MORTI PIÚ O MENO VIVENTI_ (8 articoli)

  • Virus L’inferno dei morti viventi: gli zombi secondo Bruno Mattei

    Virus L’inferno dei morti viventi: gli zombi secondo Bruno Mattei

    Un’industria multinazionale operante in Nuova Guinea (la H.O.P.E.) produce un pericoloso prodotto nocivo, che ispirerà parte di Resident Evil e soprattutto trasformerà le persone in zombi cannibali: una parabola ecologista e di denuncia sociale condita nel solito splatter all’italiana.

    In due parole. Direi che Mattei non si tocca: si può discutere lo script fallato, l’interpretazione traballante e lo svolgimento piuttosto noioso, ma è impossibile a mio parere dire che questo film sia girato male. Anche gli inserti documentaristici “mondo” che inframezzano il film non sono montati malaccio, ma bisogna riconoscere che l’attesa per la Evelyn nuda è forse una delle poche sostanziali “molle” voyeuristiche che spingono a (ri)vedere il film oggi (molto di più, per intenderci, del gore in sè o delle discutibili zombi-walk). Un revival sull’onda di Zombi di Romero, fatto ovviamente con molti meno mezzi e capacità, che richiama addirittura i militari vestiti in modo identico e- cosa davvero incredibile – la stessa colonna sonora.

    Quando si recensisce un prodotto del genere c’è il forte rischio, a mio avviso, di lasciarsi prendere la mano. Molte recensioni rischiano così di ridursi ad uno sterile elenco di difetti, senza che il suo potenziale pubblico possa davvero rendersi conto di cosa stiamo parlando. Anzitutto, direi che dopo un’intro piuttosto accattivante (un incidente nella centrale chimica che degenera nel putiferio) siamo introdotti alla storia dei quattri miltari protagonisti: gli stessi che, qualche momento dopo, saranno inviati in Nuova Guinea sostanzialmente a fare occultare le prove del fatto che il disastro apocalittico è esclusivamente colpa dell’uomo.

    La cosa non viene fatta capire troppo chiaramente ma tant’è: uno dei principali difetti di “Virus” è esattamente la scarsa consequenzialità di moltissime sequenze. Giocando un po’ con il residuo di spirito ecologista e no-global ereditato dagli anni 70, Mattei propone un film a fortissime trame kitsch, in cui i personaggi – cosa impossibile da non notare – vengono introdotti senza contesto, bensì sono spiattellati sullo schermo come se fosse la cosa più normale di questo mondo (di morti viventi). Un problema dello script di Mattei e Fragasso, a mio avviso, che ha certamente contribuito a consolidare la fama del duo presso i trash-seeker di tutto il mondo.

    Se è vero che, ad esempio, tra i quattro militari solo il mitico Santoro (quello che passa il tempo ad insultare i morti viventi nei modi più improbabili) ha capito che bisogna sparare loro in testa, al tempo stesso i suoi colleghi non sembrano aver chiaro questa semplice cosa: sparano invece all’impazzata, cercando accuratamente di NON colpire il cranio dei mostri e questo, evidentemente, fa sfociare la pellicola ad un passo dal ridicolo involontario. Al tempo stesso è impossibile non notare che, ad esempio durante l’aggressione in ascensore, viene inquadrata una zombi che, nonostante la situazione drammatica, sembra chiaramente ridere (sic). Del resto gli occhi perennemente spalancati della bella Margie Newton non aiutano la qualità recitativa, anche se l’idea di mescolare cannibalico e zombi movie è – nonostante non sia un picco di originalità – niente male di per sè.

    Per quanto riguarda gli zombi, abbiamo visto di meglio in giro: del resto non si spiega perchè alcuni siano verdastri, altri invece un po’ più scuri (Mattei ha amato molto, a mio avviso, mostrare di continuo occhi spalancati su volti coperti di trucco nero, per cercare di spaventare il suo pubblico in modo forse un po’ ingenuo). Qualche momento splatter all’ennesima potenza, corpi dilaniati senza un perchè, gente che spara quasi sempre a casaccio, le solite fughe all’impazzata ed un finale cupissimo: senza ulteriori descrizioni, direi che “Virus” è pressappoco questo. A poco serve, a questo punto, la metafora contro la società consumistica ed industrializzata, ormai del tutto indifferente al grido di dolore del Terzo Mondo: immersa in un contesto del genere il tutto finisce per passare decisamente in secondo piano.

    Un film adatto, dunque, ai sinceri estimatori del brutto cinematografico: non sarà un capolavoro – anzi, non lo è di sicuro – ma non è neanche lo zenith del trash come suggerito da moltissimi.

  • L’occhio nel triangolo: gli zombi nazisti di Weiderhorn

    L’occhio nel triangolo: gli zombi nazisti di Weiderhorn

    Un gruppo di naufraghi, il Triangolo delle Bermuda ed un generale delle SS che comanda un manipolo di soldati zombi invincibili: per usare una metafora calcistica, il film vince (per la tripla interpretazione Carradine, Cushing, Adams), ma non convince affatto nella sua interezza.

    In due parole. Esperimenti tedeschi segreti hanno permesso di realizzare dei pericolosi soldati modificati geneticamente, sopravvissuti alla guerra fino agli anni 70. Nonostante l’interpretazione di due “mostri sacri” quali John Carradine (il capitano della nave) e Peter Cushing (il comandante SS sull’isola), il film finisce per essere un’occasione persa.

    L’ispirazione della trama è basata su alcune notissime dietrologie, come confermato dall’introduzione originale del film in cui si racconta di soldati tedeschi visti combattere a mani nude durante la seconda guerra mondiale, apparentemente invincibili e mai catturati vivi. Si tratta di una delle note teorie del complotto nazista, con annessa creazione mediante ingegneria genetica di superguerrieri, unite alle ipotesi inquietanti sul Triangolo delle Bermuda. Non si può fare a meno di notare come la storia sia piuttosto fragile nel suo incedere, con momenti decisamente poco credibili ed un po’ campati in aria (l’attacco di claustrofobia di uno dei protagonisti), mentre altre trovate appaiono piuttosto azzeccate, quantomeno per la loro portata “economica” (ad esempio il regista riuscì a far sembrare numeroso un esercito di soli otto attori-zombi, e ridusse a quattro giorni le riprese con gli attori più famosi per poter rientrare nel budget).

    Il film, per la verità, non dice moltissimo: piuttosto prevedibile nello sviluppo, un po’ lento, poco coinvolgente ed interpretato in modo piatto: tuttavia Ken Weiderhorn (regista de “Il ritorno dei morti viventi – parte II” come de “I paraculissimi”) fornisce una prova sostanzialmente non disprezzabile. Un film che potrebbe divertire per la sua ostentata serietà, che racconta una trama prevedibile che fa quasi passare la voglia, e che vive di un’eccessiva ripetitività dell’azione (gli zombi tendono a ripetersi fin troppo), ed è bene che il pubblico abituato a ben altri prodotti stia alla larga.

    Gli automi nazisti sono stati realizzati sui corpi dei soldati migliori dell’esercito tedesco, ed hanno sviluppato forza disumana, capacità di stare sott’acqua e di essere “non morti, non vivi, ma qualcosa di mezzo“: essi non tarderanno ad attaccare gli sventurati naufraghi dell’isola, convinti di essere ancora in guerra agli ordini del proprio comandante. Esiste soltanto un modo per sconfiggerli, e sarà la giovane Brooke Adams a scoprirlo incontrandone uno; nel frattempo pero’, si sono create delle aspettative nello spettatore, che si aspetta una svolta al piattume che lentamente sommerge lo schermo, fino ad arrivare ad un finale amaro e piuttosto “vuoto”.

    La tagline del DVD italiano, in versione integrale con reintegrazione di tutte le scene originali con sottotitoli, è da apoteosi del kitsch, e riassume efficacemente l’intero film: “zombi nazisti in cerca di prede umane“. Dato che la storia non è impresentabile di per sè, “L’occhio nel triangolo” sembra – visto oggi – un’occasione persa o, se preferite, un cult mancato.

    Fonte: imdb

  • Ho camminato con uno zombie: ha ispirato George Romero, ed è invecchiato benissimo

    Ho camminato con uno zombie: ha ispirato George Romero, ed è invecchiato benissimo

    Un’infermiera si reca in una sperduta località delle Indie Occidentali per curare la moglie del signor Holland, affetta da un male misterioso: dopo qualche tempo escono fuori delle inquietanti storie legate ai riti voodoo del posto, che finiranno per legarsi all’intreccio principale.

    In breve. Un must per gli appassionati di horror: un film cult come pochi, e questo non solo perchè fornirà la materia prima su cui Romero baserà la propria poetica sugli zombi, ma soprattutto per via di innumerevoli suggestioni (a volte solo accennate) che fonderanno buona parte del cinema del terrore come lo conosciamo oggi. Capolavoro, da non perdere per nessuna ragione – nonostante l’età.

    Film storicamente fondamentale per il genere horror, tratto da un soggetto di Inez Wallace e considerato all’epoca della sua uscita – ed un po’ superficialmente – “un’opaca e disgustosa esagerazione di un concetto di vita malsano ed anormale” (New York Times); successivamente venne riabilitato per la sua innegabile intelligenza, eccezionalità ed eleganza, fino a diventare un esempio di quello che molti considerano il primo “zombi-movie” della storia. Questo sia per le tematiche sviluppate – il Morto che si vorrebbe far tornare in vita per Amore, un vero classico – che per via della presenza di Darby Jones nei panni di Carre-Four, l’inquietante “walker” dagli occhi vitrei nonchè Guardiano del luogo in cui avvengono i rituali oscuri dell’isola. “I walked with a zombie” è uno dei film di culto che hanno dato vita, di fatto, a quasi tutti – oserei scrivere – gli stereotipi legati all’immaginario cinematografico dei morti viventi, definendone caratteristiche (ad esclusione del cannibalismo, in questa sede), camminata, comportamento e origine prettamente tribale. Non si pensi per questo ad uno “Zombi” ante-litteram perchè, piuttosto, il risultato si avvicina più facilmente all’immaginario dell’orrore a 360*, specie quello che associa il dramma umano – tipicamente una storia d’amore – al terrore materiale verso la morte (oltre alla diffidenza verso le tradizioni locali). Un’accoppiata, Amore/Morte, che sarà esaltata all’ennesima potenza dal gotico di Mario Bava (giusto per citare uno dei più famosi), e che risulta essere da sempre alla base di qualsiasi letteratura horror di qualità. “Ho camminato con uno zombie“, pur non rappresentando – per ovvie ragioni – morti viventi che cercano di azzannare esseri umani armati di fucili, sorprende grandemente per il suo essere “avanti” – è uscito nel 1943! – e per lo sviluppo delle tematiche lugubri contenute al suo interno: la cosa diventa davvero interessante per via di alcune situazioni che, in qualche modo, rappresentano probabilmente una “prima volta” sulla schermo, e tutto questo nella declinazione originaria (la stessa che Fulci avrebbe onorato nel suo Zombi 2) che lega il “morto che cammina” al voodoo.

    Mi pare interessante estrapolare quello che ci viene suggerito dalla pellicola sul tema specifico – gli zombie – per cui lo propongo per esteso di seguito. Questa archetipica storia di morti viventi, di fatto, sembra trarre origine dal martirio di San Sebastiano, che ne rappresenta probabilmente la chiave di lettura più importante: già qui il pubblico più attento avrà sollevato qualche sopracciglio, dato che si tratta del soggetto ritratto – molti anni dopo – nell’affresco della chiesa de “La casa dalle finestre che ridono” (1976). Una rappresentazione di sofferenza senza scampo, senza speranza e senza redenzione (sembra quasi di essere in un disco dei Cannibal Corpse, ricordavo ironicamente in qualche occasione), tanto che spinge la gente del posto – ci viene raccontato – a piangere durante la nascita di un bambino, ed a trasformare in festa i funerali. Tornando al film, all’interno dell’isola di San Sebastian – nelle Indie Occidentali – esiste un antico castello occupato inizialmente dagli spagnoli, che successivamente divenne proprietà della famiglia Holland; quest’ultima fu anche la prima a portare degli schiavi all’interno dell’isola. Nei pressi del cancello di ingresso, inoltre, si presenta l’inquietante “Tormentato“, un “uomo senza età”, una statua con delle frecce conficcate nel corpo ed un’espressione perennemente sofferente: a sua volta questa immagine evoca la polena della nave su cui la povera gente veniva deportata, e possiede un significato simbolico alquanto evidente.

    Diventa automatico, per inciso, cogliere il fortissimo legame tra la letterale resurrezione di cadaveri e l’ampliamento dello sfruttamento di braccia lavoratrici, ovvero allo scopo di moltiplicare la manodopera (sfruttandola, come ha ribadito in più occasioni George Romero). La moglie di Holland, tornando all’intreccio, è gravemente ammalata: per colpa di una misteriosa febbre tropicale vive in uno stato catatonico, percepisce poco o nulla del mondo attorno a sè, e riesce ad eseguire soltanto i compiti più elementari. Anch’essa, quindi, subisce un martirio dovuto a forze oscure esterne: una figura, quest’ultima, grandemente archetipica – e questo non tanto perchè sia una zombi (di fatto non sembra esserlo, tra l’altro il suo aspetto esteriore si mantiene impeccabile), quanto perchè pone le basi per lo sviluppo del dramma: da un lato Miss Cornell finisce per innamorarsi del marito di lei, dall’altra il fratellastro di lui desidera ardentemente la malata, e farebbe proprio di tutto per (ri)averla vicino a sè. Questo doppio conflitto rende la storia accattivante e propone una rappresentazione del “morto vivente” duplice: da un lato la catatonica che vive una non-morte senza riuscire più ad interagire coi vivi, dall’altra un undead dal passo cadenzato che presenta le principali caratteristiche che tutti conosciamo: occhi gelidi, camminata al rallentatore e mancanza di volontà propria. Tutto questo spinge l’inizialmente scettica infermiera di Ottawa a recarsi presso un antichissimo villaggio in cui si pratica il voodoo, attraversando i campi di cotone oltre i quali arcaici riti hanno ancora vita, senza considerare che presto la povera malata dovrà pagarne le conseguenze.

    Durante il film, tra l’altro, il medico che segue la paziente arriva a concepire una terapia di shock insulinico, ovvero una specie di elettroshock per provare a riportare in vita la “morta” (ed in questo, nonostante sia solo un accenno, non può che venire in mente il lovecraftiano mad scientist di Re-Animator). Subito dopo è la volta del prete voodoo, che viene esplicitamente eletto come una sorta di “medico migliore”, e per ottenere la felicità dell’uomo amato l’infermiera protagonista vorrà spingersi fino in fondo: la stessa dinamica che finirà per muovere, per citare ancora Pupi Avati, il protagonista di Zeder. L’amore impossibile, ed il suo legame con la morte, si stabiliscono come stereotipo con questo capolavoro del terrore: la summa rende “Ho camminato con uno zombie” un’opera profondissima ed ispiratrice di molteplici pellicole, dotata di una poetica sensibile – e questo è possibile avvertirlo sia nella tragica conclusione che nella moralisticheggiante voce fuori campo che commenta la vicenda. Non un tributo totalmente rivolto agli zombi-movie “puri”, quindi (che avranno tempo e modo di svilupparsi), quanto ad un cinema di terrore e dramma che ancora oggi resta vivido come faro indiscusso del genere.

    …esseri strani, spaventosi, ed anche un po’ buffi