenticare con la stessa frenesia con cui lo si guarda.

    La storia di Grohl, per altri versi è un archetipo horror a tutti gli effetti, che sembra estratto materialmente e con decisione dagli anni 80: la scenaggiatura viene affidata a Jeff Buhler e Rebecca Hughes, per cui il primo contribuisce alle note più horror mentre la seconda alle situazioni umoristiche. La componente splatter tende un po’ a strabordare e, di fatto, oscura quasi del tutto quella ironica, nonostante la presenza  di due interpreti molto popolari della stand up comedian (forse non troppo noti in Italia, ovvero Jeff Garlin e la Cummings). A poco servono gli stessi cameo musicali: Kerry King degli Slayer nella parte di un fonico maldestro, Lionel Ritchie che accusa grottescamente Grohl di plagio durante una scena onirica (forse una delle più riuscite del film), lo stesso John Carpenter (accompagnato dall’attore che ha interpretato la trilogia di video più recenti degli Slayer, ovvero Jason Trost e la benda sull’occhio che porta anche nella vita di ogni giorno, un po’ Frigga/Madeleine un po’ “Jena” Snake Plissken) che non poteva che interpretare il fonico incaricato di registrare la musica della band.

    L’unica certezza ed autentica nota positiva del film è la regia di BJ McDonnell, solida, sicura del fatto suo e ricca di omaggi agli horror amati da tutti: La casa, Venerdì 13 e compagnia. La prova attoriale dei Foo Fighters è inaspettatamente convincente, soprattutto quella di Grohl nell’interpretare l’archetipico personaggio kinghiano dalla personalità multipla. Studio 666 è imbevuto di atmosfere horror anni 80 fino all’eccesso, in una misura da risultare quasi stucchevole anche per il fan più sfegatato. Al netto di questo rimane un film gradevole quanto, alla fine dei conti, solo per fan della band e forse nemmeno per tutti, oltre che rivolto a qualsiasi fan del rock con un minimo sindacale di senso dell’umorismo. Con la nota a margine che potrebbe, nonostante le aspettative elevate, restare un po’ deluso dalla visione.

    Il film vede l’ultima partecipazione da attore del batterista Taylor Hawkins, scomparso nel marzo 2022 durante il tour della band a Bogotà.

    Studio 666 potrebbe essere a breve disponibile in streaming su Prime Video, per quanto ad oggi non sia ancora visionabile e l’Italia non rientri tra i paesi in cui c’è. Il disco contiene brani della band maledette (e fictional) DREAM WINDOW, che è stato anche pubblicato come LP completo su Spotify. Studio 666 è anche il nome di un misconosciuto horror indipendente del 2005, firmato dall’attore e produttore Corbin Timbrook, con cui non dovrebbe avere nulla a che fare.

  • Fantozzi: cast, storia, cenni alla regia, produzione, stile, sinossi, curiosità, trailer

    Fantozzi: cast, storia, cenni alla regia, produzione, stile, sinossi, curiosità, trailer

    Titolo: Fantozzi

    Anno di uscita: 1975

    Cast Principale:

    • Paolo Villaggio come Ugo Fantozzi
    • Milena Vukotic come Pina Fantozzi
    • Gigi Reder come Ragionier Filini
    • Anna Mazzamauro come Signora Silvani
    • Plinio Fernando come Geometra Calboni
    • Liù Bosisio come Signora Calboni
    • Renato Scarpa come Mariangela Fantozzi

    Regia: Luciano Salce

    Produzione: Giovanni Bertolucci e Ugo Tucci

    Stile: “Fantozzi” è un film italiano che appartiene al genere della commedia. Il suo stile è caratterizzato dall’umorismo surrealista e dalla satira sociale. Il film prende di mira le dinamiche dell’ufficio e della vita familiare in Italia, presentando il protagonista, Ugo Fantozzi, come un antieroe che affronta una serie di situazioni ridicole e imbarazzanti.

    Sinossi: Il film racconta la storia di Ugo Fantozzi, un impiegato italiano medio che lavora in un ufficio governativo. Fantozzi è costantemente sottoposto a umiliazioni e disavventure nella sua vita lavorativa e familiare. Dal rapporto difficile con il suo capo, il dottor Filini, alle incomprensioni con sua moglie Pina, Fantozzi è costantemente in balia di situazioni comiche e assurde.

    Curiosità:

    • “Fantozzi” è il primo film della popolare serie di film basati sul personaggio di Ugo Fantozzi, interpretato da Paolo Villaggio. La serie ha avuto numerosi sequel.
    • Il personaggio di Fantozzi è diventato un’icona della cultura comica italiana, rappresentando l’antieroe per eccellenza.
    • Il film è stato un grande successo al botteghino italiano e ha contribuito a consolidare la popolarità di Paolo Villaggio come interprete di Fantozzi.