CULT_ (114 articoli)

Gli imperdibili: una selezione di pellicole da non perdere per qualsiasi appassionato del genere horror, commedia, thriller, trash.

  • Diabolik – Ginko all’attacco non delude le aspettative

    Diabolik – Ginko all’attacco non delude le aspettative

    Diabolik ed Eva Kant si ritrovano calati in una nuova avventura contro l’ispettore Ginko, in una veste inedita e dai risvolti imprevedibili.

    Diabolik – Ginko all’attacco si richiama parecchio al suo predecessore, Diabolik, con l’unica sostanziale differenza di aver cambiato l’interprete protagonista (da Luca Marinelli si passa Giacomo Gianniotti). Il resto non è cambiato (gli interpreti principali, con l’aggiunta di un intrigante Alessio Lapice nella parte di Roller e la presenza pacata e raffinata di Monica Bellucci): l’impianto è quello tipico del fumetto delle Giussani, anni 60 sobri e casti quanto ricchissimi di colpi di scena: in questo caso, peraltro, si è scelto un soggetto ancora più accattivante del precedente, quanto forse leggermente prevedibile nelle note finali. Diabolik è ossessionati dai furti di gioielli e pietre preziose, e la sua mania fa il pari con quella di Ginko di volerlo catturare: entrambi, persi nella rispettiva ossessione, trascurano gli affetti personali, e sembra proprio questo l’autentico, duplice motore della storia.

    Una storia che rinnova – di nuovo – il mito creato su carta, amatissimo dai sui lettori e che mai tanta fortuna aveva sullo schemo (impossibile non citare il Danger – Diabolik di Mario Bava: ma erano, chiaramente, ben altri tempi). E poi arrivano i Manetti Bros, alla luce di una consolidata esperienza nel genere (da Paura 3D al meno noto L’arrivo di Wang, lidi sui quali ci auguriamo che tornino, prima o poi) ci consegnano una nuova versione del mito di Diabolik, con la sua eleganza e scaltrezza, per una saga che è solo al secondo capitolo e che potrebbe ancora continuare. Un film che è un racconto del consacra la bellezza, a cominciare da quella dei protagonisti, ma anche quella di una regia accorta e mai banale, unita alla scelta del sedicesimo albo (che da’ il nome al film).

    Diabolik è ancora una volta il Male che seduce, attrae e soggioga tutti coloro che incontra, nonostante la sua spietatezza nei confronti degli avversari, perennemente diviso tra la consacrazione dell’amore romantico (di cui questo film è pervaso, forse anche più del capitolo precedente) e la narrazione di una singolare storia di vendetta: quella di Eva nei suoi confronti, tradita nel momento del bisogno, artefice del destino della storia. Una vicenda che, in questo episodio dall’andamento fluido e gradevole, vedrà Diabolik orfano di ciò che lo ha reso potente: il suo nascondiglio è stato violato dalla polizia, sulle prime, spiazzando lo spettatore fin da subito, mentre la sua fidata fabbrica di maschere (qui usate meno del capitolo precedente) è stata anch’essa monitorata dalle autoità. La vera domanda sarà capire come farà questa volta a salvarsi, per quanto gran parte del suo pubblico già conoscerà la risposta (se per pubblico intendiamo i suoi lettori), e si saprà perdere (anche se non ha letto l’albo nello specifico) nelle meraviglie dell’intreccio, dei colpi di scena e della passionalità dei personaggi (incluso Ginko, in una veste qui inedita rispetto al capitolo precedente, ed al classicissimo ed algido personaggio della duchessa interpretata da Monica Bellucci).

  • Pulp fiction: abbiamo ricostruito la trama in ordine cronologico

    Pulp fiction: abbiamo ricostruito la trama in ordine cronologico

    La definizione dell’autorevole urban dictionary a riguardo della parola Pulp, difficile da tradurre in italiano, non lascia adito a dubbi: un film, un libro o una pubblicazione di altro tipo di argomento lurido e oscuro, come ad esempio un crimine. In molti casi gli argomenti di natura shockante sono affrontati come se fossero ordinari.

    Lìessenza di Pulp fiction è forse tutta qui, in quelle due frasi così incisive, a patto però che non diventi uno dei tanti film più discussi che visti, come tradizione cinefila imporrebbe subdolamente. Pulp fiction va visto, rivisto e assimilato per poterne apprezzare la bellezza antica, novantiana ed ovviamente pulp.

    Capolavoro di Quentin Tarantino del 1994, e non per modo di dire: diventato oggetto di cult per la fluidità fuori norma, per gli omaggi cinematografici e la molteplicità di riferimenti (Rocky Horror Picture Show e I guerrieri della notte, tanto per citare i più noti). Un film costruito su riferimenti da veri cinefili, capace di stordire, appassionare, spaventare e divertire: certamente l’opera “di cassetta” forse meglio riuscita di ogni tempo da parte del regista. Un regista che all’epoca era saldamente ancorato sulla rielaborazione del cinema di genere anni 70, prima della svolta pop recente che lo avrebbe consacrato al famigerato “grande pubblico”.

    La storia è sostanzialmente divisa in tre parti, e il regista ha deciso di spezzattarla e rimontarla in modo anti-casuale, stravolgendo l’ordine cronologico e riuscendo comunque a chiudere il cerchio in modo anticonvenzionale.

    In fondo non ha alcuna importanza che il regista ritagli per sè una parte minima (neanche troppo rilevante per la trama), e non importa neanche troppo che ci sia un cast di tutto rispetto (John Travolta, Samuel L. Jackson, Uma Thurman, Harvey Keitel il “risolvi-problemi” e Bruce Willis): il vero protagonista del film è il cinema amato dal regista, e declinato in decine di “salse” diverse, fatto di riferimenti – per la verità non sempre ovvi e spesso molto di nicchia.

    In ordine cronologico i fatti sono i seguenti: Vince (Travolta) si procura dell’eroina da uno spacciatore (Lance), e successivamente deve accompagnare la moglie cocainomane del suo capo (Mia, Uma Thurman) a trascorrere una serata in un caratteristico locale (Jack Rabbit Slim’s). La serata si conclude drammaticamente: la donna va in overdose per aver sniffato la dose appena procurata, e Vince la riporta al suo spacciatore al fine di praticarle in’iniezione di adrenalina al cuore. La donna si risveglia e concorda di non raccontare l’accaduto al marito.

    In questa fase viene fuori il “pulp” del film: dialoghi surreali, sarcastici, sul filo del rasoio ed estremizzati come da tradizione del cinema di genere. Il dialogo tra Mia e Vince, fatto di allusioni, imbarazzi ed nevrosi dei due personaggi è quasi l’archetipo dell’appuntamento tra due persone che sanno di non poter “spingersi oltre” pur essendo attratte l’uno/a dall’altra/o. Visivamente la scena più forte è quella della siringa al cuore, un capolavoro di tensione degno di Dario Argento, che Tarantino fece eseguire al contrario per rimontarla all’inverso.

    Successivamente Vince, assieme al suo collega Jules (S.L. Jackson), si reca in macchina da alcuni spacciatori, i quali possiedono una valigetta appartenente al loro capo (Wallace) dal contenuto misterioso (mai chiarito dal film). Nessuno sa cosa ci fosse nella valigetta: diamanti, soldi, quello che penso che sia (cit.), Sto cazzo™️… Che importa. Ha importanza solo che ne dibattiamo ancora oggi, forse. Dopo aver discusso (e dopo essere scampati miracolosamente all’aggressione da parte di un quarto spacciatore fino ad allora nascosto), i due uccidono senza pietà tutti i presenti nell’appartamento tranne uno, che porteranno con sè: poco dopo Vince gli sparerà a morte per errore all’interno della macchina. Jules si rivolge a Jimmie Dimmick (Tarantino) per avere un luogo dove fermarsi, e contatta mediante il loro capo il celebre sig. Wolf, il risolvi-problemi, il quale riuscirà a far ripulire l’auto senza lasciare traccia.

    In questa fase del film la violenza visiva (ed estetizzata) raggiunge il proprio apice, e si esaspera particolarmente l’uso del torpiloquio e del non politically-correct. Rimane nella storia la scena dell’omicidio in macchina ed il versetto biblico –  inventato – recitato a memoria da Jules.

    Poco dopo i due gangster vanno a fare colazione in un vicino fast-food, nel quale Zucchino e Coniglietta (coppia nevrotica di rapinatori alla Bonnie e Clyde) organizzano sul momento una rapina nel locale, facendosi consegnare tutti i soldi dai presenti. Il rapinatore (Tim Roth) incontra Jules, il quale dopo averlo affrontato a muso duro lo disarma. Alla fine decide di lasciarlo in vita, poichè l’essere sopravvissuto all’aggressione di poco prima lo ha fatto entrare in una fase mistica, che gli impedirà di proseguire a fare il gangster. Alla fine dona il contenuto del proprio portafoglio – quello con su scritto “Bad MotherFucker” – al rapinatore, che riesce ad fuggire con la compagna.

    Condotto quasi sulla falsariga del celebre “Un giorno di ordinaria follia” (durante la scena della finta-rapina al fast food dell’impiegato), questa fase del film caratterizza in modo eccellente altri due personaggi, e mostra l’ inatteso spessore dei personaggi di Vince e Jules.

    L’ex pugile Butch (Willis) tratta con Wallace di disputare un incontro truccato a pagamento: i suoi piani pero’ prevedono di incassare subito la somma pattuita, puntando poi su se stesso presso vari bookmaker e vincendo l’incontro, venendo meno ai patti. Nel frattempo riesce a rientrare nel motel dove lo attende la fidanzata: il giorno dopo si rende conto di aver dimenticato l’orologio appartenuto a suo padre e a suo nonno, e ritorna nel proprio appartamento a recuperarlo. Lì, pur trovando Vince ad attenderlo, riesce fortuitamente ad avere la meglio su di lui uccidendolo con l’arma che il gangster aveva lasciato sul tavolo proprio mentre usciva dal bagno.

    Mentre Butch è in fuga con la macchina, fermo ad un semaforo incontra casualmente Wallace in persona, e decide di andargli addosso con la macchina ferendolo (e ferendosi) gravemente. Da qui nasce un inseguimento a piedi che culmina all’interno di un negozio, gestito dal sadico Maynard che tramortisce i due e li porta nello scantinato per stuprarli. Mentre l’amico del proprietario, il poliziotto Zed, sta esercitando violenza sessuale sull’immobilizzato Wallace, Butch riesce a liberarsi e fa fuori lo “storpio” (lo schiavetto della coppia in tenuta sadomaso). Convinto inizialmente a darsela a gambe ritorna invece sui suoi passi, scegliendo accuratamente un’arma adatta a liberare Wallace (un martello, una mazza da baseball, una motosega ed infine una katana). Trafigge così Maynard, mentre lascia la vendetta per Wallace, che si preannuncia particolarmente lenta e dolorosa, estinguendo per riconoscenza verso l’ex antagonista il suo debito precedente. Butch ritorna al motel a bordo di un chopper e fugge da Los Angeles con la fidanzata.

    La parte conclusiva di “Pulp fiction” merita un posto d’onore all’interno della storia del cinema, non tanto per le citazioni sparse – tra cui evidentemente “Poliziotto sadico“, e quasi certamente qualche exploitation di nicchia di argomento sadomaso – quanto per il ritmo e lo svolgersi dell’intreccio. Probabilmente la parte migliore del film, recitata con grande spirito da Bruce Willis, e ricca di personaggi aggiuntivi e di micro-storie annesse (lo schiavetto, la tassista, la fidanzata del pugile).

    Alcuni dettagli del film potrebbero globalmente spiazzare il pubblico, che potrebbe non comprendere certi riferimenti o infastidirsi per l’autoreferenzialità del regista, senza contare la miriade di dettagli – che non riporto per brevità – che arricchiscono un film di quasi tre ore (!). In realtà sono proprio questi ultimi a costituirne la base della grandezza che si è tramandata fino ad oggi, offrendoci un’opera che riesce a non far sbadigliare neanche per un attimo.

    Un film che dice molto più di quanto possa raccontare una recensione, e che dipinge lo stile del primo Tarantino assieme a Le iene e Jackie Brown.

  • Sopravvissuti: spiegazione finale, trama, cast

    Sopravvissuti: spiegazione finale, trama, cast

    Sopravvissuti“(in originale “Z for Zachariah”) è un thriller post-apocalittico ambientato in un mondo devastato da un’epidemia globale. La storia segue un gruppo eterogeneo di persone che cercano di sopravvivere in un ambiente ostile e desolato.

    La trama inizia con l’epidemia che si diffonde rapidamente, trasformando le persone infette in orde di feroci creature simili a zombi. Il protagonista, John, è un uomo comune che perde la sua famiglia nell’apocalisse e lotta per sopravvivere da solo.Durante il suo viaggio, John incontra altri sopravvissuti. Tra di loro ci sono Sarah, un’ex infermiera esperta nella cura delle ferite, e Michael, un ex militare abile nelle tattiche di combattimento. Il gruppo è costantemente minacciato dalle creature infette e dai pochi sopravvissuti rimasti, alcuni dei quali sono diventati pericolosi predatori.

    Cast

    “Z for Zachariah” è un film del 2015 diretto da Craig Zobel. Di seguito, trovi il cast principale del film con i nomi degli attori in italiano:

    • Margot Robbie nel ruolo di Ann Burden
    • Chiwetel Ejiofor nel ruolo di John Loomis
    • Chris Pine nel ruolo di Caleb

    Questi sono i principali attori che interpretano i personaggi chiave nel film “Z for Zachariah”.

    Chi è Zachariah

    Nel titolo “Z for Zachariah”, Zachariah si riferisce a un personaggio assente nel film ma che gioca un ruolo significativo nella trama.

    Nel romanzo omonimo scritto da Robert C. O’Brien, da cui è tratto il film, Zachariah è un prete cattolico che viene menzionato ma non compare mai fisicamente nella storia. Il personaggio di Zachariah è importante perché è il fondatore di una chiesa locale vicino alla valle in cui la protagonista, Ann Burden, vive da sola dopo una catastrofe nucleare. Zachariah è morto a causa delle radiazioni nucleari e la sua chiesa è rimasta intatta.

    Nel film, il personaggio di Zachariah è omesso, e invece il titolo si riferisce principalmente al nome della valle in cui Ann Burden sopravvive dopo l’evento catastrofico. Quindi, “Z for Zachariah” rappresenta simbolicamente la storia di Ann e della sua solitudine nella valle dopo l’apocalisse nucleare.

    Temi trattati nel film

    Il film “Sopravvissuti” affronta diversi temi profondi e complessi, tra cui:

    1. Sopravvivenza e isolamento: Il tema principale del film è la sopravvivenza di Ann Burden, l’unica sopravvissuta in una valle remota dopo una catastrofe nucleare. Il suo isolamento e la sua lotta per sopravvivere nella desolazione diventano un elemento centrale della trama.
    2. Relazioni interpersonali: Con l’arrivo di John Loomis e successivamente di Caleb nella valle, si sviluppano complesse dinamiche relazionali. Il film esplora come le relazioni si sviluppano e cambiano nel contesto dell’isolamento e della condivisione di una piccola comunità.
    3. Etica e morale: Il film pone diverse domande sull’etica e la morale in situazioni di estrema necessità. I personaggi si trovano spesso a prendere decisioni difficili e morali, mettendo in discussione i loro principi e valori fondamentali.
    4. Fede e spiritualità: La presenza della chiesa abbandonata e il passato del personaggio di Zachariah sollevano temi legati alla fede e alla spiritualità. Ann e John hanno punti di vista differenti riguardo a questi temi, e questo influisce sulla loro interazione.
    5. Amore e desiderio: Il film esplora la complessità delle relazioni amorose e dei desideri umani. La presenza di tre personaggi nel contesto isolato della valle crea tensioni e conflitti legati alle emozioni e al desiderio di connessione emotiva.
    6. Tecnologia e natura: Il film presenta una riflessione sul ruolo della tecnologia e la sua influenza sulla società, considerando anche gli effetti negativi che l’uso irresponsabile può avere sull’ambiente e sul futuro dell’umanità.

    In sintesi, “Sopravvissuti” affronta temi legati alla sopravvivenza, alle relazioni umane, all’etica, alla fede, all’amore e al rapporto tra tecnologia e natura. Questi temi si intrecciano e si scontrano nel contesto post-apocalittico del film, fornendo uno sguardo profondo e riflessivo sulla condizione umana in situazioni estreme.

    Romanzo da cui è tratto il film

    Il film si basa liberamente sul romanzo di fantascienza “Z for Zachariah” di Robert C. O’Brien, pubblicato postumo nel 1974. Il “triangolo amoroso” del film rappresenta una deviazione significativa poiché nel romanzo sono presenti solo due protagonisti: Ann e Loomis.

    Adattamento per la televisione

    L’adattamento originale televisivo è stato parte della serie della BBC “Play for Today”, trasmessa il 28 febbraio 1984, con Anthony Andrews nel ruolo di Loomis e Pippa Hinchley nel ruolo di Ann, e la storia ambientata in Galles dopo un olocausto nucleare.

    Spiegazione finale

    Avviso spoiler: la seguente trama riassume gli eventi del film “Sopravvissuti”.

    Nel corso del film, il gruppo cerca di raggiungere un luogo sicuro, una sperduta comunità fortificata, dove si dice che sia possibile ricostruire una nuova società. Lungo il tragitto, affrontano numerose sfide e pericoli, come attacchi di predatori umani e scontri con gli infetti.

    Durante il viaggio, le relazioni tra i sopravvissuti si evolvono. John e Sarah si avvicinano sempre di più, trovando conforto e speranza l’uno nell’altro in mezzo alla disperazione del mondo post-apocalittico.

    Tuttavia, a mano a mano che il gruppo si avvicina alla comunità sicura, scoprono che è stata corrotta dall’interno. Si troveranno di fronte a una decisione difficile: unirsi agli abitanti corrotti e abbandonare i loro principi morali per sopravvivere o combattere per mantenere la loro umanità e cercare una soluzione migliore. Verso la conclusione, il gruppo affronta un confronto mortale con i predatori umani e gli infetti, mettendo alla prova la loro forza, il coraggio e la fede nella possibilità di un futuro migliore.

    In un finale agghiacciante e toccante, alcuni membri del gruppo sacrificano la propria vita per permettere agli altri di raggiungere il luogo sicuro. John e Sarah riescono a raggiungere la comunità fortificata, dove sperano di iniziare una nuova vita, portando con sé la memoria dei loro amici perduti lungo il tragitto.

    Spiegazione alternativa del finale

    Il finale di “Z for Zachariah” è aperto e molto ambiguo, lasciando spazio a diverse interpretazioni. A questo punto della trama, il triangolo amoroso tra Ann, John e Caleb è giunto a un punto critico.

    Nel finale, John, Caleb e Ann decidono di ascoltare il messaggio radio proveniente dalla fuori della valle. Il segnale è debole e degradato, ma sembra offrire loro una possibilità di trovare altre persone sopravvissute e un futuro migliore. Tuttavia, prima di lasciare la valle, c’è un momento di tensione tra i tre personaggi. Ann vuole che John rimanga con lei nella valle, ma lui vuole partire con Caleb per cercare aiuto.

    Infine, John e Caleb iniziano a dirigersi verso la fonte del segnale radio, ma Ann, sentendosi abbandonata, spara un colpo di avvertimento con un fucile. Ciò crea un momento di sospensione, poiché non è chiaro se il colpo sia inteso come un vero tentativo di colpire i due uomini o solo un avvertimento emotivo.

    Le possibili interpretazioni del finale sono:

    1. Abbandono e solitudine: Una possibile interpretazione è che Ann si senta abbandonata dai due uomini e, nel tentativo di fermarli, metta alla prova il loro amore e la loro dedizione nei suoi confronti. Il colpo di avvertimento potrebbe essere un modo per far loro capire quanto sia importante la sua presenza nella valle.
    2. Sopravvivenza e speranza: Un’altra interpretazione è che Ann, pur essendo innamorata di John e desiderando la sua compagnia, comprenda che per sopravvivere e avere una speranza di futuro, è necessario che almeno uno dei due uomini lasci la valle per cercare aiuto. Il colpo di avvertimento potrebbe essere un segno di accettazione di questa realtà e della sua necessità di lasciar andare qualcuno che ama.
    3. Incertezza e ambiguità: Il colpo di avvertimento crea incertezza riguardo alle intenzioni di Ann e alle sue vere motivazioni. Potrebbe anche essere una rappresentazione della sua lotta interna tra l’amore per John e la consapevolezza delle circostanze disperate in cui si trovano.

    In conclusione, il finale di “Z for Zachariah” è aperto all’interpretazione e offre spazio per diverse chiavi di lettura. Esso riflette i complessi legami emotivi e morali tra i personaggi e sottolinea la difficoltà di prendere decisioni significative in un mondo post-apocalittico in cui la sopravvivenza è in gioco.

  • Nosferatu 1979: il principe della notte secondo Herzog

    Nosferatu 1979: il principe della notte secondo Herzog

    Recensione di Nosferatu – Il principe della notte

    Regia: Werner Herzog
    Cast: Klaus Kinski, Isabelle Adjani, Bruno Ganz, Walter Ladengast

    Al sole non attribuisco più nessuna importanza, né alle scintillanti fontane che alla gioventù piacciono tanto. Io adoro solo l’oscurità e le ombre, dove posso essere solo coi miei pensieri. Il tempo è un abisso profondo come lunghe infinite notti, i secoli vengono e vanno. Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose.

    Nosferatu di Werner Herzog si apre su una inquietante sequenza di mummie all’interno di una cripta (si scoprirà o meno dove?): uomini, donne, bambini. Il gusto del dettaglio mostra le loro espressioni di orrore, gli stivali che indossano, la degradazione del corpo dovuta al tempo. Poco dopo un pipistrello fa la sua comparsa nel cielo più scuro di sempre, e un urlo di Lucy fa sobbalzare lo spettatore: ha avuto un incubo, ne parla al marito Jonathan, e sembra che non sia la prima volta che le capita.

    Nel frattempo Jonathan dovrà partire per lavoro e recarsi al castello del conte Dracula, sui monti Carpazi. Il presentimento di Lucy è la principale chiave di lettura sottesa al film: se in questa sede Herzog sembra insistere sull’aspetto mistico della sensazione, nella riedizione di Eggers il male viene ricondotto ad un problema di salute mentale da parte della donna. Messe a confronto, le due edizioni del film – che hanno 45 anni di differenza – sono simili ma sostanzialmente diverse: Eggers realizza una sorta di studio d’atmosfera sulla trama, mentre Herzog favorisce il ritmo, la sequenza degli avvenimenti, l’incedere della maledizione del vampiro sull’uomo. Non solo: Herzog rappresenta i personaggi secondari (gli zingari, il taberniere, …) come miti e collaborativi nei confronti di Jonathan, il quale si reca ostinatamente al castello di Dracula spinto dalla prospettiva di guadagnare denaro. Eggers, dal canto suo, sembra focalizzare un personaggio solitario, solo contro tutti, immerso in un mondo estraneo e ostile, che non vuole neanche che stia lì – peggio che peggio che vada dal conte Orlok.

    Werner Herzog reinventa il mito di Dracula in Nosferatu – Il principe della notte, che diventa un omaggio e al contempo una reinterpretazione dell’iconico capolavoro di F.W. Murnau del 1922. Con la fine dei vincoli del copyright del romanzo di Bram Stoker, il regista decide di ripristinare i nomi originali dei personaggi, infondendo al film un’aura di autenticità e gotico puro. La dimensione onirica non è peraltro solo figurata: Jonathan scrive alla moglie di aver fatto un brutto sogno, e di cercare di dimenticarlo. I personaggi sono condotti alla rovina, in qualche modo, anche da questa incapacità congenita di introspezione, di scoprire ciò che Freud avrebbe chiamato interpretazione dei sogni (1899), immersa indefinitamente tra contenuto manifesto e contenuto latente. L’horror di Nosferatu è ancora una volta raffinato quanto inquietante, prettamente letterario, raramente esplicito, quasi sempre fatto di accenni, riferimenti, simboli, riconoscimenti dall’immenso potere di suggestione. Basta anche solo analizzare una singola, emblematica scena per capacitarsene: quando il conte penetra furtivamente nella stanza da letto di Jonathan è una sublimazione assoluta dell’orrore. Sulle prime, infatti, la vittima resta immobile, come se fosse incerta di sognare o essere sveglia. Il minimo movimento del conte Dracula lo fa sobbalzare, capiamo che si tratta di realtà e poco dopo vediamo il conte avventarsi su Jonathan. A questo punto, il montaggio non ci fa vedere cosa succede, ma riusciamo ad immaginarlo. Vediamo la reazione a distanza della moglie, in preda a febbre e allucinazione, e subito dopo il conte che ha appena morso Jonathan sul collo.

    La parola Nosferatu – per la cronaca – presenta un’origine etimologica incerta: la sua diffusione si deve principalmente al romanzo Dracula di Bram Stoker (1897) e al film espressionista tedesco Nosferatu (1922) di Morneau. Stoker attribuì l’origine del termine alla scrittrice Emily Gerard, che lo avrebbe menzionato nel saggio Transylvanian Superstitions (1885) e nel suo libro di viaggio The Land Beyond the Forest. Lo studioso Gerard aveva descritto Nosferatu come una parola rumena sinonimo proprio di “vampiro“.  Tuttavia, il termine era già apparso in un articolo del 1865 di Wilhelm Schmidt, che lo identificava come un termine folkloristico risalente alla regione della Transilvania. Altre ipotesi collegano l’etimologia del termine al greco nosophoros (“portatore di malattia”), un’idea che potrebbe aver ispirato la rappresentazione del vampiro come diffusore di pestilenze già a partire dal film del 1922. Altre teorie suggeriscono una connessione con il latino spirare (“respirare”) o con termini rumeni come necurat (“impuro”), nesuferit (“insopportabile”) o nefârtat (“nemico”). Come se non bastasse, si ipotizza che Nosferatu possa essere una variante dialettale o una trascrizione imprecisa di un termine rumeno dell’epoca, in un contesto in cui la standardizzazione della lingua era ancora in corso nel XIX secolo. L’ambiguità e la ricchezza delle interpretazioni riflettono la complessità culturale e linguistica del termine. Al netto delle varie possibilità, nessuna di esse sembra confermata da fonti linguistiche certe.

    Klaus Kinski regala un’interpretazione memorabile nei panni di un Dracula inquietante, dall’aria innocua, quasi malinconica. Siamo al cospetto di una delle migliori interpretazioni di sempre del ruolo del vampiro, per un film che è diventato iconico e che è calato nel contesto del folk horror ante-litteram: l’orrore è letterario, tradizionale, affidato alla storia o all’antropologia, è quasi parte di un rituale che sembra ripetersi da sempre.  L’atmosfera del film è avvolgente, spesso onirica, molte sequenze non hanno consequenzialità – soprattutto quando Jonathan rimane intrappolato nel castello, trovandosi in un luogo e risvegliandosi in un’altro senza rendersi conto. Il castello di Dracula descritto è qui una dimensione a metà tra sogno e realtà, che sembra voler comunicare a distanza con Hellen, qui interpretata dall’icona del cinema e della musica Isabelle Adjani. Tutto o quasi è nebbia, nel Nosferatu di Herzog: perchè non è mai solo un aspetto materiale o puramente estetico, ma rappresenta la confusione dei personaggi nella lotta disperata contro un vampiro portatore di peste. Un vampiro dai modi apparentemente affabili e signorili, come nella sequenza dell’accoglienza di Jonathan – l’arrivo al castello del personaggio è dettagliatissimo, interminabile, attraversando asperità e paesaggi ostili all’interno dei Carpazi. Un vampiro che si scompone esclusivamente alla vista del sangue, come nella celebre sequenza in cui – a pranzo col Conte – Jonathan si ferisce a un dito mentre cerca di tagliare il pane.

    Nosferatu – Il principe della notte è in definitiva un’opera che unisce l’attenzione ai dettagli estetici a un profondo rispetto per le radici del mito. Un capolavoro del cinema gotico che non solo rende omaggio al passato, ma lo reinventa con uno stile unico e visionario.

  • Matrix spiegato al popolo sovrano

    Matrix spiegato al popolo sovrano

    The Matrix è un film d’azione di fantascienza del 1999 scritto e diretto dalle sorelle Wachowski. È il primo capitolo della serie cinematografica di Matrix e vede protagonisti Keanu Reeves, Laurence Fishburne, Carrie-Anne Moss, Hugo Weaving e Joe Pantoliano. Ambientato in un universo cyberpunk, il film presenta un futuro distopico in cui l’umanità vive inconsapevolmente intrappolata all’interno della Matrix, una realtà simulata creata da macchine intelligenti. Convinto che Neo, un hacker informatico, sia “l’Eletto” profetizzato per sconfiggere le macchine, Morpheus lo recluta in una ribellione contro i loro oppressori.

    La trilogia di Matrix (1999–2003), diretta dalle sorelle Wachowski, può essere analizzata in una chiave psicoanalitico-materialista combinando riferimenti alle teorie psicoanalitiche di Freud e Lacan e ai principi materialisti della filosofia contemporanea e delle neuroscienze. Questo approccio permette di interpretare la realtà simulata di Matrix come una metafora della costruzione dell’identità, dell’alienazione sociale e della dialettica tra mente e corpo.

    n una chiave psicoanalitico-materialista, Matrix è un’esplorazione dell’alienazione umana e delle condizioni che la rendono possibile. La trilogia riflette sul rapporto tra mente e realtà, sull’identità e sulla possibilità di emancipazione attraverso un atto radicale di consapevolezza e rottura con l’ordine simbolico dominante. Sia nella psicoanalisi che nel materialismo, l’uscita da Matrix rappresenta la lotta per una nuova soggettività, che riconosce e affronta la realtà materiale senza più nascondersi dietro illusioni.


    Metafora dell’inconscio e della realtà simulata

    In una prospettiva psicoanalitica, Matrix rappresenta la tensione tra il conscio e l’inconscio, con la simulazione digitale che funziona come un meccanismo di rimozione collettiva. La matrice agisce come il principio di piacere freudiano, mantenendo gli esseri umani in uno stato di apparente soddisfazione e sicurezza. Questo stato impedisce loro di affrontare la cruda realtà materiale della loro esistenza: sono sfruttati come fonti di energia dalle macchine, un’immagine che simboleggia l’alienazione capitalistica.

    La figura di Morpheus e la sua offerta della pillola rossa rispecchia il trauma del confronto con il Reale lacaniano: ciò che sta al di là del simbolico e dell’immaginario, ossia la verità brutale e non mediata del mondo. In termini neuroscientifici, il conflitto tra Matrix e la realtà esterna può essere visto come un’analogia del ruolo delle aree cerebrali responsabili della percezione (corteccia visiva, aree associative) nel generare una simulazione interna del mondo che è funzionale alla sopravvivenza, ma non necessariamente “reale”.


    Neo e l’identità come processo dialettico

    Neo rappresenta l’io che tenta di emanciparsi dalla rete simbolica che lo imprigiona. La sua progressiva consapevolezza di essere “l’Eletto” (una figura che potremmo connettere al Sé ideale lacaniano) avviene attraverso un processo di destrutturazione e ricostruzione identitaria. In termini psicoanalitici, Neo incarna il soggetto che rompe con l’Altro (la matrice come rappresentazione del grande Altro) per riconoscere la propria posizione nel sistema.

    Sul piano materialista, questa trasformazione può essere letta come il risveglio di un soggetto alienato che si rende conto delle condizioni materiali della propria esistenza. La trilogia, in questo senso, riflette il concetto marxiano di “falsa coscienza”: gli esseri umani, intrappolati in Matrix, accettano come naturale un sistema di sfruttamento che viene invece artificialmente prodotto.


    Simulazione e controllo: neuroscienze e biopolitica

    L’idea centrale della matrice come simulazione corrisponde alle teorie neuroscientifiche contemporanee che vedono la mente umana come una “macchina predittiva”. La nostra percezione del mondo è una costruzione del cervello basata su modelli interni e input sensoriali (Friston, 2010). Allo stesso modo, Matrix offre un mondo costruito che soddisfa le aspettative sensoriali degli esseri umani, mantenendoli sotto controllo.

    In una chiave biopolitica, questo sistema di controllo totale è paragonabile alle strutture descritte da Foucault e Deleuze, in cui il potere si esercita non solo attraverso la repressione diretta, ma tramite la modellazione del comportamento e dei desideri. Le macchine di Matrix rappresentano un potere che non solo domina i corpi, ma plasma le menti, orientando i soggetti verso una vita che li sfrutta mentre li illude di essere liberi.


    L’amore come interruzione del sistema

    L’amore tra Neo e Trinity può essere interpretato come un’eccezione alla logica del sistema. Per Lacan, l’amore è l’incontro con l’Altro in quanto soggetto e non oggetto di desiderio. Nella trilogia, questo legame sfida le regole della matrice e genera uno spazio di autenticità che sovverte il controllo totale delle macchine.