Salvatore

  • Zombi 3 di Lucio Fulci non è così brutto come dicono

    Zombi 3 di Lucio Fulci non è così brutto come dicono

    Un pericoloso virus sviluppato in un laboratorio viene rubato, ed inavvertitamente si diffonde trasformando le persone in esseri mostruosi: clinicamente morti e dall’aspetto deforme, ma con capacità di muoversi, uccidere, divorare altri uomini e parlare. Il gruppo dei soliti survivor cerca di combatterli…

    In breve. Criticatissimo apocrifo con pretese romeriane, carente sotto vari punti di vista ma capace, se visto con lo spirito giusto, di suscitare qualche sensazione positiva. Ogni bravo recensore di horror trash si è fatto le ossa descrivendo tutti gli aspetti negativi del “ghiottissimo” Zombi 3, trascurando così quel poco di positivo che il film vorrebbe possedere. Per i fan dell’orrore è, a mio parere, un capitolo imperdibile, nel bene e nel male.

    Quella videoteca… Un po’ di anni fa, con l’ausilio di una piccola connessione 56k, scoprii un favoloso sito di film dell’orrore (che, se ricordo bene, doveva essere questo) che non conoscevo. Fermo a considerare, prima di allora, che gli unici horror esistenti fossero quelli di Carpenter e di Romero, quelli insomma che ad orari improponibili la TV si degnava di passare, scoprii Hooper, Fulci, Fragasso, e tutto il resto dell’universo. E quella locandina, con la donna che urla e la gigantesca mano contaminata, mi rimase impressa: ricordo perfettamente era presente nella videoteca assieme ad altre chicche del terrore come la videocassetta di Lucio Fulci de “…L’aldilà!”, che finii per fittare più di una volta. Forse mi impressionò, probabilmente quella locandina riuscì ad impressionarmi e questo vale anche adesso, nonostante i fiumi di parole spesi contro questa pellicola, che ne hanno decretato il sostanziale fallimento.

    E, tanto per metterlo nero su bianco, credo che questo film non sia (badate bene) la schifezza totale che ci hanno presentato per anni, anche se di fronte a certi errori non posso che sparare sulla crocerossa. Sul film.Zombi 3” è stato girato nelle Filippine, e sceneggiato da Fragasso/Mattei sulla base di una rielaborazione del notissimo “Virus – L’inferno dei morti viventi” (come spiega l’autore stesso negli speciali del DVD): si tratta di uno script prettamente basato su azione, sparatorie e scazzottate, che deve qualcosa al capolavoro “Zombi” di George Romero, e dal quale evoca (e presumibilmente omaggia) il celebre finale. Il film è attribuito a Fulci, ma è plausibile che non sia affatto tutta farina del suo sacco e che gli sceneggiatori abbiano messo più di uno zampino dietro la macchina da presa: contrariamente alla leggenda che abbiamo letto sui vari siti, il DVD Nocturno attesta che il nucleo principale dell’opera è di Fulci, ed è stato semplicemente allungato, non rimaneggiato, da Fragasso in seguito. Il livello di splatter è discreto ma neanche esaltante, e per qualche motivo si indugia sui dettagli macabri molto meno del previsto: personalmente non avevo mai visto uno zombi movie in cui si inquadrano le scene clou così da lontano (escludendo il primo O’Bannon, ma quello è decisamente un’altra storia).

    Zombi 3 è l’ennesima variazione sul tema che, tutto sommato, avrebbe avuto tutte le carte in regola per diventare decisamente accattivante, anche perchè il cast non è affatto male e nemmeno la storia fa così schifo (…se solo si fossero decisi a scriverla decentemente). Cult. Se non fosse per l’elevata dose di improbabilità del film stesso, e per il suo richiamare in modo piuttosto pesante un altro horror molto sottovalutato negli anni (mi riferisco a “Il giorno degli zombi”), staremmo a dire che sì, Zombi 3 è stato fatto in modo confuso, ma nel frattempo è potuto diventare un cult. E invece no: la storia viene considerata giustamente incoerente, caotica e ai limiti del penoso, così come alcune sequenze ricadono nel ridicolo involontario: vedi la testa umana che sbuca fuori dal frigo (dal frigo?) seguendo una linea orizzontale (!), sfidando buonsenso e gravitazione newtoniana, e facendo sembrare che sia la cosa più normale del mondo averne una lì, manco fosse una lattuga. Ha ragione chi sostiene che si tratta di un film raffazzonato, girato forse in assenza del buon Lucio (purtroppo malato già all’epoca), ed in cui ad es. la pianificazione della lavorazione giornaliera avveniva spesso su iniziativa degli attori stessi.

    Difficile anche dare torto a chi fa notare che la spiegazione stessa dell’intreccio sia contraddittoria: se il virus è fatto in laboratorio ed “si dissolve nell’aria” come ci viene detto, come mai ‘sto benedetto flagello ha contagiato gli uccelli fuoriuscendo da una ciminiera? E poi il contagio non avveniva forse tramite il sangue e le ferite, come ci dicono dopo circa mezz’ora? Perchè qualche personaggio prima di diventare zombi mostra di avere sete ed altri invece no? Questo ed altri dilemmi affliggono sadicamente lo spettatore, il quale dirà senza esitazione che “Zombi 3” è un film da scansare come la peste, ammesso che riesca a finirlo di vedere. Tutto sommato. Ora pero’ liberiamoci della spocchia tipica dei recensori, e notiamo ora i lati positivi. Probabilmente fisica e chimica non erano materie troppo avvezze agli sceneggiatori, ma se riuscite a guardare oltre tutto questo (e ci vuole uno sforzo titanico per farlo, me ne rendo conto), esistono realmente: ebbene sì.

    Prima di tutto la caratterizzazione quasi perfetta di militari e scienziati, oltre l’idea ecologista alla base del racconto ed il clima sanamente complottista che lo avviluppa. Non mancano spunti originali come l’esperimento iniziale di rianimazione, gli uccelli-zombizzati (!) e soprattutto la bella idea del DJ, che informa la popolazione su quello che accade e commenta in stile noir la catastrofe (voce fuori campo). Ciò cita probabilmente la sequenza analoga de “I guerrieri della notte” (nowhere to run, nowhere to hide…), e meriterebbe un “pollice su” anche solo per questo. Abbiamo poi la conferma che gli zombi che schizzano velocemente sono un’invenzione tutt’altro che americana, così come l’idea del neonato morto vivente appare piuttosto originale (riproposta senza citazione ne “L’alba dei morti viventi” del 2004, l’apocrifo zombi-movie di Zack Snyder). La conclusione – che mi permetto di “bruciare” in questa sede – vede lo speaker che è diventato anch’egli un mostro, ed annuncia una sorta di “Anno Zero” nel quale gli zombi domineranno il mondo. La scena viene contrapposta all’etica dei sopravvissuti che, di rimando, giurano resistenza ad oltranza, ed il film si conclude su questo curioso mood battagliero. È forse la prima volta in vita mia che recensisco un bel finale, seppur con tutti i limiti del caso, che fa da appendice ad un film dotato di così scarso potere attrattivo.

    Conclusioni. Si vive felici senza aver visto questo film, ma di certo non danneggia la salute mentale più di altri suoi epigoni (spesso tacciati di “cultismo” un po’ a vanvera). C’è da puntualizzare che i deformi esseri di Zombi 3, esattemente come in Lenzi, non sono esattamente morti viventi ma vittime di un contagio che ne altera le funziona vitali: la cosa irritante è che la malattia contamina a casaccio, nel senso che su certi umani scatena un istinto di violenza e cannibalismo, mentre su altri fa solo venire voglia di camminare come gli zombi di “Thriller“. Misteri della fede: Zombi 3, con i suoi piccolissimi pregi ed i suoi grossolani difetti, fa venire un po’ di tristezza per quello che sarebbe potuto essere, se solo fosse stato girato in modo più organico e se ci avessero risparmiato tante chiacchiere sul presunto significato di alcune scene.

    È una tristezza equiparabile a quella che provo adesso, molti anni dopo, quando ripasso da quella videoteca “magica” e scopro che ne è rimasto nient’altro che un magazzino vuoto.

  • La tarantola dal ventre nero: il giallo all’italiana di Cavara del 1971)

    La tarantola dal ventre nero: il giallo all’italiana di Cavara del 1971)

    Maria Zani, ex moglie di un assicuratore romano viene brutalmente uccisa da un assassino dall’impermeabile nero, che usa degli aghi da agopuntura per immobilizzare le sue vittime.

    In breve. Cavara gioca con i film inventati da Argento, a cominciare dal titolo “animalesco” : qualcosa di già visto, già fatto e già sentito, ma l’importante in questi casi è mantenere vivo l’interesse, cosa che avviene con grande eleganza.

    Ispirandosi alla lotta tra una vespa ed una tarantola, nella quale la prima usa paralizzare l’altra con il suo pungiglione lasciando che siano le larve deposte nella ferita a fare il resto, Cavara presenta un assassino atipico che imita tale modalità. Egli infatti uccide le vittime paralizzandole con un ago nel collo, facendole rimanere coscienti (ed inermi) mentre le finisce con un coltello. Un particolare agghiacciante che rende l’idea di un sadismo – per la verità piuttosto consueto – da parte di molti killer visti sullo schermo all’epoca, mentre la presenza di un cast davvero di livello (Sandrelli, Giannini, Bouchet, Falk) garantisce che non si tratti di uno sterile trattato sul gore come se ne vedevano troppi all’epoca.

    L’ennesimo giallo all’italiana, quindi, basato su ambigui doppi giochi, forse un po’ troppo evocativo  dei capolavori argentiani ma sostanzialmente diverso da questi ultimi come forma e sostanza: la regia è di grande livello, la fotografia incanterà gli appassionati del genere e si conferma la triade tipica del genere: momenti di violenza insana, storie di personaggi quotidiani e macchiette teatrali. Il commissario dal volto umano (Giancarlo Giannini) indagherà sull’omicidio della bellona ambigua di turno (Barbara Bouchet), trovando lentamente l’identità di un insospettabile assassino dall’impermeabile nero e guanti, su cui probabilmente Argento potrebbe un giorno esigere i diritti d’autore. Tra le curiosità, un errore di inquadratura che permette di vedere uno dei membri della troupe – in maglietta blu – durante le movimentate riprese del secondo omicidio.

    Imprevedibilità ed una storia che diventa avvicente a partire dalla sua spiegazione biologica  fa diventare “La tarantola dal ventre nero” una piccola chicca del suo genere, capace di proporre un insolito parallelismo tra il comportamento della razza umana e quella animale, e proponendo nel finale l’identità di un assassino del tutto insospettabile e dal movente imprevedibile. Ma questo in fondo si sa: l’importante è che non annoia, intriga, diverte e non sfigura neanche oggi. Favolosa la colonna sonora di Morricone, e da segnalare la tela di ragno che si sovrappone all’immagine nei titoli di coda. Da vedere.

  • Mio caro assassino: il giallo all’italiana che lasciò il segno

    Mio caro assassino: il giallo all’italiana che lasciò il segno

    Un giallo piuttosto appetitoso per gli amanti del genere, condito da trama intrigante, vaghi elementi sexploitation ed una trama piuttosto intricata: l’inquietante colonna sonora, dai richiami dichiaratamente argentiani (come del resto l’intero intreccio) è stata firmata da Ennio Morricone.

    In breve: una storia incalzante, poco ed intenso splatter, qualche sbavatura sparsa ma tutto sommato pienamente godibile. Per amanti del giallo all’italiana e dell’exploitation.

    Inizialmente vediamo un uomo (che si scopre essere un investigatore privato, Umberto Paradisi) che si aggira nei pressi di uno stagno, dando indicazioni al manovratore di una scavatrice: l’uomo viene decapitato dalla benna della macchina, senza che si veda il volto dell’asssassino. La polizia inizialmente indirizza le indagini sull’operaio che sarebbe dovuto essere al lavoro sul posto, ma dopo poco lo stesso viene trovato impiccato: si tratta, neanche a dirlo, di un suicidio simulato. L’attento poliziotto Peretti (George Hilton, volto noto dei 70) indaga quindi su un caso di omicidio piuttosto complesso: un personaggio perfetto, impeccabile sul lavoro, ma con più di un problema con la compagna (una poco convincente, a mio parere, Helga Linè). Dopo l’inizio di una catena di omicidi, che ricollegano il caso ad un precedente di una bambina rapita assieme al padre e morta di inedia nel covo dei sequestratori, verrà a galla la verità in un finale tutto da gustare.

    Dario Argento aveva creato uno stile, che si era delinato attraverso quelli che sarebbero diventati gli archetipi di cui fu artefice (su tutti, l’assassino dai guanti neri): in questo film di Valerii non si tratta, per la verità, di semplici richiami stilistici. Il film è totalmente immerso nello spirito delle opere del regista argentiano, visto che c’è quasi tutto quello che ha inventato il primo argento: il disegno infantile risolutore, la nenia inquietante a sottolineare i momenti topici, il passato torbido di uno dei protagonisti, i familiari della vittima che nascondono un orribile segreto, addirittura i personaggi-macchietta che intervallano i momenti di tensione del film. Del resto a chi sarà venuto un colpo pensando ad una squallida scopiazzatura di Profondo rosso o Quattro mosche di velluto grigio, posso dire di stare tranquillo: ci sono infatti almeno due elementi originali e di rilievo in “Mio caro assassino” (senza contare, forse, la banalità del titolo).

    Il primo è che il commissario di polizia (Hilton), sicuro di sè e figlio dei detective razionalisti dei gialli classici, è costretto a risolvere ben due casi collegati tra loro, e questo lo porta a considerare una ragnatela insolitamente fitta con almeno dieci personaggi sospetti, eliminati poco per volta dalla mano crudele dell’assassino. I personaggi sono tutti ben caratterizzati e preziosi per l’intreccio, anche se diventa facile perdersi nei dettagli, in certi casi. Il secondo aspetto secondo me “cult” di “Mio caro assassino” riguarda alcuni inserti davvero originali, come il killer che agisce in soggettiva e “in diretta”: noi non riusciamo a capire chi sia, ma in almeno due momenti decisivi “vediamo” con i suoi occhi. Questo avviene anche, ad esempio, nella scena in cui uccide con la fresatrice. Questo secondo me è un elemento notevole, che conferisce uno spessore insolito rispetto alla sostanziale exploitation presente nel film (lo splatter da manuale della scena appena citata, i nudi belli ma totalmente gratuiti di Helga Linè e della maestrina Mary Shepard, il criticatissimo nudo della bambina-modella dello scultore pedofilo)

    Del resto si tratta di un giallo “puro”, condito da elementi extra non sempre molto coerenti: del resto, ci vorrà ancora una decina di anni perchè giallo ed horror possano unirsi con gran classe, e declinarsi in una delle migliori opere italiane di sempre. Non voglio abusare delle citazioni di Argento perchè è possibile che il regista abbia avuto diversi pugni allo stomaco dalla visione di questo film, che per molti versi ne ricalca fedelmente scenari, ambientazioni e stilemi. Mi pare inoltre ci sia stato un piccolo errore da parte del regista probabilmente in fase di montaggio, che consentirà allo spettatore più “cattivello” di capire subito chi sia l’assassino: basta fare caso alla macchina ed al  suo brand che viene esposto più volte. Un peccato, lo dico senza sarcasmo ovviamente, perchè in fondo dato il contesto, l’epoca ed il confronto con film piuttosto discutibili diffusi in quel periodo, va bene anche  così. Non male il finalone alla Agatha Cristie, con il poliziotto che passa in rassegna tutti i potenziali indiziati svelando il dettaglio rivelatore soltanto nell’ultimo fotogramma, creando una tensione ed un’aspettativa nello spettatore secondo me senza pari.

     

  • Terrore nello spazio è la fantascienza futuristica di Mario Bava

    Terrore nello spazio è la fantascienza futuristica di Mario Bava

    Da non confondersi con il successivo Terrore dallo spazio profondo, Terrore nello spazio di Mario Bava è un film classico del puro fanta-horror.

    Ambientato interamente durante una missione spaziale, racconta di un equipaggio di venti persone dentro due navicelle, i cui astronauti si imbattono in una civiltà aliena ostile. Questo almeno è ciò che intuiscono dalle prime battute: la nave viene attratta da un pianeta sconosciuto ricoperto di nebbia, la gravità diventa quattro volte più del normale e fa perdere i sensi all’equipaggio, come se non bastasse – non appena atterrati – gli astronauti iniziano ad azzuffarsi tra loro senza una ragione apparente. Solo l’intervento di autorità del comandante riesce a evitare il peggio, mentre l’altro equipaggio è meno fortunato. Si prosegue la storia di un gruppo di sopravvisuti costretti a lottare contro alieni ostili (per quanto poi il finale suggerisca che non si trattava di terrestri, grazie a un piccolo colpo di genio della sceneggiatura), mentre l’eterna lotta tra Bene e Male è in realtà una lotta intestina, a causa della tendenza maggioritaria ad autodistruggersi da parte dell’uomo.

    Non è difficile accorgersi fin dalla prima visione che l’orrore di cui si parla in questa gemma della fantascienza italiana è puramente psicologica, interiore, accennata, ossessiva – tant’è che a un certo punto una delle persone dell’equipaggio afferma che l’alieno parassita è come se ingaggiasse una “lotta interiore” dentro se stesso. Questo naturalmente serve anche a compensare la scarsità di effetti speciali per un film che riesce, con pochi mezzi e tante idee, a risultare comunque visionario: il pubblico viene sorpreso alle numerose trovate che vengono tirate fuori, inclusa la presenza di corpi posseduti da alieni parassiti che si comportano di fatto come zombie (La notte dei morti viventi, vale la pena ricordarlo, uscirà solo tre anni dopo questo film). Come ulteriore nota di merito si può rilevare che i protagonisti seguono una sorta di religione materialista, ispirata ai principi di natura scientista e che parla degli atomi delle particelle come se fossero espressione di volontà divina (scena del funerale degli astronauti), con preghiere che sembrano tratte da uno scritto di Deleuze e Guattari. Questo dettaglio non è un vezzo, ma possiede una funzione specifica all’interno della storia – come sarà possibile osservare visionando il film per intero. In tal senso ci sentiamo di dire che terrore nello spazio sia sicuramente uno dei film di sci-fi più avanguardistici mai girati, sia per lo svolgimento della storia che per le conseguenze tutt’altro che ovvio della conclusione della stessa. La sceneggiatura sempre guardare a un futuro prossimo in cui bisognerà liberarsi dell’ottica e egocentrica che caratterizza gli esseri umani, in favore di una sorta di internazionalismo spaziale che sembra peraltro possedere vaghi spunti accelerazionisti (civiltà aliene che cercano posti in cui poter sopravvivere, più rapidamente possibile e per evitare di estinguersi).

    Visto negli anni successivi, gran parte della critica ha suggerito che questo film possa aver grandemente ispirato Ridley Scott, e questo sia per Alien (1979) che per Prometheus (2012). Non ci sentiamo di dar loro torto: per quanto i film di Scott brillino l’uso di effetti speciali e per la componente smaccatamente horror, è assodato che questa caratteristica sia archetipica di già di questo film, ricordando che siamo nel 1965, tre anni prima che uscisse un film avvenieristico come 2001 Odissea nello spazio. Gli elementi narrativi sono del resto analoghi: si tratta sempre di missioni di astronauti alla ricerca di vita su pianeti sconosciuti, nei quali troveranno resti di antiche civiltà – e soprattutto alieni parassiti. Quest’idea del parassitismo come villain della storia è naturalmente comune a un altro cult del periodo come l’invasione degli ultracorpi, con la differenza che il clima claustrofobico viene costruito all’interno di una angusta astronave e, soprattutto, come poi farà John Carpenter ne La cosa, il pubblico non sa quale degli astronauti sia infetto dal parassita quale invece no.

    Gran parte del film viene girato all’interno di un teatro di posa in condizioni proibitive – Bava ebbe a dire, in una celebre intervistaVorrei che la gente, la critica, si rendesse conto delle condizioni nelle quali sono costretto a girare i miei film.
    Per Terrore nello spazio non avevo nulla, ma realmente nulla a disposizione. Dico, c’era il teatro di posa, tutto vuoto e squallido, perché mancavano i soldi: avrebbe dovuto rappresentare un pianeta. Che ho fatto allora? Nel teatro affianco c’erano due grosse rocce di plastica, residuato di qualche film mitologico, le ho prese e messe in mezzo al mio set, poi per coprire il pavimento ho seminato quegli zampironi fumogeni e ho oscurato lo sfondo, dove c’era solo la parete bianca. Poi, spostando quelle due rocce da un posto all’altro ho girato il film. Le sembra possibile?” – costringendo il regista a ricorrere a stratagemmi di vario genere.

    La fantascienza pre-ballardiana come questa sa essere un genere decisamente complesso dal punto di vista scenografico, chiaramente, ma il fatto che si noti poco la mancanza di mezzi depone per far credere che si tratti, a ragione, di uno dei migliori film di fantascienza italiani mai girati. Tanto più che si tratta dell’unico esperimento di Mario bava nel genere, da lui molto amato eppure prodotto soltanto in questo unicum. Una tradizione che in Italia non ha mai mai preso troppo piede, in effetti, e sicuramente le prime avvisaglie si vedevano già allora: motivo per cui questo film rimane un piccolo gioiello del genere, ricco di trovate creative e sottile ironia (il finale del film è l’apoteosi in tal senso: per non rischiare di perdersi nello spazio, l’equipaggio alieno decide di atterrare proprio sul pianeta Terra).

    Distribuito negli USA con il titolo Planet of the vampires, incassa 251 mila dollari dell’epoca (per un film di fantascienza del 1965 sembra ancora più notevole), mentre la sceneggiatura è tratta da un racconti di Renato Pestriniero (Una notte di 21 ore, disponibile integralmente su altrimondi.org). Il film viene coprodotto da AIP e Italian International Film, con il finanziamento della spagnola Castilla Cooperativa Cinematográfica.

    La locandina dell’edizione americana, per inciso, promette senza mantenere: si vedono gli astronauti combattere con le creature di cui, nel film, vediamo solo gli scheletri (probabili esseri di altri pianeti non scampati al peggio).

    Immagine tratta da https://hotcorn.com/it/film/news/alien-40-terrore-nello-spazio-mario-bava-film-cult-ridley-scott/
  • Black Mirror 6 funziona solo a sprazzi

    Black Mirror 6 funziona solo a sprazzi

    Abbiamo visto i primi due episodi della nuova serie di Black Mirror (la numero 6), e ve ne parliamo qui. Uscita il 15 giugno 2023, come sempre si incentra sugli abusi tecnologici e sull’alienazione indotta dalle nuove tecnologie. I toni, pero’, sembrano essere cambiati rispetto alle origini. l’articolo sarà aggiornato volta per volta come finirò di vedere i nuovi episodi.

    Joan è terribile (stagione 6, episodio 1, 2023)

    Il ritorno di Black Mirror per la sesta stagione parte da un presupposto voyeuristico o paranoico (dipende dal punto di vista, ovviamente): Joan Tait lavora per una multinazionale, ricopre un incarico importante e sembra condurre un’esistenza ordinaria. Nella vita privata appare confusa, in quella lavorativa si dimostra sostanzialmente conformista e tendente alla passività. Dopo aver incontrato in segreto il proprio ex, torna a casa dall’attuale fidanzato. La cena avviene mentre guardano Streamberry, una piattaforma di streaming con una vasta gamma di proposte (si tratta ovviamente di un meta-riferimento a Netflix stessa).

    Sarebbe una giornata come tante, se non fosse che la coppia scopre la serie Joan è terribile, dove Joan è lei stessa, la protagonista dell’episodio (nella serie di Streamberry, viene interpretata da Salma Hayek). Si scopre che l’azienda ha creato una serie sulla sua vita a sua insaputa, che poteva farlo, perchè era previsto in una clausola nascosta dei termini e condizioni del servizio, e il tutto la manda definitivamente in crisi: non solo perchè si sente sfruttata per l’audience (come il buon Truman Burbank in The Truman Show), ma soprattutto perchè la serie ricalca tutto quello che succede davvero nella sua vita privata (inclusi i dettagli più piccanti). Siamo alle solite, insomma: Black Mirror – in questa sede con la regia di Ally Pankiw e il soggetto di Charlie Brooker – insiste sul consueto registro dedicato alle violazioni della privacy facendo leva sulle nuove tecnologie.

    Si potrebbe discutere indefinitamente su come e quanto si riesca nell’obiettivo, ma sembra che qualcosa sia cambiato nell’andazzo: il registro dell’episodio è sostanzialmente light, non ha nulla dei toni delle origini, e anzi finisce per sfruttare una trovata che sa abbastanza di “pecoreccio” al fine di alimentare  il mood grottesco. È abbastanza inspiegabile come si arrivi alla trovata della defecazione in chiesa (perchè succede anche questo, con una Joan in preda all’esasperazione): non tanto per la trovata in sè, ma per come i personaggi ne parlano e ci ritornano a più riprese. Sembra più di assistere ad un film tipo Un milione di modi per morire nel West (una commedia diretta dall’artefice dei Griffin, Seth Mac Ferlaine, dove l’umorismo segue quella falsariga e risulta in stile stand up comedy) che ad un episodio di Black Mirror, che da sempre presente una sostanziale seriosità alla base del proprio successo.

    Insomma, se uno non prende sul serio una serie del genere – perchè questo succede, se la si mette su quel piano – che ne sarà del resto? L’episodio è stato ben marketizzato per la presenza della Hayek, presenta molte sequenze sopra le righe e non mancano i colpi di scena più accattivanti, ma finisce per essere debole, al netto delle trovate del finale e delle scatole cinesi che lo caratterizzano (quasi nolaniane, verrebbe da scrivere). È la stessa idea di Strade perdute di David Lynch elevata all’ennesima potenza, alla fine: lì si rappresentava il conflitto lacerante tra Es e Superio, qui si vorrebbe simboleggiare  ogni persona / personaggio come il vuoto contenitore di un altro, tanto che nessuno è sicuro di essere se stesso e, come dire, siamo tutti Truman Burbank, ma siamo pure in un film di Nolan, forse anche di Lynch, io stesso non sono sicuro di essere io a scrivere – per non parlare di voi che state leggendo.

    D’altro canto è interessante come abbiano fatto rientrare i deepfake (cioè i video realistici generati artificialmente) nella storia, e l’idea che la loro diffusione di massa possa portare a serie TV basate sulle vite degli abbonati ed interpretati da attori digitalizzati quasi inconsapevoli dello sfruttamento della loro immagine. Questo funziona, senza dubbio, ma non è nemmeno il vero focus della storia. Resta il fatto che Salma Hayek sia probabilmente la migliore interprete dell’episodio, in una originale e autoironica interpretazione di se stessa. Va benissimo che si scomodi un computer quantistico per concepire la potenza di calcolo in ballo, per inciso, perchè non sarebbe potuto essere un server o un Macbook: Streamberry sta creando delle serie TV per tutti i propri abbonati, auto-tutelandosi con un furbesco contratto e investendo sul computer quantistico per sopperire alle necessità di calcolo. Ma anche qui: i terms & conditions che non legge nessuno e che autorizzano futuri abusi sono cose già viste, ci erano arrivati Trey Parker & Matt Stone con l’episodio del 2011 HUMANCENTiPAD, nel quale ignare vittime firmavano termini e condizioni prolisse accettando di diventare un centipede umano (viene da pensare che la coprolalìa fosse più azzeccata, in quella circostanza, per quanto più marcata). L’impressione generale sull’episodio da un punto di vista dell’allerta tecnologica, del resto, potrebbe risultare distorta: un conto sarebbe stato parlare di smart TV, smartphone, dispositivi X o Y che spiano le persone e le registrano, altro conto è lasciare il riferimento talmente vago e inafferrabile che, per assurdo, il personaggio di Joan non si capisce con quali modalità venga spiata.

    Andrebbe tutto bene, insomma, se non fosse che l’impianto narrativo scricchiola: non solo per i motivi indicati, ma anche perchè le reazioni di alcuni personaggi sono poco credibili (eufemismo: quando Joan scopre di essere spiata, in modo peraltro parecchio didascalico, nemmeno fa il tentativo di spegnere o distruggere il proprio smartphone). L’idea dei personaggi parte di un teatrino digitale di cui non sono consapevoli è peraltro vecchiotta, e pur senza citare per forza il sempiterno Matrix vale la pena ricordare che ha almeno un precedente di culto (L’invenzione di Morel). A poco vale, per inciso, che un personaggio specifichi che la serie segue il pattern “X è terribile” perchè quella negatività aiuta l’audience: rischia solo di sembrare molto didascalico, col senno di poi, senza contare che non rende giustizia al comportamento del personaggio di Joan, che ricorda in parte la più tipica profezia che si autoavvera (con il suo modo di fare e di porsi, in sostanza, finisce per essere lei stessa la causa dei problemi che le capitano).

    Si lascia il riferimento tecnologico vago – e questo è considerabile un “delitto”, per un episodio del genere – ma poi si fa riferimento alla circostanza dei dispositivi che spiano le persone per poi mostrare pubblicità a tema, circostanza circoscritta a casi e dispositivi specifici nella realtà, da sempre ventilata dalla qualunque ma mai provata da nessun ricercatore (e dovuta, per quanto ne sappiamo oggi, ad un mix di confusione, imperizia ed effetto primacy). Se fosse vera e provata una cosa del genere, del resto, sarebbe una rivoluzione tecnologica, che ad oggi non è ancora avvenuta – per cui potremmo giustificare la scelta in termini avvenieristici per quanto, anche stavolta, lo si faccia un po’ a fatica. Un conto è darlo per assodato (quando non lo è), insomma, altro conto sarebbe stato porre il problema dell’uso critico delle tecnologie in modo più scientifico (che rimane sacrosanto e desiderabile, ovviamente).

    La serie ha sempre premuto sulla propria orgogliosa “nerdaggine” – che nei primi episodi era a prova del debunker più sprezzante, geek e disilluso del pianeta – ma qui si è fatto un qualcosa di inedito, il che non lo rende esattamente un brutto episodio (le interpretazioni restano di livello e ci si diverte, alla fine), ma il tutto sembra relegato a una dimensione al limite dell’autocelebrativo, da parodia di se stessa. E questo, probabilmente, sarebbe stato meglio non farlo – pena rischiare di autodistruggere l’impianto stesso della serie.

    Loch Henry (stagione 6, episodio 2, 2023)

    Questo episodio per fortuna è qualitativamente superiore al precedente, per quanto riutilizzi topòs classici del cinema dell’orrore di due decadi fa: a cominciare da V/H/S (la storia è quella di due giovani registi che vogliono esordire), passando per  Le cronache dei morti viventi, ma potremmo citarne tantissimi altri, limitandoci a ricordare il clamoroso The last horror movie ma soprattutto la trilogia horror August Underground, un prodotto ultra amatoriale e talmente assurdo che in pochi, oggi, ricorderanno (era il racconto degli omicidi di alcuni sedicenti autentici serial killer girato interamente in soggettiva).

    Partiamo dall’inizio: Loch Henry è ambientato nella svuotata provincia scozzese, dove un ragazzo (Davis, aspirante regista) presenta la propria nuova fidanzata, Pia, alla mamma. L’impatto non sembra dei migliori: la donna si mostra velatemente scontrosa e non troppo disponibile, per quanto la convivenza in casa sembri volgere al meglio. I due ragazzi hanno in mente di girare un documentario su un argomento di nicchia (per usare un eufemismo), ma presto cambieranno idea.  Parlando con l’amico Stuart, infatti, viene rievocata la storia inquietante di  Iain Adair, un abitante del posto con problemi di alcol che si era scoperto essere un feroce assassino seriale. Il progetto di produrre un banale documentario va a farsi friggere, e i ragazzi decidono di raccontare questa storia, girandola volutamente con le vecchie VHS per accentare l’effetto da horror POV. Siamo nel meta-meta-cinema, dato che vediamo un attore che interpreta un regista che gira un film che, a sua volta, diventerà il film della sua storia.

    Ricompare l’emittente Streamberry, avida e priva di scrupoli nel voler fare audience, e  si nota un ottimo livello narrativo, una storia più solida della precedente, meglio diretta e anche meglio interpretata, più credibile, narrativamente compatta, per quanto i fan dell’horror old school non vi troveranno nulla di sconvolgente. Anche perchè lo shock per la sorpresa finale (che è doppio o triplo, alla fine) non può essere più grande di quello indotto da un qualsiasi POV ben fattio, considerato che non è manco più la novità di qualche decennio fa e che, d’accordo citare The Blair Witch Project, ma esistono prodotti come [REC] da molto tempo.

    Insomma, la valutazione qui è da considerarsi molto positiva, per certi versi è un omaggio sentito al cinema horror POV e funziona in toto, incluso il finale clamoroso e quel tocco di tragedia romantica che, in fondo, non fa che accentuare la critica sociale alla disumanizzazione collettiva e, ancora una volta, agli abusi tecnologici. Il punto, semmai, è che il riferimento agli eccessi tecnologici sembra quasi di troppo, e un semplice smartphone usato di sfuggita non sembra abbastanza per giustificare la sua presenza in una serie come Black Mirror (mentre avrebbe fatto la propria figura, per intenderci, in un contesto come The ABCs of Death). Probabilmente potrà sembrare forzoso il riferimento alle vetuste VHS – che sono una tecnologia di qualche secolo fa, ormai – e quasi per nulla a smartphone e computer, ma la sostanza (in questo caso) sembra poter giustificare l’eccezione.

    Beyond the Sea (stagione 6, episodio 2, 2023)

    Episodio ambientato negli anni 60, in una realtà alternativa: due astronauti sono stati coinvolti in una singolare missione spaziale, appoggiandosi a due rispettivi androidi che sono la loro replica fisica esatta. In questo modo posso trasferire la propria coscienza di sè istantaneamente e all’occorrenza: sull’astronave quando c’è da lavorare, sulla terra quando c’è da stare con moglie e figli. La macchina che permette di farlo è simile ai lettini della pillola rossa di Matrix. Una notta delle due repliche viene coinvolta in un incidente mortale, modello eccidio di Cielo Drive: una banda di hippie (che considera gli android immorali e non naturali) si introfula in casa di notte e fa strage della famiglia di David, inclusa la sua replica.

    La situazione degenera: l’autocoscienza di David è rimasta sull’astronave, assiste al funerale dalla cabina dell’astronave (non avendo più una replica a cui appoggiarsi) e si fa progressivamente travolgere dalla disperazione e dalla solitudine. Motivo per cui, per evitare che faccia gesti sconsiderati sull’astronave, i due astronauti concordano che David possa usare il corpo Cliff per vivere a casa sua e superare il trauma. Naturalmente la trama è destinata a complicarsi, fino a esibire le contraddizioni tipiche dei film basati sui doppelganger e sui paradossi di scambio di personalità. I toni dell’episodio sono totalmente cronenberghiani: non solo perchè si pone l’accento sulle ambiguità delle macchine umanoidi, ma anche perchè è in gioco il concetto filosofico di autocoscienza (oltre a quello di scambio di personalità), ed è in gioco (come in Blade runner) la logica dell’amore: ci innamoriamo dell’esteriorità di una persona o della sua totalità? Cosa succederebbe in caso di swap di autoconoscienza ai nostri affetti? Si pone peraltro un mindblow psicoanalitico considerevole, giocato sull’Io e l’immagine dell’Io: Josh-Cliff picchia quello che è, realmente, il figlio di Josh-David: la cosa non disturba David più di tanto, ma pone il problema dell’ambivalenza del gesto agli occhi del bambino (e agli occhi della madre, che è attratta dall’esteriorità quanto respinta dall’interiorità della replica).

    Episodio validissimo, originale, coinvolgente quanto contro-intuitivo: viene sovvertito il principio alla base di tanta fantascienza (per cui uomini e androidi sono e rimangono eticamente distinguibili, cosa che qui non avviene), e si stabilisce un curios scambio di autocoscienze che, per quanto concetto quasi squisitamente concettuiale, rischia di non essere comprensibile di primo acchito per parte del pubblico. Josh Hartnett fa un lavoro considerevole sul proprio personaggio, considerando che deve interpretare sia David che Cliff e che non esistono tratti distintivi visuali che possano rendere l’idea, ma si affida tutto all’atteggiamento (più estroverso in veste originale da David, più introverso in quelle di Cliff).