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  • Requiem for a dream: la tragedia cinematografica per eccellenza

    Requiem for a dream: la tragedia cinematografica per eccellenza

    Una storia di speranze e utopia, trasfigurata nel vissuto di quattro personaggi diversi, tutti accomunati da storie di dipendenza.

    In breve. Convulso e spietato trattato sulle dipendenze in genere, in una delle migliori prove registiche di Aronofsky (Il teorema del delirio): uno di quei film che restano, semplicemente, nella storia.

    Caratteristiche tecniche

    Basato su un romanzo di Hubert Selby Jr del 1978 con lo stesso nome (a quanto pare di difficile reperibilità in Italia), Requiem for a dream è uno di quei film – piacciano o meno allo spettatore – difficili da dimenticare: vero e proprio delirio di immagini, a tratti paragonabile ad un lunghissimo videoclip, inframezzato da primi piani simbolici, quasi da documentario quanto esplicativi di ciò che sta accadendo. In questi termini, e per il suo marcato realismo, riesce a produrre un effetto spaventoso sullo spettatore più di qualsiasi horror, con cui condivide una rappresentazione della realtà totalmente spietata e priva di compromessi. Girato magistralmente e con una tecnica di montaggio fuori dal comune, Requiem for a dream è girato spesso e volentieri come sequenza di frammenti di scene, il che conferisce un senso di spiazzamento allo spettatore senza mai, peraltro, degenerare o abusare della tecnica stessa. In media, IMDB ha conteggiato ben 2000 tagli differenti in un girato medio di un’ora, quando normalmente ne conterrebbe al massimo 700.

    Storia del film

    Se è vero che l’intera storia si basa su un assunto credibile più che altro negli anni ’70 (la superficialità delle cure mediche ed il maltrattamento dei pazienti pare fossero comuni, all’epoca), il film riuscì a shockare anche in tempi moderni, soprattutto perchè non sono presenti indizi che riescano a far capire con certezza la sua esatta collocazione temporale. Il regista stesso, del resto, ha descritto Requiem for a dream come una storia a-temporale, incentrata sulla dipendenza in quanto tale, e sugli effetti in grado di produrre su quattro personaggi diversi: dipendenza da eroina, in apparenza, poi magistralmente estesa e messa a confronto con una qualsiasi altra subordinazione (sia essa teledipendenza, dipendenza dal fumo, mito della bellezza perduta, e – per estensione – ossessione per un sogno). Per Aronofsky può cambiare la causa, in sostanza, ma il concetto di fondo resta lo stesso, tanto da presentare le storie diverse di quattro personaggi – accomunati da un’ambizione che non realizzeranno mai – e parallelizzarle, orientandole improvvisamente (ed in modo shockante per lo spettatore) in una direzione totalmente annientante, nella quale non esiste possibilità di redenzione.

    E questo, si badi bene, anche a costo di generalizzare il concetto tanto da renderlo grottesco, in linea con il fatto che le pillole dimagranti assunte da Sara – in realtà amfetamine a sua insaputa – la rendono fragile e vulnerabile come i tre ragazzi. Al fine di garantire una massima immedesimazione dei personaggi, in effetti il regista impose a Leto ed alla Burstyn di evitare rapporti sessuali e di assumere zucchero per circa un mese, in modo da interpretare ottimamente la mentalità e l’atteggiamento di una vera vittima della dipendenza.

    A testimonianza ulteriore di questo feeling subdolo e non necessariamente legato al mondo della droga (vista come sostanza illecita da procurarsi per strada, quantomeno, e per via del fatto che viene proposto un accostamento significativo con la teledipendenza), la parola “eroina” non viene mai pronunciata nel film. Requiem for a dream non è necessariamente – o almeno, non soltanto – un film che racconta la degenerazione indotta dalla droga, bensì un lavoro molto più ad ampio raggio, diretto peraltro in maniera sublime tanto nelle sequenze più crude (soprattutto sul finale) quanto in quelle surreali (i personaggi televisivi che Sara adora le entrano in casa, e la deridono grottescamente).

    Per queste ragioni è probabilmente uno dei migliori film usciti nel periodo, da reperire senza esitazione ancora oggi.

    Requiem for a dream, dove vederlo?

    Il film è disponibile in streaming su Prime Video.

  • Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Noroi The Curse: il mockumentary paranormale di Shiraishi

    Masafumi Kobayashi, giornalista che si occupa di paranormale, scompare misteriosamente dopo l’incendio della sua casa, episodio che provoca la morte della moglie. L’uomo aveva appena realizzato un documentario che indagava su alcuni singolari fenomeni paranormali…

    In breve. Nonostante i presupposti non siano incoraggianti e la tagline di apertura – “Questo documentario è ritenuto troppo inquietante per una visione pubblica” – rischi di far sorridere il pubblico più smaliziato, “Noroi” sa ben raccontare una storia in stile falso-documentario, sia con grande consapevolezza dei mezzi che con buona scelta di intreccio, personaggi ed ambientazione. Una versione riveduta, arricchita e corretta di The Blair Witch Project, con numerosi pregi rispetto a questa citatissima (e sopravvalutata) pellicola. Un film avvolto da una spirale di sovrannaturale mai di bassa fattura, e dal taglio quasi “scientifico”: da non perdere.

    Kagutaba: a tool that is capable of causing disasters

    Noroi è un film ancora non disponibile sul mercato italiano, ma che si rivela piuttosto interessante ed originale, pur eccedendo in un unico difetto (l’eccessiva lunghezza: circa due ore): i suoi pregi lo rendono comunque consigliabile, specie se collocato all’interno di un genere che, ad essere onesti, troppo spesso si limita a fare rehash di luoghi comuni, storie e personaggi già visti in decine di altre salse. Del tutto privo delle caratteristiche che rendono detestabile il genere (vedi le riprese troppo traballanti e l’eccessiva essenzialità degli intrecci), Noroi merita una visione da parte del pubblico horror di ogni “ordine e grado”. Diversi sono i dettagli, infatti, che sono degni di essere raccontati: il rituale del demone Kagutaba, l’enigmatico comportamento del sensitivo freak, la comparsa di un dettaglio durante la seconda visione della videocassetta, dinamica che cheggia quasi il gioco di specchi dietro il quale si cela l’assassino di Profondo rosso. Il nastro del mockumentary, preannunciato come “troppo sbalorditivo per essere immaginato“, finisce poi per suggerire indirettamente la strategia del regista Shiraishi: puntare fin dai primi fotogrammi su ambiguità svelate progressivamente (a volte solo basandosi su suggestioni inquietanti) che dovrebbero far vedere – da un momento all’altro – qualcosa di orrorifico allo spettatore.

    E, di fatto, la scelta di mostrare quasi subito la maschera dagli occhi cavi del demone Kagutaba indica che non si tratta del solito gioco di accenni, suggestioni e rimandi mai esplicitamente mostrati: l’orrore è suggestivo, tangibile e concreto, per quanto suggerisca più malattie psichiche o mentali che vere e proprie entità maligne. Il vero protagonista della pellicola, ovvero l’occhio vigile e mal celatamente voyeristico della telecamera (vedi Peeping Tom o Marebito), cerca di filmare il non-filmabile, di indagare a fondo sui vari livelli di realtà per cercare di imprimere su nastro ciò che si nasconde sotto un ennesimo velo di Maya. Il tutto, come si conviene, tendendo progressivamente un filo della tensione, mantenuto piuttosto credibile fin dall’inizio, e schematizzando il film in micro-sequenze quasi a sè stanti, mediamente di cinque minuti ciascuna. Concentrandosi su vari aspetti del paranormale (ESP, telecinesi e via dicendo), e frammentando con cura le scene – che questa semplice tecnica fanno diventare una continua scoperta per lo spettatore – fanno sì che, pur inserendo topoi del terrore già usati in altre pellicole (le voci di bambini che piangono, la scomparsa della sensitiva e via dicendo) il film non risulti mai “già visto” o, peggio, malamente adattato. Tante sezioni, in definitiva, girate in modo amatoriale e con stili differenti, realizzando sostanzialmente un film vero e proprio che del mockumentary conserva più che altro la sola forma espressiva.

    La stessa definizione di shockumentary, di fatto, sembra in questa circostanza quasi castrante e limitativa, ed andrebbe utilizzata con le dovute riserve e specifiche del caso: Noroi conserva la struttura tipica di un horror paranormale, e non si perde nei dettagli che ipocritamente altri film promettono (senza mantenere) di mostrare. È quindi, in definitiva, il linguaggio accattivante e ben ritmato di “Noroi: The Curse“, a conti fatti, che risulta essere il suo principale punto di forza.

  • Departures: Yojiro Takita

    Departures: Yojiro Takita

    Un film che ci porta alla scoperta delle antiche cerimonie giapponesi di preparazione dei defunti, il “Nokanshi”

    Una pellicola che ha diviso critica e spettatori in due opposte fazioni. La prima che lo considera un capolavoro cinematografico che tocca il cuore, con tutti gli ingredienti giusti: bellezza, musica, morte e abbandono. E la seconda che lo ritiene sopravvalutato. Se le uniche due certezze nella vita sono la morte e le tasse, allora Departures, di Yojiro Takita, film vincitore dell’Oscar 2008 come miglior pellicola straniera, è una certezza fondamentale, arricchita di profondo e macabro umorismo.

    Al centro della vicenda c’è Daigo (interpretato da Masahiro Motoki) giovane violoncellista costretto a lasciare il suo agognato lavoro in un’orchestra sinfonica di Tokyo, che viene sciolta per mancanza di fondi. Distrutto e deluso ammette, con riluttanza, a sua moglie, Mika (Ryoko Hisosue), di essere sprofondato nei debiti per l’acquisto del suo violoncello. Senza vedere all’orizzonte nessun’altra via d’uscita vende lo strumento, e torna alla sua sonnolenta città natale, nella casa che gli ha lasciato la defunta madre.

    Mika accoglie con gioia questo grande cambiamento nelle loro vite. È affascinata dalle storie e dai ricordi che la vecchia casa contiene. Soprattutto cerca di capire i motivi che si celano dietro all’allontanamento del padre di Daigo, che ha lasciato la famiglia quando lui aveva solo sei anni. Abbandono che lo ha profondamente turbato. Alla ricerca di una nuova carriera, Daigo risponde a un annuncio intitolato “Departures” (partenze), pensando si tratti del settore viaggi – in effetti lo è, ma si riferisce soltanto all’ultimo viaggio! ;-) Al momento del colloquio realizza, invece, che l’annuncio ha un errore di stampa: avrebbe dovuto trattarsi di “The Departed” (defunto).

    Il proprietario della società, Sasaki (Tsutomu Yamazaki – già presente in The Funeral di Juzo Itami), un uomo di poche parole, è un artista maestro del nokanshi”, cerimoniale funebre tipico giapponese. Attratto da un lauto stipendio e costretto dalla necessità, fa buon viso alle difficoltà iniziali e – pur inizialmente inorridito dalla realtà del suo lavoro – decide di accettare. Vergognandosi della sua nuova posizione, lo tiene segreto a moglie ed amici, fino al momento in cui Yamashita (Tetta Sugimoto), uno dei suoi amici d’infanzia, lo scopre e comincia ad evitarlo, stigmatizzandolo come a volerlo declassare ad un livello sociale inferiore. Anche Mika lo umilia e gli chiede di dimettersi perché lo trova “impuro”; vuole che abbia un lavoro “normale“, affermazione alla quale lui risponde “la morte è normale”.

    In questo passaggio è evidente la sostanziale differenza di concezione della morte, tra occidente ed oriente. Se fosse in occidente nessuno ci presterebbe particolare attenzione, e tutto si risolverebbe con una “toccatina” apotropaica e qualche battuta usurata. In Giappone, invece, la cosa ha ben altro senso: il rituale funebre, il legame con i morti, il tessere intorno a loro una specie di seconda vita con la cerimonia del “nokanshi”, è parte integrante e forte di quella cultura (da vedere, per esempio, la bellissima sequenza di Vivere di Kurosawa).

    Dopo il primo momento di rifiuto e disgusto, quasi una paura di contaminazione che forse ci detta anche l’istinto di sopravvivenza, che vuole allontanare il più possibile il contatto con la morte, Daigo comprenderà non solo l’importanza della compassione, ma anche quanto sia sottile la linea che separa vita e morte, anzi quanto facilmente si possa annullare la divisione per arrivare a capire che sono complementari: due facce della stessa medaglia. Emblematica in tal senso è la scena dei due salmoni che risalgono a fatica il fiume sfidando la corrente contraria, mentre uno, morto, ridiscende. Daigo si domanda il perché di tanto sforzo solo per andare a morire, e l’anziano che gli è accanto risponde che i salmoni vogliono morire laddove sono nati. Ogni cosa finisce dove è iniziata: Daigo diventerà un abile tanato-esteta.

    L’accurato cerimoniale inizia con la pulizia-purificazione del cadavere (senza che chi assiste veda anche un solo lembo di pelle), per prepararlo a iniziare il suo nuovo percorso, e proseguire riportando la bellezza della vita nei volti sfigurati dalla morte: come un ultimo gesto d’amore sia verso i defunti, che così manterranno la loro bellezza per sempre, ma soprattutto per coloro che li avevano amati, che potranno mantenere il ricordo di com’erano in vita i loro cari. Per completare il viaggio alla ricerca di se stesso e dell’armonia a Daigo manca un ultimo passaggio, quello della riconciliazione con il padre che lo aveva abbandonato da piccolo, e contro il quale mantiene il forte rancore di chi si sente rifiutato.

    Tra le scene ricorrenti c’è quella di Daigo bambino che suona il violoncello in riva al fiume, e dello scambio di due sassi tra padre e figlio, con la promessa, poi non mantenuta, che ce ne sarebbe stato uno ogni anno. Il significato di questo scambio di sassi resterà indelebile nella sua memoria, a differenza del volto di suo padre, che pur sforzandosi Daigo non riuscirà a ricordare.

    Ed è qui che appare evidente che Departures è anche un bell’esempio di come possa evolvere il complesso paterno. Questo spiega, a sua moglie mentre le porge un sasso:

    Nell’antichità, quando gli uomini non avevano la scrittura, per comunicare cercavano un sasso la cui forma esprimesse i loro sentimenti e lo inviavano ad un’altra persona.  Chi lo riceveva, dalla sensazione al tatto e dal peso capiva i sentimenti di chi lo aveva inviato. Un sasso liscio, per esempio, per comunicare serenità d’animo e felicità. Uno ruvido e spigoloso trasmetteva preoccupazione per l’altro”.

    Era questo che gli aveva spiegato suo padre: e quel sasso avvolto nello spartito e conservato con il violoncello era il sasso parlante che lui gli aveva dato.

    Daigo è arrabbiato: “Il fatto era che ci saremmo scambiati un sasso parlante ogni anno, alla fine, solo quella volta. Che idiota!”. Mentre ascolta la musica preferita del padre ha quel sasso tra le mani, ci giocherella, non riesce a staccarsene. L’energia è tutta lì, sia per odiare, ma anche per una specie di speciale attrazione che lo fa stare lì, su questa sua parte non risolta. “Mia madre mi ha allevato completamente da sola” dice Daigo. “Mio padre non è altro che un verme. Gestiva un piccolo caffè, ma poi è fuggito con la cameriera ed è scomparso: un padre inesistente.” Alla domanda “chissà cosa farà ora” lui risponde: “sarà già morto da tanto tempo” – “Se tu lo rincontrassi?” – “Lo picchierei”. Daigo racconta la sua ferita, ed i suoi commenti sul padre sono carichi di rabbia. La signora del bagno pubblico, vecchia amica di sua madre, confida alla moglie di Daigo:”Quando i suoi si sono separati, davanti alla sua mamma lui non ha mai pianto, mai, neanche una volta. Ma quando veniva qua ed era solo, piangeva, vedevo le sue spalle ossute scuotersi per i singhiozzi.

    Un dolore vissuto da solo, non condiviso, che ha scavato nel profondo e si è incistato chissà dove. Una ferita alimentata negli anni non solo dalla perdita del padre, ma anche dal dolore vissuto dalla madre. È tutto fermo lì. Fino al momento dell’incontro con il padre defunto. Quello che all’inizio era una negazione, diventa una possibilità. Arrivato a cospetto del cadavere di suo padre, un pescatore gli rivela aspetti di quell’uomo a lui sconosciuto. Un uomo che è arrivato da solo, ed è sempre stato solo.

    Non so da dove venisse. Era comparso in città un giorno. Era solo. Qua al porto si è sempre dato un gran da fare… era taciturno… era difficile strappargli una parola.

    Daigo si interroga:

    Che significato avrà mai avuto la vita di quest’uomo? Ha vissuto per più di settant’anni, e quello che lascia è una scatola di cartone”.

    All’arrivo degli addetti delle pompe funebri, che approcciano il defunto con i loro modi frettolosi e irrispettosi, si infastidisce e li ferma. Decide di preparare lui la salma.

    E qui l’incontro.

    Quei gesti di accudimento lo portano a scoprire, che suo padre è morto stringendo tra le mani il sasso che lui, bambino, gli aveva dato tanti anni prima. E qui si sciolgono tutte quelle emozioni rimaste congelate per anni, scendono le lacrime, cautamente, con pudore, Daigo finalmente sente il dolore di tutto quello che è mancato, a lui e a quest’uomo che ha appena incontrato. Pian piano il volto del padre si ricompone anche nel suo ricordo. Adesso che ha rincontrato suo padre, potrà anche lui essere padre.

    Questa pellicola, è innegabile, ha una sua originalità e una gradevolezza che viene da una piacevole mistura di umorismo e malinconia, soprattutto nelle prime scene. Nei primi piani del viso di Daigo, nelle sue smorfie, nei suoi continui spiazzamenti rispetto agli eventi della vita, nella ricostruzione puntuale del rito del “nokanshi”, nei tipici paesaggi nipponici (ciliegi fioriti che contrastano cime innevate, e l’immancabile monte Fuji).

    Si tratta di un’opera ben diretta, senza dubbio in grado di coinvolgere e commuovere lo spettatore. L’impianto narrativo studiato da Kundo Koyama, autore della sceneggiatura, segue perfettamente i dettami classici di scrittura: il percorso di crescita morale e di maturazione del protagonista procede attraverso un’ininterrotta sequela di ostacoli da superare.

    Unica pecca di questa pellicola: il netto contrasto tra incipit convincente e finale riscattato da un pathos in grado di coinvolgere anche i cuori più pietrificati, e un lungo segmento centrale eccessivamente statico, che inceppa il marchingegno narrativo e poi frana nella lunga digressione musicale che vorrebbe segnalare al pubblico lo scorrere del tempo. Per quanto la componente antropologica e sociale a cui fa riferimento sia intrisa fin nei minimi dettagli di cultura giapponese, Departures potrebbe definirsi un film hollywoodiano, nella sua perfetta parabola umana di caduta e rinascita, nonché di accettazione della propria memoria e della propria storia.

    Qualcuno ha addirittura definito questo film “politicamente scorretto”, perché osa parlare della morte in una società che tenta in ogni modo di allontanarla dall’orizzonte umano. Uno scandalo, in un mondo alla ricerca della ricetta dell’eterna giovinezza. Per questo è stata coraggiosa la scelta dei giurati dell’Academy Awards di premiare Departures con l’Oscar come miglior film straniero, avendo in lizza pellicole importanti come “La classe” (Palma d’oro a Cannes) e “Valzer con Bashir” (Golden globe).

    Coraggiosa anche la decisione di Takita di girare un film in cui la vera protagonista fosse la morte. Takita, regista che non definirei indimenticabile, con questo film sforna la sua creatura migliore, la più compatta ed evocativa. Affronta l’estrema nemica da un punto di vista originale, mettendo sul piatto della bilancia un carico di emozioni con le quali diventa veramente arduo non empatizzare, un perfetto equilibrio di tragedia compassionevole e umorismo grottesco molto ben raffigurato e sapientemente gestito.

    Un film sulla morte che riconcilia con la vita e con il ricordo dei propri cari che non ci sono più. È a loro che va l’ultimo pensiero, con le parole del regista Yojiro Takita:

    “è destino di tutti accompagnare qualcuno, è destino di tutti essere accompagnati”

    Il funerale in Giappone

    Le usanze funebri giapponesi variano molto da regione a regione, anche se alcuni aspetti sono standard in tutto il paese. Il 91% dei funerali giapponesi viene celebrato secondo la tradizione buddista.
 Subito dopo la morte, i parenti inumidiscono le labbra del defunto con acqua. Quando si verifica un decesso, i santuari all’interno delle abitazioni giapponesi vengono chiusi e coperti con carta bianca, per tenere lontani gli spiriti impuri. Talvolta viene posto un pugnale sul petto del defunto per scacciare gli spiriti maligni.

    Vengono posti anche un kimono bianco tradizionale, una fascia bianca con un triangolo al centro, sandali e soldi per pagare il pedaggio attraverso il fiume dei tre inferni, come vuole la tradizione buddista. 
Il corpo viene sistemato davanti all’altare di famiglia, mentre il parente più prossimo veglia accanto ad esso, fino al momento della sepoltura, senza lasciarlo mai da solo. Gli ospiti che giungono alla veglia per offrire le loro condoglianze lasciano una busta speciale avvolta da un nastro bianco e nero, contenente soldi: l’importo varia a seconda del grado di parentela dell’ospite e viene indicato all’esterno della busta, poi si avvicinano al feretro, suonano il campanello dell’altare e pregano.

    Una tavoletta di legno con inciso il nome del defunto viene posta sull’altare o davanti ad esso: si tratta del nome postumo assegnato dal sacerdote. Il nome postumo, o kaimyo, è un nome diverso da quello che la persona ha avuto in vita, e che si suppone aiuti ad evitare che il defunto ritorni ogni volta che viene pronunciato il suo nome. La lunghezza del nome dipende anche dalla durata della vita della persona, o più comunemente, dall’entità della donazione dei parenti al tempio: non è raro che alcuni templi facciano pressione sulle famiglie per l’acquisto di un nome più costoso. Le salme vengono cremate.

    I membri della famiglia assistono mentre la bara procede verso il fuoco e attendono che venga comunicata l’ora per andare a ritirare i resti. La famiglia torna poi a casa facendo un percorso modificato, per evitare che lo spirito del defunto segua la famiglia verso casa. Al momento stabilito, ad ognuno dei membri viene dato un set di bacchette per raccogliere i resti e posizionarli nell’urna. L’addetto di solito indica quali sono i pezzi importanti da raccogliere. Le ossa dei piedi vengono raccolte per prime, per ultime quelle della testa, questo per garantire che il defunto non sia a testa in giù nell’urna.

    Questa operazione viene effettuata contemporaneamente da tutti i membri della famiglia; questa usanza spiega il perché, quando due persone prendono un pezzo di cibo allo stesso tempo con le bacchette, esse tendano a ritrarsi immediatamente, in quanto ciò avviene unicamente per porre i resti di un defunto nell’urna.

    Titolo originale: Okuribito – (おくりびと)


    Traduzione letterale: “Persona che accompagna alla partenza”


    Genere: drammatico, psicologico


    Paese: Giappone


    Durata: 130 minuti


    Anno di uscita: 2008


    Tratto: storia originale, ma liberamente ispirata dal libro “Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician” di Shinmon Aoki

    Regista: Yojiro Takita


    Sceneggiatura: Kundo Koyama


    Musiche: Joe Hisaishi

  • Una lucertola con la pelle di donna: quando il thriller psicologico era made in Italy

    Una lucertola con la pelle di donna: quando il thriller psicologico era made in Italy

    Thriller dalle tinte enigmatiche, con ottimi sprazzi horror che devono, onestamente, più di qualcosa ad un certo Dario Argento: l’altro regista romano era appena entrato sulle scene, circa un anno prima, con “L’uccello dalle piume di cristallo”. Ovviamente, in questa sede, Fulci veniva da altre apprezzate escursioni nel genere (“Non si sevizia un paperino” su tutti), per cui scrive e dirige questo film con massima perizia e intelligenza, senza cadere nelle banalità e negli stereotipi tanto frequenti in quegli anni.

    In breve: un cult del giallo all’italiana, con una certa contaminazione poliziesca e suggestive allucinazioni.

    Una lucertola con la pelle di donna è probabilmente il giallo anni Settanta per eccellenza: o quantomeno, lo è nel suo incedere psichedelico e imprevedibile, dove la struttura narrativa è spesso affidata ad una specie di flusso di coscienza. La prima sequenza è magistrale in tal senso: vediamo il personaggio interpretato da Florinda Bolkan muoversi a fatica in una folla che sembra ignorarne le difficoltà. Una folla che è prima quella di un treno, poi una massa di uomini e donne nude in un corridoio, poi – ancora – il vuoto delle tenebre, in cui fa la propria comparsa una donna misteriosa (Anita Strindberg, non accreditata ufficialmente nei titoli) che ride e suscita quel singolare mix di repulsione, attrattività e spavento tipici del sesso e dell’amore. La sequenza diventa erotica, con primi piani sul volto dell’attrice che si risveglia da quello che sembra essere stato un sogno, e si scopre avere una chiave di lettura psicoanalitica. Un giallo erotico, per molti versi, nel quale la componente di questo tipo è sostanziale e non preponderante.

    Ambientato nella Londra settantiana, Una lucertola con la pelle di donna narra di questa donna benestante (Carol) che viene accusata di aver assassinato la propria vicina, una hippie libertina ai suoi antipodi, forse in preda a un raptus omicida. La donna non sembra consapevole di ciò che potrebbe aver fatto, che sembra provenire dal proprio inconscio e trova una sorta di reazione violenta o una forma di gelosia per la vita libertina della vicina dicasa. Poi racconta di aver sognato l’omicidio giusto nel momento in cui avveniva, il che incrementa i sospetti e suggerisce una narrazione in bilico tra realtà e sogno. Il film di Fulci, all’epoca ancora nel mood puramente giallistico, diventa soprattutto un gioco di specchi e di sospetti: come nella tradizione argentiana, chiunque (o quasi) dei personaggi potrebbe essere responsabile del delitto, per quanto lo spettatore sia spinto a sospettare esclusivamente di Carol. Che ad un certo punto verrà pure, kafkianamente, arrestata, fino alla imprevedibile conclusione della storia.

    Fulci gioca per tutto il film a farci credere che le cose non stiano come sembra, mescolando con intelligenza realtà e fantasia, sogno e verità, fino a lasciarci un messaggio di fondo: tutto quello che sognamo di fare, in fondo, siamo nelle condizioni di realizzarlo, anche se dobbiamo essere disposti a pagarne le conseguenze.

    La celebre scena di questo film, che vede la Bolkan aggirarsi all’interno della clinica in cui è ricoverata (e che ricorda per certi versi quanto vedremo nella sequenza dell’ospedale de “L’Aldilà…“) è un autentico capolavoro del cinema di genere.

    La scena censurata

    In particolare, l’allucinazione con i cinque cani smembrati vivi (presente ad esempio nel sito movie-censorship.com), con tanto di organi palpitanti bene in vista, assume anch’essa nel suo orrore una valenza fortemente simbolica.

    All’epoca fu considerata talmente realistica per l’epoca che Fulci fu costretto a ricreare l’effetto in tribunale per mostrare che non ci fosse stato maltrattamento di animali: tutto si risolse al meglio per il regista romano, che riuscì a provare la propria innocenza. Ma l’effetto rimane crudo, sostanziale, difficile da guardare senza ricordarsi che si tratta solo di un film.

    Una lucertola con la pelle di donna, in definitiva, è il thriller anni Settanta italiano che strizza l’occhio alla psicoanalisi, la stessa che Fulci non sembrava amare (come testimoniato in un’intervista molto citata sul cinema horror). Uno di quei film immarcescibili, di culto, condito di elementi surreali e simbolici e focalizzato sull’equilibrio tra vite contrapposto: quelle di un personaggio libertino e quella di una donna frustrata, che probabilmente uccide per una forma di odio sociologico per l’altro. Tematiche che, sia pure con toni saggistici, sono stati affrontati ad esempio da film come Metti, una sera a cena.

  • Freaks (1932): Tod Browning racconta le storie di veri fenomeni da baraccone

    Freaks (1932): Tod Browning racconta le storie di veri fenomeni da baraccone

    Hans è un nano da circo innamorato di una trapezista, la quale ne asseconda le galanterie solo per convenienza.

    In breve. L’unico difetto di Freaks è che non vedremo mai la versione uncut, perchè venne massacrata dalla censura per via delle reazioni negative del pubblico dell’epoca. Al netto di questo, un capolavoro crudele e significativo, che lascia il segno ancora oggi.

    Può una donna amare davvero un nano? Leggere più volte la tagline di Freaks è il modo migliore per approcciare alla sua visione: film del 1932, recitato secondo i canoni espressionisti e tormentato da numerosi problemi di scandali e di distribuzione. Tra i film maledetti forse per eccellenza, peraltro, dato che una parte del film particolarmente cruda pare sia andata perduta per sempre: as usual, tagliata dalla censura d’epoca.

    La storia è semplice: una trapezista bella e calcolatrice di nome Cleopatra, intepretata da Ol’ga Vladimirovna Baklanova, approfitta biecamente dell’invaghimento del nano Hans (Harry Earles) per farsi prestare denaro e ricevere regali di ogni genere. Non solo: fa finire la precedente relazione dell’uomo (che ha un’aspetto da bambino e, per inciso, interpreta splendidamente la parte) e, durante un matrimonio simulato, cerca più volte di avvelenare il consorte al fine di rubargli l’eredità.

    Questo scatenerà una feroce vendetta da parte dei freaks, che si rivolteranno contro i “normali” in una modalità piuttosto brutale e con reminiscenze strutturali del racconto Hop-Frog di Poe: lei sarà mutilata e diventerà una spaventosa “donna gallina”, mentre il suo amante sarà castrato e avrà un futuro da cantante in falsetto (quest’ultimo dettaglio non si vede nel film, ma era previsto dalla sceneggiatura originale). Esiste anche un lieto fine imposto dalla MGM, in cui si mostra Hans in una bella casa da miliardario ovviamente riappacificato con Frieda: questa sequenza, nella versione in streaming su Amazon Video, non sembra essere presente.

    Most big people do, they don’t realize that I’m a man with the same feelings they have (Hans)

    Se Freaks è consolidato a livello di cult assoluto, ovviamente, i motivi sono tanti: non ci sono effetti speciali veri e propri, perchè se vediamo un uomo senza gambe camminare con le mani o un’altro senza arti accendersi una sigaretta il risultato, ancora oggi, è ancora più impressionante. Questo dipende anche dalle storie che si raccontarono all’epoca, tra cui quella di una donna che fece causa alla MGM (distributrice del film) perchè, a suo dire, aveva subito un aborto spontaneo dopo aver visto il film. Ad ogni modo, Steven Schneider inserisce Freaks tra i 1001 film da vedere prima di morire – e noi ci sentiamo di dargli ragione, a pieno diritto.

    Il soggetto di Freaks è tratto dal romanzo breve Spurs di Tod Robbins, a cui il regista pensava già dal 1927. I veri protagonisti della pellicola furono, storicamente, quelli che comunemente o cinicamente chiamiamo freak: non nel senso squisitamente zappiano del termine, bensì vari uomini e donne affetti da una qualche anormalità o deformità fisica. Ad esempio il nano Harry Earles, la donna barbuta Olga Roderick (che dopo le riprese rinnegò la sua partecipazione, a quanto pare), Frances O’Connor e Martha Morris (le due ragazze senza braccia), le gemelle siamesi Daisy e Violet Hilton, Zip & Pip (Elvira e Jenny Lee Snow), l’ermafrodita Josephine Joseph; Johnny Eck ovvero l’uomo senza gambe, Prince Randian senza nè braccia nè gambe, Koo-Koo “la ragazza uccello” e Schlitze (vestito da donna per motivi di incontinenza).

    Il regista aveva lavorato in un circo in gioventù, sia come clown che come contorsionista: la sua familiarità con quell’ambiente fa finito per ispirarlo nel realizzare questo lavoro, che in effetti ci trasporta in modo molto credibile all’interno di un circo, in cui i “fenomeni da baraccone” (senza braccia, senza gambe, nani, con la testa a punta e via dicendo) vengono derisi e segretamente discriminati o sfruttati dai “normali“.  All’epoca fece scalpore, e anche tanto, che Browning avesse scelto di usare autentici freak come attori, risparmiando sugli effetti speciali e conferendo alla pellicola un che di realistico che, visto ancora oggi, fa realmente impressione.

    Gli intenti di denuncia sociale e di volontà di far riflettere il pubblico su una vicenda tragica e romantica per definizione vennero, all’epoca, travisati come volontà di strumentalizzare gli attori e le rispettive deformità: cosa che Browning non ha mai fatto, proprio perchè mostra i vari uomini e donne discriminati e vittime del cinismo e della perfidia dei cosiddetti “normali”. Al tempo stesso, un film del genere sarebbe improponibile a qualsiasi produzione ancora oggi, motivo per cui lo stato di cult si è consolidato nel tempo, finendo per fare le scarpe (soprattutto a livello visuale) a qualsiasi altro horror eccessivo o violento sia mai stato prodotto.

    Negli Stati Uniti, non a caso, Freaks è stato bandito in numerosi stati e città, e a quanto pare ancora oggi è tecnicamente illegale organizzare proiezioni di questo lavoro in molte zone degli Stati Uniti. Nel Regno Unito e in Australia, peraltro, questo film è stato bandito per più di 30 anni dopo la sua prima uscita, e in Italia non è mai ufficialmente arrivato (su Amazon Video è disponibile solo in inglese sottotitolato in italiano).

    C’è anche un’altra cosa da osservare: se questo film fosse uscito qualche anno dopo, sarebbe quasi sicuramente stato vittima di facili spettacolarizzazioni, soprattutto che insistessero inutilmente sull’aspetto dei protagonisti o, peggio ancora, trasformando la vicenda in uno snuff e/o shoxploitation. Browning, per quanto massacrato dalla censura (la versione che ci è arrivata del film non è, quasi certamente, una director’s cut), sembra invece molto attento a dosare il linguaggio ed i contenuti, ed è abile a “caricare a molla” la storia, mostrando la derisione e l’arroganza dei due villain per poi esplodere in faccia allo spettatore la fase di revenge.

    Distribuito per un certo periodo coi titoli “Forbidden Love“e “Nature’s Mistakes“.