Recensioni

Raccolta di opere che qualcuno deve aver visto in TV, al cinema o in DVD. Trattiamo soprattutto classici, horror, thriller e cinema di genere 70/80. E non solo. Contiene Easter Egg.

  • Terrore nello spazio è la fantascienza futuristica di Mario Bava

    Terrore nello spazio è la fantascienza futuristica di Mario Bava

    Da non confondersi con il successivo Terrore dallo spazio profondo, Terrore nello spazio di Mario Bava è un film classico del puro fanta-horror.

    Ambientato interamente durante una missione spaziale, racconta di un equipaggio di venti persone dentro due navicelle, i cui astronauti si imbattono in una civiltà aliena ostile. Questo almeno è ciò che intuiscono dalle prime battute: la nave viene attratta da un pianeta sconosciuto ricoperto di nebbia, la gravità diventa quattro volte più del normale e fa perdere i sensi all’equipaggio, come se non bastasse – non appena atterrati – gli astronauti iniziano ad azzuffarsi tra loro senza una ragione apparente. Solo l’intervento di autorità del comandante riesce a evitare il peggio, mentre l’altro equipaggio è meno fortunato. Si prosegue la storia di un gruppo di sopravvisuti costretti a lottare contro alieni ostili (per quanto poi il finale suggerisca che non si trattava di terrestri, grazie a un piccolo colpo di genio della sceneggiatura), mentre l’eterna lotta tra Bene e Male è in realtà una lotta intestina, a causa della tendenza maggioritaria ad autodistruggersi da parte dell’uomo.

    Non è difficile accorgersi fin dalla prima visione che l’orrore di cui si parla in questa gemma della fantascienza italiana è puramente psicologica, interiore, accennata, ossessiva – tant’è che a un certo punto una delle persone dell’equipaggio afferma che l’alieno parassita è come se ingaggiasse una “lotta interiore” dentro se stesso. Questo naturalmente serve anche a compensare la scarsità di effetti speciali per un film che riesce, con pochi mezzi e tante idee, a risultare comunque visionario: il pubblico viene sorpreso alle numerose trovate che vengono tirate fuori, inclusa la presenza di corpi posseduti da alieni parassiti che si comportano di fatto come zombie (La notte dei morti viventi, vale la pena ricordarlo, uscirà solo tre anni dopo questo film). Come ulteriore nota di merito si può rilevare che i protagonisti seguono una sorta di religione materialista, ispirata ai principi di natura scientista e che parla degli atomi delle particelle come se fossero espressione di volontà divina (scena del funerale degli astronauti), con preghiere che sembrano tratte da uno scritto di Deleuze e Guattari. Questo dettaglio non è un vezzo, ma possiede una funzione specifica all’interno della storia – come sarà possibile osservare visionando il film per intero. In tal senso ci sentiamo di dire che terrore nello spazio sia sicuramente uno dei film di sci-fi più avanguardistici mai girati, sia per lo svolgimento della storia che per le conseguenze tutt’altro che ovvio della conclusione della stessa. La sceneggiatura sempre guardare a un futuro prossimo in cui bisognerà liberarsi dell’ottica e egocentrica che caratterizza gli esseri umani, in favore di una sorta di internazionalismo spaziale che sembra peraltro possedere vaghi spunti accelerazionisti (civiltà aliene che cercano posti in cui poter sopravvivere, più rapidamente possibile e per evitare di estinguersi).

    Visto negli anni successivi, gran parte della critica ha suggerito che questo film possa aver grandemente ispirato Ridley Scott, e questo sia per Alien (1979) che per Prometheus (2012). Non ci sentiamo di dar loro torto: per quanto i film di Scott brillino l’uso di effetti speciali e per la componente smaccatamente horror, è assodato che questa caratteristica sia archetipica di già di questo film, ricordando che siamo nel 1965, tre anni prima che uscisse un film avvenieristico come 2001 Odissea nello spazio. Gli elementi narrativi sono del resto analoghi: si tratta sempre di missioni di astronauti alla ricerca di vita su pianeti sconosciuti, nei quali troveranno resti di antiche civiltà – e soprattutto alieni parassiti. Quest’idea del parassitismo come villain della storia è naturalmente comune a un altro cult del periodo come l’invasione degli ultracorpi, con la differenza che il clima claustrofobico viene costruito all’interno di una angusta astronave e, soprattutto, come poi farà John Carpenter ne La cosa, il pubblico non sa quale degli astronauti sia infetto dal parassita quale invece no.

    Gran parte del film viene girato all’interno di un teatro di posa in condizioni proibitive – Bava ebbe a dire, in una celebre intervistaVorrei che la gente, la critica, si rendesse conto delle condizioni nelle quali sono costretto a girare i miei film.
    Per Terrore nello spazio non avevo nulla, ma realmente nulla a disposizione. Dico, c’era il teatro di posa, tutto vuoto e squallido, perché mancavano i soldi: avrebbe dovuto rappresentare un pianeta. Che ho fatto allora? Nel teatro affianco c’erano due grosse rocce di plastica, residuato di qualche film mitologico, le ho prese e messe in mezzo al mio set, poi per coprire il pavimento ho seminato quegli zampironi fumogeni e ho oscurato lo sfondo, dove c’era solo la parete bianca. Poi, spostando quelle due rocce da un posto all’altro ho girato il film. Le sembra possibile?” – costringendo il regista a ricorrere a stratagemmi di vario genere.

    La fantascienza pre-ballardiana come questa sa essere un genere decisamente complesso dal punto di vista scenografico, chiaramente, ma il fatto che si noti poco la mancanza di mezzi depone per far credere che si tratti, a ragione, di uno dei migliori film di fantascienza italiani mai girati. Tanto più che si tratta dell’unico esperimento di Mario bava nel genere, da lui molto amato eppure prodotto soltanto in questo unicum. Una tradizione che in Italia non ha mai mai preso troppo piede, in effetti, e sicuramente le prime avvisaglie si vedevano già allora: motivo per cui questo film rimane un piccolo gioiello del genere, ricco di trovate creative e sottile ironia (il finale del film è l’apoteosi in tal senso: per non rischiare di perdersi nello spazio, l’equipaggio alieno decide di atterrare proprio sul pianeta Terra).

    Distribuito negli USA con il titolo Planet of the vampires, incassa 251 mila dollari dell’epoca (per un film di fantascienza del 1965 sembra ancora più notevole), mentre la sceneggiatura è tratta da un racconti di Renato Pestriniero (Una notte di 21 ore, disponibile integralmente su altrimondi.org). Il film viene coprodotto da AIP e Italian International Film, con il finanziamento della spagnola Castilla Cooperativa Cinematográfica.

    La locandina dell’edizione americana, per inciso, promette senza mantenere: si vedono gli astronauti combattere con le creature di cui, nel film, vediamo solo gli scheletri (probabili esseri di altri pianeti non scampati al peggio).

    Immagine tratta da https://hotcorn.com/it/film/news/alien-40-terrore-nello-spazio-mario-bava-film-cult-ridley-scott/
  • Le colline hanno gli occhi è l’orrore sociologico di Wes Craven

    Le colline hanno gli occhi è l’orrore sociologico di Wes Craven

    Una famiglia con l’auto in panne si ritrova casualmente in una zona desertica: poco dopo si imbatte in un gruppo di criminali cannibali. Les jeux sont faits.

    La seconda opera di Craven, che focalizza ancora una volta un horror “sociologico” estremo e molto disturbing, incentrato sul comportamento di una famiglia ordinaria trovatasi in una situazione molto rischiosa, e capace di diventare crudele per sopravvivere. Se state pensando di averla già sentita: quasi certamente avete visto qualche clone di questo film.

    Suggestioni simili a quelle del precedente L’ultima casa a sinistra (non manca la solita citazione “fallica” di Freud) di cinque anni prima: Craven rimescola le carte del rape ‘n revenge e crea “Le colline hanno gli occhi“, un film in cui il regista si autocita con una certa classe, riproponendo l’idea del gruppetto di cannibali nascosti, in modalità forse improbabile nella realtà, nel deserto californiano. Non mancano personaggi stereotipati, tra cui la famiglia puritana, il poliziotto in pensione che la sa lunga e gli umani deformi che vivono lontano dalla civiltà. C’è da dire che la qualità audio e video non è certo elevata, del resto stiamo parlando di un low-budget puramente settantiano e forse qualcuno potrebbe trovare più interessante guardare il remake del 2005: personalmente non ci riesco, è più forte di me, rifare i classici è una trovata a mio avviso oscena nella quasi totalità dei casi.

    Questo film è, peraltro, il progenitore di una trafila di b-movie assai su questa falsariga, tanto che (ad esempio) Skinned Deep ne ricalca fedelmente più di una dinamica; inoltre è possibile, a mio parere, qualche parallelismo con Funny Games, anche se lì il regista ha ribaltato completamente l’assunto di Craven, mostrando vittime inermi nelle mani dei cattivi, completamente incapaci di reagire. Il concetto di fondo non cambia: lotta per la sopravvivenza tra mondi differenti, e forse la nota sociologica più curiosa si registra nell’inquietante parallelismo tra due mondi diversi solo in apparenza. Non il top dell’originalità e dello spunto di discussione, considerando le sassate scagliate anni prima già da Hooper (e forse da qualche altro regista indipendente), ma alla fine si tratta di un buon horror e questo dovrebbe essere messo in primo piano rispetto al resto. Tra le curiosità, i nomi dei “cattivi” che corrispondono a quella degli dei della mitologia classica (Plutone, Mercurio, Giove e Marte); probabilmente cult anche solo per il ferocissimo finale, da vedere senza esitazione anche oggi, ma non per tutti gli stomaci.

  • Corti di fantascienza degni di nota: “Pathos” (2009, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Fabio Prati)

    Corti di fantascienza degni di nota: “Pathos” (2009, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Fabio Prati)

    In un futuro post apocalittico la Terra è un deserto inospitale e sommerso di spazzatura: gli uomini vivono in squallide stanze chiuse, nelle quali pagano mediante carta di credito anche per sognare…

    In breve. Corto “mordi e fuggi” all’italiana, che cita apertamente il tema distopico alla Verhoeven, si fa contaminare sia da “The cube” che da “Matrix”, ha certamente considerato la crudeltà di qualche post-apocalittico cult (pur senza svilupparla, di fatto) ed esce fuori in assoluta autonomia, senza poter essere tacciato di citazionismo o scopiazzatura.

    Mentre viviamo, il Grande Fratello ci osserva, e ci suggerisce come vivere, come pensare e cosa sognare: i cinque sensi non sono più gratuiti, nel futuro esiste un vero e proprio abbonamento da rinnovare. Chi ritarda per qualsiasi motivo l’abbonamento periodico, si ritroverà a perderne l’uso. Film forse troppo breve (a volergli trovare un difetto) e sostanzialmente privo di un vero e proprio intreccio (ma questo, in fondo, non è un problema): forse avrebbe potuto essere maggiormente arricchito da dettagli di vario tipo, caratterizzazioni dei personaggi, interazioni.

    Probabilmente il tutto, confinato tra inquietanti schermi televisivi alla Videodrome e squallide stanze semi-vuote, finisce per accentuare il senso di isolamento degli individui e, in tal senso, è una mossa molto azzeccata. Inquadrature e fotografia cyberpunk da brivido: un ottimo prodotto, in definitiva, per chi ama l’essenzialità e la fantascienza classico-complottistica.

    L’interpretazione di Fabio Prati, vittima della macchina “pathos”, è davvero convincente ed intensa, e merita certamente una citazione finale.

  • La crisi esistenziale durante i controlli alla dogana

    La crisi esistenziale durante i controlli alla dogana

    Episodio: Man’s Crisis of Identity in the Latter Half of the 20th Century 1.5 (“Monty Python”, 1969)

    Il quinto episodio della prima serie del Flying Circus va in onda il 16 novembre 1969, registrato nel mese di ottobre dello stesso anno; la novità di questo episodio è legata all’essere stato il primo trasmesso a colori.

    Si configura fin da subito come un episodio fortemente virato sull’assurdo, a cominciare dal classico “Confuse-a-Cat“, nel quale due coniugi (uno interpretato da Terry Jones) chiamano un veterinario per via del proprio gatto, in preda ad una sorta di inedia esistenziale. E quale migliore soluzione per uscire dalla depressione che sottoporlo al trattamento “confuse a cat“? I Python allestiscono un palco nel giardino, guidati da un colonnello che ne seguirà le operazioni, e si esibiscono in uno spettacolo teatrale delirante – in cui personaggi, vestiti, cappelli e bidoni della spazzatura appaiono e scompaiono in continuazione. Il gatto sarà debitamente confuso dalla situazione e tornerà a comportarsi da ordinario animale domestico.

    Segue “The Smuggler“, il celebre sketch della dogana, in cui ancora una volta domina il meccanismo dell’inversione dei criteri di valutazione: un contrabbandiere piuttosto confuso non viene fermato dall’addetto ai controlli, mentre non tocca la stessa sorte ad un innocuo prete. A Duck, a Cat and a Lizard (discussion) è, di suo, un piccolo capolavoro del surreale: un micro talk show in cui il conduttore chiama a discutere di importanti temi tre animali di gomma (un papero, un gatto ed una lucertola), utilizzando uno standard che diventerà molto ricorrente anche in scenette successive. È la volta di Vox Pops on Smuggling, cioè interviste alla gente comune sui problemi doganali, su cui quasi nessuno riesce a dire qualcosa di sensato (si segnala un John Cleese versione Gumby, stereotipo dello scozzese delle Isole Shetland, dal limitato vocabolario e capacità mentali, qui alla sua prima apparizione).

    Stessa falsariga che manterrà, poco dopo, il piccolo frammento Letters and Vox Pops dedicato alle ipotetiche lettere degli spettatori sull’argomento. Police Raid è un simpatico sketch dallo stile tipicamente english, in cui un poliziotto fa irruzione in un locale alla ricerca di sostanze stupefacenti, per poi tirare fuori un sandwich dalla tasca ed incolpare (presumibilmente) qualcuno dei presenti. Newsreader Arrested, poi, è una delle migliori parti dell’episodio: durante la lettura di un fatto di cronaca, viene mostrata la foto del presunto colpevole che non è altri se non il giornalista che sta leggendo la notizia (che poi viene arrestato in diretta). Erotic Film insiste su una scena erotica per diversi secondi, e si segnala per una tecnica che renderà celebre un film come “Una pallottola spuntata“: al posto di mostrare una scena di sesso, viene riportato un montaggio di scene – torri che si sollevano, mare in tempesta, aerei che atterrano disastrosamente – fortemente allusive (ma in questo caso, infine, un colpo di scena meta-cinematografico sembra suggerire che siano gli spettatori ad aver pensato male).

    Silly Job Interview è uno dei capolavori dei Monty Python: un colloquio di lavoro in cui le domande poste al candidato sono illogiche, tendono a metterlo a disagio e lo portano volutamente a degenerare e litigare con gli altri. Visto oggi, fa probabilmente ancora più ridere che all’epoca, per via della sua potente carica destabilizzante, a mio avviso rimasta intatta fino ad oggi. Sempre in tema lavorativo, lo straniante Careers Advisory Board e Burglar/Encyclopedia Salesman ci mostrano infine un venditore di enciclopedia che entra in casa di una signora, fingendosi… ladro.

    Ancora una volta un episodio assolutamente superiore alla media, sia come idee che come ritmo.

    Le 45 puntate del Flying Circus sono disponibili, in inglese sottotitolato in italiano, all’interno di un bel cofanetto in 7 DVD, che trovate facilmente su Amazon: Monty Python’s – Flying circus (complete series).

  • Porco rosso: il saggio antifascista di Miyazaki

    Porco rosso: il saggio antifascista di Miyazaki

    1930: Marco è un veterano della prima guerra mondiale che è diventato un cacciatore di taglie nonchè un maiale antropomorfo.

    In breve. Film di animazione giapponese dai toni tendenzialmente leggeri, quanto impegnativi e politici da altri. Concepito sulla falsariga di un manga scritto dallo stesso regista, assume un tono serioso da un lato e scanzonato dall’altro.

    Scritto e diretto dal co-founder dello Studio Ghibli Hayao Miyazaki, Porco Rosso esce nel 1992 come prodotto di intrattenimento puro, dai tratti leggeri e disimpegnati e, come raccontato da Gualtiero Cannarsi che ne ha curato uno specifico doppiaggio italiano (uscito come Il maiale rosso, anno 2010, Festival del Cinema di Roma), “un film leggero per uomini d’affari stremati da lavoro, ipossia cerebrale e jet-lag“. La sobrietà tematica di Porco rosso, a ben vedere, è relativa: il protagonista, nello svolgersi della storia, è diventato un maiale antropomorfo (che è un dettaglio quasi dato per scontato, tanto più che non viene esplicitamente detto come ciò sia avvenuto, anzi il suo racconto è per certi versi vago e rimane tendenzialmente poco impresso nella memoria). Ma è soprattutto un bersaglio del regime fascista.

    La storia è ambientata in Italia nel Ventennio: Marco (nella storia, in molti casi, più semplicemente “Porco“) è considerato un sovversivo pericoloso, un maiale in ogni senso, il che assume una parvenza di vera e propria metafora (un porco rosso, peraltro, quindi tendenzialmente comunista). Viene anche invitato a rientrare nell’esercito e ad abbandonare la propria attività di cacciatore di taglie dell’aria, cosa che rifiuta: questo perchè piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale. Nella sequenza surreale e commovente in cui assistiamo alla storia della sua trasformazione, non capiamo effettivamente da cosa sia dipesa: verrebbe da pensare ad un sortilegio, ma per certi versi (come suggerito dalla scheda del film sulla rivista online AsiaMedia) sembra essere dovuta soprattutto al senso di colpa e di sfiducia, nell’essere l’unico sopravvissuto ad un attacco aereo che ha ucciso tutti i suoi compagni di volo.

    L’aspetto sentimentale, poi, occupa – con un stile essenziale e garbato costruito più su pudiche allusioni, mai troppo esplicite – buona parte della storia: Porco si barcamena tra almeno due relazioni amorose, di cui una totalmente idealistica con la nipote diciassettenne dell’uomo che ha ricostruito il suo aereo (Fio) che ha anche deciso di accompagnarlo in missione, e l’altra altrettanto vaga con Gina, cantante e proprietaria di un locale molto frequentato dai “pirati dell’aria”. Nella storia c’è giusto il tempo di costruire un antagonista, Curtis, un americano presuntuoso e donnaiolo che sfida Porco in una battaglia aerea, con la promessa di sposare Fio se dovesse averla vinta.

    Al di là dell’aspetto politico – aspetto da non sottovalutare – Porco Rosso è un omaggio alla passione di Miyazaki per la storia dell’aeronautica, tanto che lo stesso nome Ghibli fa riferimento al bimotore del Caproni Ca.309 prodotto realmente negli anni ’30 dalla Caproni Aeronautica Bergamasca, e molti piloti citati sono realmente esistiti (Francesco Baracca, Adriano Visconti, Arturo Ferrarin). Inizialmente era stato concepito come film-tributo di circa 40 minuti per conto della Japan Airlines, e poi l’idea venne espansa e divenne un vero e proprio lungometraggio. In seguito, il regista lo definì semplicemente foolish: una piccola follia, pensata come mashup tra il mondo delle fiabe classiche e quello, dai contorni più vaghi, di quelle per adulti. Questo dovrebbe autorizzarsi a non urlare troppo facilmente al capolavoro, anche in considerazioni di alcuni rallentamenti narrativi che sembrano, per certi versi, allungare il brodo più del dovuto.

    Tenendo conto della genesi della storia e della sua derivazione, la valutazione rimane positiva per quanto, ovviamente, probabilmente non dotata del pregevole dono della sintesi. Questo per quanto siano obiettivamente divertenti – essendo un film di intrattenimento puro per circa metà della sua portata – le allusioni, i siparietti e gli stereotipi bonari sugli italiani: i pirati dell’aria più tonti che cattivi, le donne giovani quasi sempre incantevoli (Gina, ad esempio, evoca nelle fattezze la femme fatale modello Fujiko Mine di Monkey Punch), le anziane sempre cordiali, le bambine frivole e pestifere, lo stesso Porco che rappresenta l’italiano ironico, beffardo e anarcoide (e naturalmente donnaiolo).