PIANGERE_ (49 articoli)

Recensioni di film da piangere disperatamente (o drammatici che dir si voglia).

  • Requiem for a dream: la tragedia cinematografica per eccellenza

    Requiem for a dream: la tragedia cinematografica per eccellenza

    Una storia di speranze e utopia, trasfigurata nel vissuto di quattro personaggi diversi, tutti accomunati da storie di dipendenza.

    In breve. Convulso e spietato trattato sulle dipendenze in genere, in una delle migliori prove registiche di Aronofsky (Il teorema del delirio): uno di quei film che restano, semplicemente, nella storia.

    Caratteristiche tecniche

    Basato su un romanzo di Hubert Selby Jr del 1978 con lo stesso nome (a quanto pare di difficile reperibilità in Italia), Requiem for a dream è uno di quei film – piacciano o meno allo spettatore – difficili da dimenticare: vero e proprio delirio di immagini, a tratti paragonabile ad un lunghissimo videoclip, inframezzato da primi piani simbolici, quasi da documentario quanto esplicativi di ciò che sta accadendo. In questi termini, e per il suo marcato realismo, riesce a produrre un effetto spaventoso sullo spettatore più di qualsiasi horror, con cui condivide una rappresentazione della realtà totalmente spietata e priva di compromessi. Girato magistralmente e con una tecnica di montaggio fuori dal comune, Requiem for a dream è girato spesso e volentieri come sequenza di frammenti di scene, il che conferisce un senso di spiazzamento allo spettatore senza mai, peraltro, degenerare o abusare della tecnica stessa. In media, IMDB ha conteggiato ben 2000 tagli differenti in un girato medio di un’ora, quando normalmente ne conterrebbe al massimo 700.

    Storia del film

    Se è vero che l’intera storia si basa su un assunto credibile più che altro negli anni ’70 (la superficialità delle cure mediche ed il maltrattamento dei pazienti pare fossero comuni, all’epoca), il film riuscì a shockare anche in tempi moderni, soprattutto perchè non sono presenti indizi che riescano a far capire con certezza la sua esatta collocazione temporale. Il regista stesso, del resto, ha descritto Requiem for a dream come una storia a-temporale, incentrata sulla dipendenza in quanto tale, e sugli effetti in grado di produrre su quattro personaggi diversi: dipendenza da eroina, in apparenza, poi magistralmente estesa e messa a confronto con una qualsiasi altra subordinazione (sia essa teledipendenza, dipendenza dal fumo, mito della bellezza perduta, e – per estensione – ossessione per un sogno). Per Aronofsky può cambiare la causa, in sostanza, ma il concetto di fondo resta lo stesso, tanto da presentare le storie diverse di quattro personaggi – accomunati da un’ambizione che non realizzeranno mai – e parallelizzarle, orientandole improvvisamente (ed in modo shockante per lo spettatore) in una direzione totalmente annientante, nella quale non esiste possibilità di redenzione.

    E questo, si badi bene, anche a costo di generalizzare il concetto tanto da renderlo grottesco, in linea con il fatto che le pillole dimagranti assunte da Sara – in realtà amfetamine a sua insaputa – la rendono fragile e vulnerabile come i tre ragazzi. Al fine di garantire una massima immedesimazione dei personaggi, in effetti il regista impose a Leto ed alla Burstyn di evitare rapporti sessuali e di assumere zucchero per circa un mese, in modo da interpretare ottimamente la mentalità e l’atteggiamento di una vera vittima della dipendenza.

    A testimonianza ulteriore di questo feeling subdolo e non necessariamente legato al mondo della droga (vista come sostanza illecita da procurarsi per strada, quantomeno, e per via del fatto che viene proposto un accostamento significativo con la teledipendenza), la parola “eroina” non viene mai pronunciata nel film. Requiem for a dream non è necessariamente – o almeno, non soltanto – un film che racconta la degenerazione indotta dalla droga, bensì un lavoro molto più ad ampio raggio, diretto peraltro in maniera sublime tanto nelle sequenze più crude (soprattutto sul finale) quanto in quelle surreali (i personaggi televisivi che Sara adora le entrano in casa, e la deridono grottescamente).

    Per queste ragioni è probabilmente uno dei migliori film usciti nel periodo, da reperire senza esitazione ancora oggi.

    Requiem for a dream, dove vederlo?

    Il film è disponibile in streaming su Prime Video.

  • Departures: Yojiro Takita

    Departures: Yojiro Takita

    Un film che ci porta alla scoperta delle antiche cerimonie giapponesi di preparazione dei defunti, il “Nokanshi”

    Una pellicola che ha diviso critica e spettatori in due opposte fazioni. La prima che lo considera un capolavoro cinematografico che tocca il cuore, con tutti gli ingredienti giusti: bellezza, musica, morte e abbandono. E la seconda che lo ritiene sopravvalutato. Se le uniche due certezze nella vita sono la morte e le tasse, allora Departures, di Yojiro Takita, film vincitore dell’Oscar 2008 come miglior pellicola straniera, è una certezza fondamentale, arricchita di profondo e macabro umorismo.

    Al centro della vicenda c’è Daigo (interpretato da Masahiro Motoki) giovane violoncellista costretto a lasciare il suo agognato lavoro in un’orchestra sinfonica di Tokyo, che viene sciolta per mancanza di fondi. Distrutto e deluso ammette, con riluttanza, a sua moglie, Mika (Ryoko Hisosue), di essere sprofondato nei debiti per l’acquisto del suo violoncello. Senza vedere all’orizzonte nessun’altra via d’uscita vende lo strumento, e torna alla sua sonnolenta città natale, nella casa che gli ha lasciato la defunta madre.

    Mika accoglie con gioia questo grande cambiamento nelle loro vite. È affascinata dalle storie e dai ricordi che la vecchia casa contiene. Soprattutto cerca di capire i motivi che si celano dietro all’allontanamento del padre di Daigo, che ha lasciato la famiglia quando lui aveva solo sei anni. Abbandono che lo ha profondamente turbato. Alla ricerca di una nuova carriera, Daigo risponde a un annuncio intitolato “Departures” (partenze), pensando si tratti del settore viaggi – in effetti lo è, ma si riferisce soltanto all’ultimo viaggio! ;-) Al momento del colloquio realizza, invece, che l’annuncio ha un errore di stampa: avrebbe dovuto trattarsi di “The Departed” (defunto).

    Il proprietario della società, Sasaki (Tsutomu Yamazaki – già presente in The Funeral di Juzo Itami), un uomo di poche parole, è un artista maestro del nokanshi”, cerimoniale funebre tipico giapponese. Attratto da un lauto stipendio e costretto dalla necessità, fa buon viso alle difficoltà iniziali e – pur inizialmente inorridito dalla realtà del suo lavoro – decide di accettare. Vergognandosi della sua nuova posizione, lo tiene segreto a moglie ed amici, fino al momento in cui Yamashita (Tetta Sugimoto), uno dei suoi amici d’infanzia, lo scopre e comincia ad evitarlo, stigmatizzandolo come a volerlo declassare ad un livello sociale inferiore. Anche Mika lo umilia e gli chiede di dimettersi perché lo trova “impuro”; vuole che abbia un lavoro “normale“, affermazione alla quale lui risponde “la morte è normale”.

    In questo passaggio è evidente la sostanziale differenza di concezione della morte, tra occidente ed oriente. Se fosse in occidente nessuno ci presterebbe particolare attenzione, e tutto si risolverebbe con una “toccatina” apotropaica e qualche battuta usurata. In Giappone, invece, la cosa ha ben altro senso: il rituale funebre, il legame con i morti, il tessere intorno a loro una specie di seconda vita con la cerimonia del “nokanshi”, è parte integrante e forte di quella cultura (da vedere, per esempio, la bellissima sequenza di Vivere di Kurosawa).

    Dopo il primo momento di rifiuto e disgusto, quasi una paura di contaminazione che forse ci detta anche l’istinto di sopravvivenza, che vuole allontanare il più possibile il contatto con la morte, Daigo comprenderà non solo l’importanza della compassione, ma anche quanto sia sottile la linea che separa vita e morte, anzi quanto facilmente si possa annullare la divisione per arrivare a capire che sono complementari: due facce della stessa medaglia. Emblematica in tal senso è la scena dei due salmoni che risalgono a fatica il fiume sfidando la corrente contraria, mentre uno, morto, ridiscende. Daigo si domanda il perché di tanto sforzo solo per andare a morire, e l’anziano che gli è accanto risponde che i salmoni vogliono morire laddove sono nati. Ogni cosa finisce dove è iniziata: Daigo diventerà un abile tanato-esteta.

    L’accurato cerimoniale inizia con la pulizia-purificazione del cadavere (senza che chi assiste veda anche un solo lembo di pelle), per prepararlo a iniziare il suo nuovo percorso, e proseguire riportando la bellezza della vita nei volti sfigurati dalla morte: come un ultimo gesto d’amore sia verso i defunti, che così manterranno la loro bellezza per sempre, ma soprattutto per coloro che li avevano amati, che potranno mantenere il ricordo di com’erano in vita i loro cari. Per completare il viaggio alla ricerca di se stesso e dell’armonia a Daigo manca un ultimo passaggio, quello della riconciliazione con il padre che lo aveva abbandonato da piccolo, e contro il quale mantiene il forte rancore di chi si sente rifiutato.

    Tra le scene ricorrenti c’è quella di Daigo bambino che suona il violoncello in riva al fiume, e dello scambio di due sassi tra padre e figlio, con la promessa, poi non mantenuta, che ce ne sarebbe stato uno ogni anno. Il significato di questo scambio di sassi resterà indelebile nella sua memoria, a differenza del volto di suo padre, che pur sforzandosi Daigo non riuscirà a ricordare.

    Ed è qui che appare evidente che Departures è anche un bell’esempio di come possa evolvere il complesso paterno. Questo spiega, a sua moglie mentre le porge un sasso:

    Nell’antichità, quando gli uomini non avevano la scrittura, per comunicare cercavano un sasso la cui forma esprimesse i loro sentimenti e lo inviavano ad un’altra persona.  Chi lo riceveva, dalla sensazione al tatto e dal peso capiva i sentimenti di chi lo aveva inviato. Un sasso liscio, per esempio, per comunicare serenità d’animo e felicità. Uno ruvido e spigoloso trasmetteva preoccupazione per l’altro”.

    Era questo che gli aveva spiegato suo padre: e quel sasso avvolto nello spartito e conservato con il violoncello era il sasso parlante che lui gli aveva dato.

    Daigo è arrabbiato: “Il fatto era che ci saremmo scambiati un sasso parlante ogni anno, alla fine, solo quella volta. Che idiota!”. Mentre ascolta la musica preferita del padre ha quel sasso tra le mani, ci giocherella, non riesce a staccarsene. L’energia è tutta lì, sia per odiare, ma anche per una specie di speciale attrazione che lo fa stare lì, su questa sua parte non risolta. “Mia madre mi ha allevato completamente da sola” dice Daigo. “Mio padre non è altro che un verme. Gestiva un piccolo caffè, ma poi è fuggito con la cameriera ed è scomparso: un padre inesistente.” Alla domanda “chissà cosa farà ora” lui risponde: “sarà già morto da tanto tempo” – “Se tu lo rincontrassi?” – “Lo picchierei”. Daigo racconta la sua ferita, ed i suoi commenti sul padre sono carichi di rabbia. La signora del bagno pubblico, vecchia amica di sua madre, confida alla moglie di Daigo:”Quando i suoi si sono separati, davanti alla sua mamma lui non ha mai pianto, mai, neanche una volta. Ma quando veniva qua ed era solo, piangeva, vedevo le sue spalle ossute scuotersi per i singhiozzi.

    Un dolore vissuto da solo, non condiviso, che ha scavato nel profondo e si è incistato chissà dove. Una ferita alimentata negli anni non solo dalla perdita del padre, ma anche dal dolore vissuto dalla madre. È tutto fermo lì. Fino al momento dell’incontro con il padre defunto. Quello che all’inizio era una negazione, diventa una possibilità. Arrivato a cospetto del cadavere di suo padre, un pescatore gli rivela aspetti di quell’uomo a lui sconosciuto. Un uomo che è arrivato da solo, ed è sempre stato solo.

    Non so da dove venisse. Era comparso in città un giorno. Era solo. Qua al porto si è sempre dato un gran da fare… era taciturno… era difficile strappargli una parola.

    Daigo si interroga:

    Che significato avrà mai avuto la vita di quest’uomo? Ha vissuto per più di settant’anni, e quello che lascia è una scatola di cartone”.

    All’arrivo degli addetti delle pompe funebri, che approcciano il defunto con i loro modi frettolosi e irrispettosi, si infastidisce e li ferma. Decide di preparare lui la salma.

    E qui l’incontro.

    Quei gesti di accudimento lo portano a scoprire, che suo padre è morto stringendo tra le mani il sasso che lui, bambino, gli aveva dato tanti anni prima. E qui si sciolgono tutte quelle emozioni rimaste congelate per anni, scendono le lacrime, cautamente, con pudore, Daigo finalmente sente il dolore di tutto quello che è mancato, a lui e a quest’uomo che ha appena incontrato. Pian piano il volto del padre si ricompone anche nel suo ricordo. Adesso che ha rincontrato suo padre, potrà anche lui essere padre.

    Questa pellicola, è innegabile, ha una sua originalità e una gradevolezza che viene da una piacevole mistura di umorismo e malinconia, soprattutto nelle prime scene. Nei primi piani del viso di Daigo, nelle sue smorfie, nei suoi continui spiazzamenti rispetto agli eventi della vita, nella ricostruzione puntuale del rito del “nokanshi”, nei tipici paesaggi nipponici (ciliegi fioriti che contrastano cime innevate, e l’immancabile monte Fuji).

    Si tratta di un’opera ben diretta, senza dubbio in grado di coinvolgere e commuovere lo spettatore. L’impianto narrativo studiato da Kundo Koyama, autore della sceneggiatura, segue perfettamente i dettami classici di scrittura: il percorso di crescita morale e di maturazione del protagonista procede attraverso un’ininterrotta sequela di ostacoli da superare.

    Unica pecca di questa pellicola: il netto contrasto tra incipit convincente e finale riscattato da un pathos in grado di coinvolgere anche i cuori più pietrificati, e un lungo segmento centrale eccessivamente statico, che inceppa il marchingegno narrativo e poi frana nella lunga digressione musicale che vorrebbe segnalare al pubblico lo scorrere del tempo. Per quanto la componente antropologica e sociale a cui fa riferimento sia intrisa fin nei minimi dettagli di cultura giapponese, Departures potrebbe definirsi un film hollywoodiano, nella sua perfetta parabola umana di caduta e rinascita, nonché di accettazione della propria memoria e della propria storia.

    Qualcuno ha addirittura definito questo film “politicamente scorretto”, perché osa parlare della morte in una società che tenta in ogni modo di allontanarla dall’orizzonte umano. Uno scandalo, in un mondo alla ricerca della ricetta dell’eterna giovinezza. Per questo è stata coraggiosa la scelta dei giurati dell’Academy Awards di premiare Departures con l’Oscar come miglior film straniero, avendo in lizza pellicole importanti come “La classe” (Palma d’oro a Cannes) e “Valzer con Bashir” (Golden globe).

    Coraggiosa anche la decisione di Takita di girare un film in cui la vera protagonista fosse la morte. Takita, regista che non definirei indimenticabile, con questo film sforna la sua creatura migliore, la più compatta ed evocativa. Affronta l’estrema nemica da un punto di vista originale, mettendo sul piatto della bilancia un carico di emozioni con le quali diventa veramente arduo non empatizzare, un perfetto equilibrio di tragedia compassionevole e umorismo grottesco molto ben raffigurato e sapientemente gestito.

    Un film sulla morte che riconcilia con la vita e con il ricordo dei propri cari che non ci sono più. È a loro che va l’ultimo pensiero, con le parole del regista Yojiro Takita:

    “è destino di tutti accompagnare qualcuno, è destino di tutti essere accompagnati”

    Il funerale in Giappone

    Le usanze funebri giapponesi variano molto da regione a regione, anche se alcuni aspetti sono standard in tutto il paese. Il 91% dei funerali giapponesi viene celebrato secondo la tradizione buddista.
 Subito dopo la morte, i parenti inumidiscono le labbra del defunto con acqua. Quando si verifica un decesso, i santuari all’interno delle abitazioni giapponesi vengono chiusi e coperti con carta bianca, per tenere lontani gli spiriti impuri. Talvolta viene posto un pugnale sul petto del defunto per scacciare gli spiriti maligni.

    Vengono posti anche un kimono bianco tradizionale, una fascia bianca con un triangolo al centro, sandali e soldi per pagare il pedaggio attraverso il fiume dei tre inferni, come vuole la tradizione buddista. 
Il corpo viene sistemato davanti all’altare di famiglia, mentre il parente più prossimo veglia accanto ad esso, fino al momento della sepoltura, senza lasciarlo mai da solo. Gli ospiti che giungono alla veglia per offrire le loro condoglianze lasciano una busta speciale avvolta da un nastro bianco e nero, contenente soldi: l’importo varia a seconda del grado di parentela dell’ospite e viene indicato all’esterno della busta, poi si avvicinano al feretro, suonano il campanello dell’altare e pregano.

    Una tavoletta di legno con inciso il nome del defunto viene posta sull’altare o davanti ad esso: si tratta del nome postumo assegnato dal sacerdote. Il nome postumo, o kaimyo, è un nome diverso da quello che la persona ha avuto in vita, e che si suppone aiuti ad evitare che il defunto ritorni ogni volta che viene pronunciato il suo nome. La lunghezza del nome dipende anche dalla durata della vita della persona, o più comunemente, dall’entità della donazione dei parenti al tempio: non è raro che alcuni templi facciano pressione sulle famiglie per l’acquisto di un nome più costoso. Le salme vengono cremate.

    I membri della famiglia assistono mentre la bara procede verso il fuoco e attendono che venga comunicata l’ora per andare a ritirare i resti. La famiglia torna poi a casa facendo un percorso modificato, per evitare che lo spirito del defunto segua la famiglia verso casa. Al momento stabilito, ad ognuno dei membri viene dato un set di bacchette per raccogliere i resti e posizionarli nell’urna. L’addetto di solito indica quali sono i pezzi importanti da raccogliere. Le ossa dei piedi vengono raccolte per prime, per ultime quelle della testa, questo per garantire che il defunto non sia a testa in giù nell’urna.

    Questa operazione viene effettuata contemporaneamente da tutti i membri della famiglia; questa usanza spiega il perché, quando due persone prendono un pezzo di cibo allo stesso tempo con le bacchette, esse tendano a ritrarsi immediatamente, in quanto ciò avviene unicamente per porre i resti di un defunto nell’urna.

    Titolo originale: Okuribito – (おくりびと)


    Traduzione letterale: “Persona che accompagna alla partenza”


    Genere: drammatico, psicologico


    Paese: Giappone


    Durata: 130 minuti


    Anno di uscita: 2008


    Tratto: storia originale, ma liberamente ispirata dal libro “Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician” di Shinmon Aoki

    Regista: Yojiro Takita


    Sceneggiatura: Kundo Koyama


    Musiche: Joe Hisaishi

  • Io la conoscevo bene: il dramma di Antonio Pietrangeli che ha lasciato il segno

    Io la conoscevo bene: il dramma di Antonio Pietrangeli che ha lasciato il segno

    Adriana è una ragazza di provincia con un sogno nel cassetto: fare l’attrice.

    In breve. Un saggio intenso ed indimenticabile sulla società dello spettacolo, in grado di rappresentarne il degrado e l’ipocrisia. Il tutto dal punto di vista di un’ambiziosa quanto sprovveduta Adriana, aspirante attrice.

    Selezionato di recente tra i 100 film italiani da salvare, Io la conoscevo bene pone le basi concettuali di un’intera generazione di registi: un concept lungimirante, cinico e realista che sarebbe stato imitato e ripreso più volte in seguito. La storia è quella di Adriana, avvenente giovane donne nonchè aspirante attrice di provincia, la quale cerca di mantenersi tra mille lavori diversi, facendosi regolarmente sfruttare da individui uno peggio dell’altro, che il suo istinto la porta tragicamente a selezionare con cura. In questo, ovviamente, è evidente come il suo personaggio sia simbolico e, al tempo stesso, realistico, tanto che il film viene spesso annoverato nel filone neo-realista a cui Pietrangeli (padre del cantautore Paolo) viene associato. Un filone, quello della decadenza e delle illusioni della società delle apparente, che avrebbe contaminato in seguito anche l’horror – da Society al nostrano Ubaldo Terzani Horror Show.

    Ambientato in larga parte a Roma (due scene emblematiche sono state girate a Lungotevere Portuense e a Ponte Testaccio), Io la conoscevo bene rappresenta in modo efficace il degrado e la decadenza del mondo dello spettacolo dell’epoca. Un mondo nel quale il talento conta poco o nulla, e si cerca solo l’ennesimo burattino da illudere, umiliare e sfruttare all’osso. In questo, ancor prima del personaggio di Adriana Astarelli (Stefania Sandrelli), si erge la figura di Gigi Baggini (Ugo Tognazzi, vincitore anche del Nastro d’Argento quale miglior attore non protagonista nel 1965): un misero lacchè e passacarte dei potenti, disposto a qualsiasi cosa pur di lavorare (“ti faccio pure da autista!“), ridotto addirittura a buffone di corte dall’attore che aveva, a suo tempo, lanciato (di cui conosciamo solo il nome, Roberto, e che è stato interpretato da Enrico Maria Salerno).

    Baggini, un po’ come Adriana (per quanto privo di quel minimo pudore che si porta dietro dalla propria educazione di provincia), farebbe qualsiasi cosa pur di restare nel mondo dello spettacolo. Un mondo che, per età avanzata, sembra averlo definitivamente escluso: e per ingraziarsi il potente si mette a ballare in modo instancabile fino quasi a svenire, ed arriva a corteggiare la protagonista – e questo esclusivamente per conto del Roberto che ossequia.

    Per lei ieri e domani non esistono, non vive neanche giorno per giorno perché già questo la costringerebbe a programmi troppo complicati.

    Adriana, dal canto suo, è archetipica della ragazza di provincia ingenua e priva di esperienza, in grado soltanto di passare da un letto all’altro senza mai progredire nella propria carriera, anzi venendo umiliata e sbeffeggiata per la sua origine e scarsa cultura. In questo, privilegia come partner personaggi potenti, infimi quanto degradati, per quanto qualcosa (che non riuscirà a focalizzare) le suggerisca che sia vagamente sbagliato farlo. Nel farlo, vive passivamente dei flirt e storie occasionali che ama procurarsi con personaggi di bassa estrazione sociale (il pugile, il parcheggiatore), da cui pero’ diffida e a sua volta illude senza dare null’altro.

    Il suo dramma di solitudine, sottolineato elegantemente dalle musiche d’epoca, viene vissuto con la stessa inconsapevolezza con cui vive la vita, ed descritta acutamente dal monologo dello scrittore suo amante e conoscente.

    Il fatto è che le va bene tutto, è sempre contenta, non desidera mai niente, non invidia nessuno, è senza curiosità, non si sorprende mai. Le umiliazioni non le sente… Eppure, povera figlia, dico io, gliene capitano tutti i giorni… le scivola tutto addosso senza lasciare traccia, come su certe stoffe impermeabilizzate. Ambizioni zero, morale nessuna, neppure quella dei soldi perché non è nemmeno una puttana.

    Se oggi un ritratto del genere può sembrare scontato, oltre che emblematico di un certo modo di fare casting e di scritturare soubrette ed attrici, all’epoca dovette fare un certo scalpore, nonostante l’elegante capacità e sensibilità di Pietrangeli di scegliere le musiche d’epoca più adatte, e di non mostrare mai nè sesso (ripreso sempre fuori camera, come nella prima sequenza in cui Adriana alza semplicemente il volume della radio), nè l’unica scena realmente violenta (quella dell’imprevedibile finale della storia, ripreso in soggettiva).

    Del resto è potentissima l’essenza del personaggio interpretato dalla Sandrelli: perchè domina e sarebbe in grado di sottomettere qualsiasi uomo, ma non ha realmente il carattere nè la malizia per riuscire a mettere in atto il piano. Un personaggio del genere, come in una tragedia greca, non può fare altro, alla fine, che soccombere e decidere di farla finita, creando un contrasto raggelante con il resto dell’edonismo sfrenato, pacchiano e spensierato della sua narrazione.

    Perciò vive minuto per minuto: prendere il sole, sentire i dischi e ballare sono le sue uniche attività. Per il resto è volubile, incostante, ha sempre bisogno di incontri nuovi e brevi, non importa con chi. Con se stessa, mai. […] Forse sei tu la più saggia di tutti.

  • La zona di interesse: trama, spiegazione, finale

    La zona di interesse: trama, spiegazione, finale

    “La zona di interesse” è un film storico del 2023 scritto e diretto da Jonathan Glazer, una co-produzione tra Regno Unito, Stati Uniti e Polonia. Liberamente ispirato al romanzo del 2014 di Martin Amis, il film si concentra sulla vita del comandante tedesco del campo di concentramento di Auschwitz, Rudolf Höss, e di sua moglie Hedwig, che vivono con la famiglia in una casa situata nella “Zona di Interesse” accanto al campo. I protagonisti sono Christian Friedel nel ruolo di Rudolf Höss e Sandra Hüller in quello di Hedwig Höss.

    Lo sviluppo del film è iniziato nel 2014, in concomitanza con la pubblicazione del romanzo di Amis, che a sua volta trae parzialmente ispirazione da eventi reali. Jonathan Glazer ha scelto di raccontare la storia della famiglia Höss piuttosto che dei personaggi fittizi del libro, conducendo un’approfondita ricerca sulla famiglia per realizzare un’opera che demistificasse i perpetratori dell’Olocausto, presentandoli non come “mitologicamente malvagi”, ma come esseri umani reali. Il progetto è stato annunciato ufficialmente nel 2019, con A24 confermata come distributore. Le riprese principali si sono svolte intorno al campo di concentramento di Auschwitz nell’estate del 2021, con ulteriori riprese a Jelenia Góra nel gennaio 2022.

    “La zona di interesse” è stato presentato in anteprima al 76º Festival di Cannes il 19 maggio 2023 e distribuito nelle sale statunitensi il 15 dicembre 2023. Il film ha ricevuto il plauso della critica e incassato oltre 52 milioni di dollari. Tra i riconoscimenti, ha ottenuto cinque nomination ai 96º Premi Oscar, vincendone due: Miglior Film Internazionale (il primo per un film britannico non in lingua inglese) e Miglior Sonoro. Inoltre, ha conquistato il Grand Prix a Cannes, tre premi BAFTA, incluso quello per il Miglior Film in Lingua Straniera, e ricevuto tre nomination ai Golden Globe. La National Board of Review l’ha incluso tra i cinque migliori film internazionali del 2023.

    A Berlino, Rudolf Höss viene incaricato da Oswald Pohl di dirigere un’operazione che porta il suo nome. Questa operazione prevede il trasporto di 700.000 ebrei ungheresi nei campi di concentramento, destinati al lavoro forzato o all’eliminazione. Questo incarico gli permetterà di tornare ad Auschwitz e di ricongiungersi con la sua famiglia. Durante una festa organizzata dall’Ufficio Centrale Economico e Amministrativo delle SS, Höss partecipa con un atteggiamento apatico. Successivamente, al telefono con sua moglie Hedwig, confessa di aver passato il tempo alla festa riflettendo su quale fosse il modo più efficiente per gasare i presenti.

    Mentre lascia il suo ufficio a Berlino, Höss scende una scala e improvvisamente si ferma, conati di vomito lo travolgono mentre fissa nel buio dei corridoi del palazzo. Nel presente, l’Auschwitz-Birkenau State Museum viene pulito da un gruppo di inservienti, simbolo della memoria e della necessità di preservare i luoghi della tragedia. Tornando al 1944, Höss riprende la discesa lungo le scale, immergendosi sempre di più nell’oscurità.

    Il finale di The Zone of Interest è profondamente simbolico e suggerisce un contrasto tra il passato e il presente. La scena di Höss che scende le scale rappresenta metaforicamente la sua discesa nella disumanità e nella depravazione morale, un viaggio sempre più profondo nell’oscurità, che è sia fisica che spirituale. I conati di vomito potrebbero indicare un momento di rigetto fisico o emotivo, ma l’assenza di un reale pentimento mostra la natura automatizzata e spersonalizzata delle sue azioni.

    La presenza dei custodi nel museo di Auschwitz oggi sottolinea l’importanza della memoria e della riflessione su ciò che è accaduto. L’alternanza tra i due periodi rafforza l’idea che, nonostante il tempo passi, il peso di quegli eventi rimane tangibile, così come la responsabilità di ricordarli e di non dimenticare l’orrore causato da individui apparentemente “ordinari”.

  • The Northman: Il Dramma Rituale dell’Ultima Era Vichinga

    The Northman: Il Dramma Rituale dell’Ultima Era Vichinga

    La storia mitologica del giovane principe vichingo Amleth, in cerca di vendetta dopo l’omicidio del padre.

    In breve. Eggers dirige col consueto stile visionario, dimostrando di essere totalmente maturo, originale e pronto ad affiancarsi a nomi dei registi che contano, e conteranno molto, di qui agli anni a venire. The Northman è un poema epico vivido e ricco di simbolismi, che lascia il pubblico senza fiato.

    L’assonanza di The Northman con l’Amleto shakespeariano dovrebbe apparire in modo lampante fin dai primi minuti di visione, per quanto Eggers abbia operato in modo filologico: è risalito infatti ad un’opera originale di Saxo Grammaticus, la stessa da cui Il Bardo trasse uno dei propri capolavori, nel primo caso con un’ambientazione norrena o vichinga. Non, quindi, una versione norrena dell’opera di Shakespeare sul principe di Danimarca, vittima par excellence del proprio procrastinare, bensì un ritorno alle origini, alla mitologia norrena che aveva ispirato il misterioso autore, vissuto verso la metà del 1100, sulla cui biografia non si conosce neanche troppo.

    Secondo Eggers, The Northman rappresenterebbe una curiosa via di mezzo tra Andrej Rublëv di Tarkovskij e… Conan il Barbaro.

    Se l’Amleto è diventato uno stereotipo non semplicemente letterario, ma addirittura pop, del resto, lo si deve alle sue numerosissime re-interpretazioni teatrali (impossibile dimenticare quella crossmediale di Carmelo Bene), oltre ai noti adattamenti cinematografici di Franco Zeffirelli e di Laurence Olivier. Questo brevissimo excursus su una storia abbastanza tipica, in effetti, serve soltanto a far passare l’idea che Eggers abbia almeno per questa volta messo da parte gli stilemi horror, forse per provare a cavalcare una tematica apprezzata a livello mainstream, quella sulle imprese epiche del popolo norreno, anche grazie al successo di serie TV caposcuola come Vikings (2013). Al tempo stesso, la regia non rinnega le origini e anzi, non disdegna qualche momento cruento come da tradizione, sia pure con misura decisamente più contenuta rispetto alle opere precedenti.

    La ricostruzione dei rituali dell’epoca (inclusi due sacrifici umani) si è avvalsa di una ricerca filologica del regista, con l’unica eccezione del rituale di iniziazione di Amleth, definito “probabilmente il rituale più immaginario del film“. Si tratta di una perifrasi, in verità, dato che quella sequenza, dal sapore horror-grottesco, è girata con una certa dose di insospettabile ironia (non diciamo altro per non guastare la sorpresa a chi non avesse visto il film, ndr).

    The Northman avrebbe anche poco a che vedere con l’opera di culto di Shakespeare (che secondo alcune fonti, peraltro, potrebbe non aver mai letto Saxo Gramaticus), alla fine dei conti, se non fosse che narra del figlio di un principe, naturale erede al trono, in fuga dallo zio che gli ha fatto uccidere il padre al fine di governare assieme alla madre. L’Amleth eggersiano è un omone tutto d’un pezzo, con un cuore a pezzi e una sofferenza interiore mai risolta, che ricorda, soffre e combatte, evocando quasi un supereroe ante litteram, un mito in carne ed ossa che assume almeno tre aspetti differenti durante il corso della storia (corrispondenti a tre fasi narrative idealmente corrispondenti: la crescita, l’infiltrazione e la vendetta vera e propria). Come se non bastasse, è anche un personaggio onirico-psichedelico, dato che ha frequenti allucinazioni da sciamano sul proprio passato, varie premonizioni sul futuro e soprattutto una pregevole visione della sua ascesa al Valhalla, un maestoso fascio di luce che conduce, a bordo di un cavallo, fino ad Ásgarðr, mitico regno di Odino. Uno dei momenti visivamente più meritevoli di tutto il film, che rientra così a pieno titolo nell’opera tra la storia, il mito ed il fantasy puro.

    Il film si svolge nell’anno 914, durante il cosiddetto “landnámsöld“(letteralmente “l’età della presa della terra”), ovvero il primo insediamento dell’Islanda.

    Se l’ambientazione è norrena non manca, come da tradizione, il riferimento al folklore locale d’epoca, tanto che sono presenti vari canti e danze rituali in lingua originale sottotitolata, oltre ad alcune parti recitate in lingua dai protagonisti (Alexander Skarsgård e la consueta Anya Taylor-Joy), il tutto a costituire un’atmosfera decisamente suggestiva. La regia di Eggers è quella di sempre, in questo frangente: se bada molto al ritmo della narrazione, in alcuni momenti sembra perdersi dolcemente nella riscoperta e rievocazione del mito, mostrandoci con piglio quasi etno-antropologico la cultura e le tradizione di quel popolo. Se a questo di aggiunge una fotografia gelida e spettrale, con l’unica eccezione della battaglia finale (ambientata in un simil-inferno, ovvero nei pressi di un vulcano), si capisce bene che questo The Northman potrebbe essere, senza timori di esagerare, uno dei migliori film dell’anno. Il tutto a dispetto di una storia forse poco elaborata, sicuramente già vista – anche se è chiaro che se parliamo di un’opera originale di oltre 900 anni fa non ha neanche senso fare ragionamenti cronologici. Vale la pena citare anche il cast di lusso, che annovera  oltre ai succitati Nicole Kidman, Ethan Hawke, Willem Dafoe e Claes Bang.

    La storia di The Northman si basa su quella di Amleth, così come possiamo leggerla nella Gesta Danorum (Storia dei danesi) di Saxo Grammaticus, a sua volta discendente di varie tradizioni orali.

    Eggers è ormai una certezza, e garantisce una solida e accattivante regia, prevedibilmente ancorata alla compostezza gelida (gli scenari, i personaggi sulfurei, gli sguardi sinistri in camera fissa) che aveva determinato le sue opere precedenti – lo ricordiamo, di genere horror, ovvero The Vvitch e The Lighthouse: non sembra casuale, per inciso che la trilogia eggersiana abbia quel “The” a fattor comune, finchè qualcuno non saprà trovare una qualche attinenza concettuale tra i tre film. Parallelismi a parte, non sembra utile aver visto o conoscere il resto della filmografia di Eggers, classe 1983, proteso originariamente sull’universo dell’horror folklorico che qui ha scelto di declinare un’opera per il grande pubblico, accattivante, dotata del giusto grado di orrido e di gore, mai eccessiva nonostante la storia possa sembrare tirata un po’ troppo per le lunghe (ma questa è un’osservazione da spaccare il capello in quattro, valida giusto per gli amanti estremi della sintesi). In definitiva, un film da vedere immediatamente e gustare senza esitazione sul grande schermo.

    Eggers si è avvalso della collaborazione di vari storici dell’era vichinga, e ha svolto meticolose ricerche sul periodo, per rendere al meglio il clima, gli ambienti e gli oggetti dell’epoca. Tra i collaboratori troviamo anche il professor Neil Price, archeologo, che ha affermato che The Northmanpotrebbe essere il film ad ambientazione vichinga più accurato mai realizzato“.

    Cosa rappresenta l’albero di The Northman?

    A più riprese dentro il film vediamo un albero suggestivo e dai rami luminescenti, su cui parte del pubblico si è interrogata sulla valenza e sul significato. Come ha spiegato Eggers stesso, l’albero riconduce a qualche elemento legato a Yggdrasil, l’albero del mondo della mitologia norrena, ma soprattutto un’illustrazione reperita sulla nave di Oseberg, in cui è possibile vedere (caso raro per l’era vichinga) una struttura ad albero sui cui rami sono presenti vari corpi appesi. La sceneggiatura, concepita assieme allo scrittore Sjón, ha presumibilmente immaginato che si trattasse degli antenati di Amleth. L’albero genealogico della famiglia del protagonista, nel film, sembra “vivere” letteralmente all’interno del suo stesso corpo.