Salvatore

  • Il cameraman e l’assassino è il mockumentary anni novanta su un narcisistico serial killer

    Il cameraman e l’assassino è il mockumentary anni novanta su un narcisistico serial killer

    Scritto e diretto dal trittico Rémy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde (quest’ultimo interpreta il protagonista, per inciso), Il cameraman e l’assassino è un thriller crudo e fuori norma, girato con l’occhio documentaristico e distaccato nel rappresentare routine quotidiana di un serial killer qualunque. Per girare i tre registi si attengono ai dettami del cinema-verità, in cui la telecamera è onnipresente e fornisce un occhio distaccato e gelido su quello che accade. Come se, in sostanza, al posto di mostrare la “vita di ogni giorno” da vituperato “Grande Fratello” in relazione ad un VIP, si immaginasse di fare lo stesso con la quotidianità di un autentico assassino, senza cuore quanto impeccabile nei comportamenti sociali.

    Interrompiamo momentaneamente le riprese perchè il nostro tecnico del suono è rimasto ucciso. Sono i rischi del mestiere, e tutti noi ne siamo coscienti. Credo anche che dovremmo continuare il film, perchè è il tuo film.

    Il film – una produzione belga di inizio anni novanta, passata un po’ in sordina tra il pubblico quanto, per quel che vale, apprezzatissimo dalla critica –  è un mockumentary a tutti gli effetti, un falso documentario shockante e dall’evidente significato metaforico, uscito in un periodo in cui non andava neanche di moda etichettarli come tali.

    Una scia, quella del thriller realistico e vivido, che ha visto una folta partecipazione nel genere, a cui lo stesso afferisce a pien titolo, sia pur presentandosi in una singolare forma d’essai: un bianco e nero spettrale che, se non altro all’inizio, da’ la falsa impressione che assisteremo ad una raffinata opera di concetto. Nulla di più falso: Man bites god segue le discutibili gesta di un omicida narcisista che ha normalizzato da tempo i propri delitti e che, in un delirio di autocompiacimento, ha deciso di farsi filmare da una troupe mentre lavora.

    Vediamo questo elegante uomo di circa 30 anni (Ben) che, neanche a dirlo, ama ed impone di farsi riprendere mentre commette omicidi, rapine ed efferatezze varie, al puro scopo di documentarli con una videocamera e mostrarli, meta-cinematograficamente, al pubblico. Non si risparmiano i dettagli visivi: gli omicidi sono talmente espliciti e vividi da sembrare realmente accaduti, come avverrebbe in uno snuff. Ben, del resto, non è solo il killer egotista e scenografico tipico del genere: è anche uno che puoi ritrovarti sotto casa, dato che fa irruzione in case altrui perpetuando stupri e omicidi, ed è anche in grado di camuffarsi da troupe televisiva per farsi aprire la porta da sconosciute vittime.

    C’è veramente di tutto in questo film: dal thriller cruento modello Henry alla classica home invasion randomica condita di exploitation, ma c’è anche l’idea originale di introdurre una nemesi. Cosa insolita rispetto alla media di questi film che mostrano, da copione, un male che si auto-rigenera all’infinito, che non muore mai perchè connaturato all’essere umano. Non sembrano di questa idea i tre registi, che prima rappresentano tre tipi da exploitation pura, non punibili per definizione, poi spiazzano il pubblico (spoiler alert) rendendo loo pan per focaccia, a causa di un omicidio di troppo che ha scatenato il desiderio di vendetta da parte di una banda rivale (anch’essa, grottescamente, intenta a commettere omicidi e filmarli). La punizione sarà inesorabile e, peraltro, concretizzata in un finale che più scenografico non si potrebbe (la camera che finalmente cade e riprende l’ultima vittima da terra), il che ha probabilmente ispirato il finale un po’ più sconnesso di The Blair witch project (per inciso).

    Va scorporata con urgenza dal film, a questo punto, la banalizzazione indotta dalle considerazioni medie in merito, secondo cui il film sarebbe incentratosui serial killer che uccidono senza una ragione, come Henry – Pioggia di sangue“: questa ottica non è scorretta ma sembra parziale, e sembra dimenticare, nello specifico, l’aspetto legato alla caratterizzazione psicologica del protagonista. Che è ispiratissima a Henry ed è narcisista quanto il protagonista di American Psycho, ma è anche l’insospettabile villain medio da horror socio-psicologico. Ben uccide per capriccio, ma anche perchè nessuno fa nulla per fermarlo (almeno, per gran parte del film). Il cameraman e l’assassino è altresì intriso del comunissimo concetto secondo cui, di fatto, il comportamento impeccabile non è indicativo del vero buon comportamento dell’uomo nella società, per quanto lo renda rispettabile e nonostante si abbia l’impressione che la “professione killer” venga ignorata o, peggio ancora, sia socialmente accettata (alcuni dialoghi sono inequivocabili in tal senso: la professione di Ben viene considerata un mestiere come un altro, neanche fosse un idraulico, carpentiere o un medico).

    Siamo di fronte ad un sostanziale tentativo di exploitation d’essai, per dirla in breve, dove i personaggi esibiscono un cinismo ed un nichilismo che si presta ad un’unica, possibile chiave di lettura: l’umanità si è spenta, non reagisce più. Per le stesse ragioni, peraltro, è altrettant parziale limitarsi a considerare l’aspetto didascalico di Ben, killer inafferrabile quanto impossibile da sospettare, tanto quanto i suoi monologhi ricordano gli “a parte” da brivido, rivolti al pubblico, dei protagonisti di Funny Games. Il cameraman e l’assassino racconta una storia terribile, è vero, ma che si risolve come il più feroce dei rape’n revenge, sottogenere tabù a cui tutto sommato questo film potrebbe in teoria appartenere. L’aspetto orrorifico non è effettivamente quello dei mockumentary sovrannaturali più noti (The Blair Witch Project), ma è più sulla falsariga di thriller realistici come L’ultima casa a sinistra.

    Uccidi spesso bambini? No, no… questo sarà il secondo o terzo.

    Ben non è, in definitiva, soltanto l’ennesimo serial killer che agisce in modo psicotico o imprevedibilmente minaccioso: è un archetipo del genere, un simbolo vivente, che si diverte a disseminare di meta-citazioni le proprie battute, oltre a (s)parlare di cinema (letteralmente) come un qualsiasi, barboso cinefilo (non a caso, forse, è interpretato uno dei registi!), frustrato quanto affetto da egotismo patologico. I suoi pipponi sul cinema, sulle riprese e sul riprendere tutto, “anche mentre sto pisciando“, sono l’espressione di un cinema voyeuristico di cui soprattutto Videodrome aveva discusso a suo tempo.

    La cosa più interessante de Il cameraman e l’assassino, a questo punto, non è tanto l’essere una specie di gonzo movie (un sottogenere del porno che, per estensione, applichiamo in questa sede solo per via della soggettivizzazione estrema del protagonista mediante l’occhio della telecamera), non è solo la camera che segue passivamente l’assassino qualsiasi cosa faccia, qualunque cosa blateri o desideri commettere: è la normalizzazione degli eventi a rendere cult la pellicola, dotata di toni spaventosi quanto grotteschi (la ritualità degli assassini nel gettare cadaveri da uno stesso dirupo, ad esempio, ricorda una ripetitività più tipica del comico che del thrille). La circostanza è altresì evidente nella scena del compleanno di Ben, a cui (dopo gli auguri formali classii) viene regalata per il compleanno una fondina per la pistola e che alla fine, naturalmente, spinge il protagonista a sparare ad uno dei presenti, nell’imbarazzo (e non nell’allarme) dei presenti.

    Il cameraman e l’assassino venne presentato durante la Settimana internazionale della critica del 45º Festival di Cannes. In Italia è uscito in doppio formato VHS per la PolyGram Video e in DVD Tartan.

    Una videocamera che riprende tutto.

    Una videocamera che documenta l’orrore senza pietà, senza empatia, senza anima.

    Una trovata shockante che riprende classici come L’occhio che uccide, ripresa e rielaborata da tantissimi altri film – tra cui citiamo a campione random tra quelli che abbiamo visto e discusso su questo sito: il seminale The war game, gli inquietanti e più recenti Antrum o The Poughkeepsie tapes. Non è difficile immaginare, peraltro, che lavori come The last horror movie si siano molto ispirati a quest’opera, tanto da costituirne quasi un’elaborazione in chiave grottesca.

    Non si lasci intimidire dalla cinepresa! (Ben)

    Il cameraman e l’assassino (traduzione originale del titolo C’est arrivé près de chez vous, ovvero “è successo vicino a te” / “vicino a casa tua” ) è denso di riferimenti alla cronaca nera, mostrando la figura iconizzata di un killer anonimizzato, qualunque, che agisce senza preavviso, sulla falsariga di una frustrazione sessuale e/o relazionale. È un thriller che mette a disagio, che vive sulla verosimiglianza, che racconta con cinismo la disuminizzazione del soggetto e prova, a suo modo, ad analizzarne le possibili motivazioni.

    Non mancano nemmeno i riferimenti a terze parti: su tutte, il cocktail che si scola Ben dal nome Petit Grégory (Piccolo Gregory, nel doppiaggio italiano), che è un riferimento all’omicidio di Grégory Villemin, un caso di cronaca realmente avvenuto in cui il bambino di appena quattro anni venne trovato morto nel 1984, in un fiume, con le mani e le gambe legate. L’oliva nel cocktail legata ad una zolletta di zucchero dovrebbe essere, di fatto, un riferimento alla circostanza.

    Il cameraman e l’assassino viene anche ri-presentato al festival torinese ToHorror 2022.

  • Uzumaki: le spirali mortali dirette da Higuchinsky

    Uzumaki: le spirali mortali dirette da Higuchinsky

    Un piccolo villaggio giapponese è ossessionato da una singolare allucinazione: spirali che appaiono nelle forme e nei modo più impensabili, portando alla morte gli abitanti che le vedono. Due ragazzi ed un giornalista si interessano al caso…

    In breve. Un horror giapponese macabro, originale e ben diretto, ricco di sorprese e colpi di scena.

    Lanciato da una tagline forse un po’ goffa e ridondante (“cosa si nasconde dietro il vortice infinito delle spirali?“), Uzumaki si ispira ad un manga omonimo che, all’epoca dell’uscita del film, non era ancora stato finito. Questo significa che il suo finale e le sue premesse sono state formalizzate in modo parzialmente indipendente dalla storia cartacea, il che finisce per essere più un pregio del film che altro.

    Molte scene con vortici in movimento (la spirale possiede una valenza ipnotica quando surreale, e si presta alle intepretazioni più svariate) sono state realizzate in digitale (quella del cielo, ad esempio), mentre altre sono puramente analogiche (la scena della modellazione della ceramica). In genere le spirali si ritrovano nei contesti più variegati ed imprevedibili: appaiono nelle decorazioni di un dolce, formano i capelli di una delle ragazze della scuola, appaiono negli occhi delle persone sempre più ossessionate dalle stesse – in genere ricalcano una paranoia abitudinaria che sembrerebbe molto fedele a quella del fumetto originale (riedito di recente dalla Star Comics in Italia).

    Hai detto che dovresti proteggermi, come se le cose girassero nel modo che tu vuoi. Se questo non è un sogno, le persone stanno morendo veramente. Questa città è maledetta da un vortice.

    Che si tratti di un film tratto da un manga, del resto, si intuisce dal tono vagamente didascalico della storia, che assume una valenza istruttiva e mostra la candida semplicità della protagonista a differenza del cinismo del mondo circostante. Come di consueto, poi, l’horror di questa nazionalità cede parecchi il passo ad un fatalismo di fondo, che caratterizza le circostanze di morte e che il più delle volte è inspiegabile e piuttosto esplicito. La principale causa di morte, comunque, è legata alle ossessioni morbose delle proprie vittime, attraverso incubi di vario ordine e grado (gli occhi che ruotano vorticosamente, le espressioni rassegnate ed assenti, la centrifuga della lavatrice, l’insetto strisciante che cerca di entrare nell’orecchio della donna durante il sonno, i lumaconi umanoidi). La componente horror aumenta con lo scorrere dei fotogrammi, e le uzumaki assomigliano ad una subdola maledizione senza un motivo vero e proprio, una sorta di demone interiore che invade la tranquillità del villaggio in cui è ambientata la storia, votata allo sterminio dell’umanità. Stesso motivo per cui ricorrono spesso nel film il 9 ed il 6, numeri che ricordano una spirale e che vengono inquadrati spesso da Higuchinsky (nome d’arte del regista Akiro Higuchi).

    Se le dinamiche narrative sono quelle classiche dell’horror orientale – da Abnormal Beauty a Ju-on – il film si dipana in modo piuttosto imprevedibile ed originale, formando così uno degli horror apocalittici più interessanti (e passati sottogamba) dei primi anni 2000.

  • Invaders from Mars: il classico di Tobe Hooper che omaggia i cult anni 50 di fantascienza

    Invaders from Mars: il classico di Tobe Hooper che omaggia i cult anni 50 di fantascienza

    Il giovane David scopre che un’astronave aliena è atterrata dietro la collina vicino casa: gli extraterrestri prenderanno possesso delle menti dei suoi cari, e poi di tutti gli esseri umani – fino ad un finale a sorpresa.

    In breve: remake a tinte horror di uno dei più celebri leitmotiv del cinema di fantascienza. Poco amato dal pubblico e dalla critica, a mio avviso ingiustamente snobbato: da riscoprire.

    Remake del classico di culto “Gli invasori spaziali” del 1953, Hooper fornisce qui una buona prova registica, e cambia leggermente il finale dell’originale – rendolo decisamente più inquietante (quanto significativo). Alcuni dettagli della storia appaiono forse poco credibili visti oggi, come quelli diventati teorie complottistiche sugli UFO: faranno sorridere per l’ingenuità con cui i protagonisti ci credono, ma hanno un senso nella storia in sè. Si tratta di un archetipo della fantascienza, una base di conoscenza fondamentale che molti danno per scontata nella cinematografia e nella cultura popolare, ed a cui sembra essersi ispirato Matt Groening, per citare un esempio noto, per alcuni personaggi di Futurama.

    Invaders“, disponibile in DVD Multivision in qualità non eccelsa (almeno nella versione che ho mi sono procurato io), venne inesorabilmente snobbato dal pubblico e dalla critica, tacciato di essere un b-movie di scarso valore: forse per la trama in sè, forse per alcuni dettagli evidentemente puerili (i film andrebbero visti fino alla fine, prima di giudicare). Si tratta di un’opera in effetti più gradevole della media, che ho sempre rivisto con piacere, pur dovendone evidenziare alcuni limiti che lo accomunano, per intenderci, ad un buon numero di abusati stereotipi. Il punto di vista del protagonista è per buona parte quello di un bambino che “vede” la storia, e che ricorda quella – descritta in modo decisamente più incisivo e “politico” – da John Carpenter in Essi vivono. Sono quindi sostanzialmente d’accordo con chi ha scritto che il film “non presenta pregi particolari, ma […] tutto sommato è in grado di farsi voler bene“.

    David Gardner (Jimmy, nella copertina del DVD) è un bambino americano affascinato dalla fantascienza e dagli UFO; è anche piuttosto incompreso, a scuola come in famiglia, a parte da parte del padre con il quale condivide la passione per l’astronomia. Una notte si sveglia a causa del rombo di un’astronave aliena, atterrata dietro la collina, ma i genitori non fanno in tempo a vedere nulla e ovviamente non credono alla sua storia. Tutto il film è quindi incentrato sul mutato comportamento da parte degli uomini che circondano David, e che – a cominciare dal padre, a finire con i poliziotti o la sua maestra – fanno scatenare il classico leitmotiv sci-fi anni 50: un singolo solitario che nota qualcosa di strano, che non viene creduto e che è destinato a soccombere a causa conformismo della maggioranza crescente, che si adegua lentamente ai “nuovi padroni”.

    La stranezza notata, se ci fosse bisogno di dirlo, è rappresentata da parenti, amici e conoscenti di David che iniziano a comportarsi in modo diverso: il pubblico lo sa, e la tensione sale proprio perchè nessuno crede all’incredibile storia, e finisce per rimanere a sua volta soggiogato. Non male neanche la componente horror, anche se solo accennata: su tutti l’enorme “cervellone” alieno, il risucchio delle vittime sottoterra e la celebre scena della maestra con la rana. Le interpretazioni rendono inquietanti gli alieni che si impadroniscono delle menti delle persone, mediante un’operazione al collo che lascia una ferita visibile, simbolo inequivocabile dell’ “infezione”: il tutto è collocato in uno scenario tipicamente anni 80 degno de “I confini della realtà“. Un buon film in definitiva, tutt’altro che banale quanto genuino nel proprio concepimento.

    “Povero, piccolo umano…”

  • Suspiria di Dario Argento: un horror stregonesco e suggestivo

    Suspiria di Dario Argento: un horror stregonesco e suggestivo

    Suspiria è un film di Dario Argento del 1977, il primo a segnare una svolta stilistica quasi clamorosa nella sua carriera: il regista, infatti, si distacca nettamente dalle tematiche del puro giallo-thriller dei primi film, per avvicinarsi al mondo dell’occulto e dell’orrore in modo piuttosto tradizionale, con vari elementi di spicco.

    In breve: visivamente perfetto, violentemente coreografico, con ambientazioni da incubo e surreale, oltre ad uno stile inconfondibile e che avrebbe fatto scuola. Uno dei migliori Argento di sempre.

    Ispirato (come del resto la trilogia delle Tre madri) al libro Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey, “Suspiria” è ambientato a Friburgo, dove durante una notte di pioggia la giovane Susy arriva da New York per iscriversi alla scuola di danza. In realtà l’edificio  che la ospita è teatro della casa di alcune streghe, retta da una delle madri degli inferi, Mater Suspiriorum, Elena Marcos, nota come “La regina nera”.

    “…la magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti, è creduta”

    Almeno due le scene di culto del film: quella girata nella piazza dei Tre Templi di Monaco, in cui vediamo un volatile sorvolare la testa del pianista cieco che viene poi inspiegabilmente aggredito dal suo stesso cane. Qui esce fuori l’essenza del male secondo Argento, che come in Tenebre e soprattutto in Inferno non ha necessariamente una motivazione razionale: vista oggi bisogna riconoscere che una morte del genere, senza una causa ed un effetto immediatamente riconoscibili, rischia di non avere una giustificazione razionale agli occhi di alcuni spettatori. In fondo bastava pensare un po’ di più ad una storia che forse non si fa seguire con troppa facilità in certi punti: tuttavia ad Argento credo sia sempre piaciuto mantenere un filo di mistero “di troppo” in certi episodi dei suoi film, anche rischiando di risultare inutilmente enigmatico. Eppure le otto coltellate impresse sadicamente alla prima vittima del film, poi impiccata in uno scenario di luci colorate e decorazioni geometriche degne di una vera opera d’arte, dimostrano che il regista non tende affatto a presentare le cose in modo manieristico o come esercizi di stile, ma anche in modo tale da risultare funzionali a descrivere l’atmosfera malata della stregoneria e a lasciare gli spettatori a bocca aperta.

  • Inferno: quando Dario Argento creò un horror macabro e surrealista

    Inferno: quando Dario Argento creò un horror macabro e surrealista

    New York: la studentessa Rose trova il libro di un architetto-alchimista dal titolo “Le tre madri”, nel quale si narra di tre case costruite per ospitare tre streghe (Mater Suspiriorum a Friburgo che abbiano conosciuto in Suspiria, Mater Lacrimarum a Roma e Mater Tenebrarum, per l’appunto, a New York). La curiosità della ragazza la spingerà a scoprire orribili segreti, che nessuno deve conoscere, a prezzo della vita…

    Inferno , nome evocativo quanto semplice per uno dei migliori film del regista Dario Argento, impressiona lo spettatore dalla prima all’ultima scena mostrando un’atmosfera macabra e surreale, perfettamente sintetizzata dal titolo stesso dell’opera. Lavoro del 1980 caratterizzato da una splendida e studiatissima fotografia, estremamente nitida e basata su tanti dettagli minimali che fanno la differenza. Serrature in primo piano mentre scattano, un edificio labirintico e dominato da geometrie spaventose nel quale alberga il male assoluto, violenze spesso illogiche e sceneggiatura claustrofobica: gli ingredienti sono quelli di un horror puro, il secondo dopo il celebre “Suspiria“.

    La trama si richiama proprio a quest’ultimo, legata sottilmente da un sottile filo di esoterismo, stregoneria ed alchimia a cui il nostro regista è da sempre debitore. Lucio Fulci con la sua “trilogia della morte” deve certamente più di qualcosa a quest’opera, tanto da realizzare un suo film altrettanto “lovecraftiano” come  “Paura nella città dei morti viventi“, con cui (fermo restando le dovute distinzioni) le somiglianze stilistiche tra i due sono certamente numerose.

    Inferno” venne criticato per la presunta illogicità di alcuni passaggi, come la celebre sequenza in cui l’antiquario annega i gatti che lo tormentavano, viene sbranato dai topi ma anche letteralmente “terminato” dall’uomo di un chiosco nelle vicinanze, che invece di soccorrerlo lo pugnala alla gola. Evidentemente il concetto di maledizione (su cui è basato l’intero film, assieme alla stregoneria) era estraneo alla critica dell’epoca, forse troppo ingenua o troppo assorta a contemplare se stessa. Del resto qualsiasi film che presenti un astrattismo violento – come “Inferno” fa per quasi tutto il suo scorrere – è destinato, un po’ per definizione, ad essere capito solo dai fan, da coloro che vivono un minimo di empatia con le storie narrate.

    Un film da antologia dell’orrore, che vedrà la sua conclusione solo 30 anni dopo con “Le tre madri“, un ritorno ai fasti del passato certamente da non sottovalutare.

    « Ce ne sono molti di misteri in quel libro, ma l’unico grande mistero della vita è che essa è governata unicamente da gente morta… » (Kazanian)