Ospite Inatteso

  • The human centipede è una cruda metafora socio-politica (forse)

    The human centipede è una cruda metafora socio-politica (forse)

    Uno scienziato pazzo rapisce turisti allo scopo di tentare un singolare esperimento: un centipede umano.

    In breve: difficile dare una valutazione assoluta, tanto il film è in bilico tra un registro indigesto (e fine a se stesso) ed uno, tutto sommato, a suo modo originale.

    Due ragazze americane si perdono in un bosco della Germania, ed incontrano casualmente, invece del principe azzurro, un vecchio chirurgo misantropo di nome Josef (ogni riferimento a personaggi famosi del passato dovrebbe essere tutt’altro che incidentale). Questi narcotizza le due ragazze e le assicura a dei lettini da ospedale, il tutto allo scopo di tentare un incredibile esperimento di chirurgia: realizzare un centipede umano, un gigantesco insetto-umano che coinvolge anche un terzo ragazzo. Non è difficile immaginare come abbia intenzione di collegare i tre sventurati, visto che il suo “sogno” è che la creature disponga di un’unico apparato digerente. L’operazione viene dettagliatamente descritta mediante appositi lucidi alle tre vittime, che tentano ripetutamente la fuga e dovranno alla fine sottoporsi a questa tortura, di cui il lato strettamente chirurgico, descritto con dovizia di particolare, è espressione grottesca e delirante di un destino quasi peggiore della morte.

    Quello di The human centipede è – potremmo dire, senza timore di blasfemia – un sostanziale body-horror, privato della vena filosofica cronenberghiana ed avvolto in una spirale di cinismo e disgusto senza limite: Six riporta la carne alla carne, riduce dei corpi nudi a bestiame da macello e senza, per questo, voler intendere alcun sottotesto sociale (almeno in apparenza, come invece ha fatto A serbian film). Se si volesse parlare di originalità, si potrebbe tranquillamente farlo: il problema è che emergono un po’ di limiti, più che altro concettuali: ok, va bene il disgusto, l’orrore esplicito, la perversione feticista come metafora di sopraffazione, ma serve dell’altro – altrimenti il rischio noia è dietro l’angolo. Anche perchè, pur non volendo fare un horror prettamente politico, resta un dubbio sostanziale ad affliggere le nostre provate menti di cinefili: se è vero che sono esistiti vari mad doctor che praticano chirurgia sadica, lo facevano sempre per raggiungere un obiettivo (per quanto folle o irrealistico potesse essere). In altri termini, a cosa servirà mai un centipede umano se non a fare un film del genere che è diventato anche, negli anni, una saga? Uno dei tanti film che,  in altri termini, dice tutto senza, alla fine, dire nulla, confinandosi in un limbo comunicativo che ti farà chiedere “ma che cazzo ho visto?”.

    Il film scorre inesorabile, con alcune sequenza assurdamente indigeste e si attende la fine del film, con ansia, come una sorta di liberazione. Tom Six non possiede nulla dell’eleganza di Cronenberg, s’intende, tantomeno credo che aspiri a nulla di tipico del canadese, ma qui il problema di fondo è che la storia è totalmente monca, pointless nella sua narrazione e troppo concentrata ad esibire sadismo. “Il centipede umano” non riesce, nonostante tutto, ad essere un film pessimo, e nemmeno a diventare un cult tra qualche decennio (…o magari lo diventerà, chissà). Ripeto, non è un film da scansare come la peste, ammesso pero’ che abbiate lo stomaco di ferro e siate amanti dell’horror più estremo.

    The human centipede è realismo allo stato puro, non ha nulla di favolistico: ci tiene ad essere disgustoso nella sua maniacale descrizione medico-chirurgica, e da’ per scontato (non sappiamo sulla base di quale argomentazione) che la coprolalìa sia una componente fondante della paura. Il regista, peraltro, ha avuto un vero chirurgo come consulente: questo fa molto Cronenberg, ma ripeto: non è un film da cineforum, e basta leggere una mitica intervista al regista che afferma candidamente it’s for fun per capirlo.

    Se poi volete fare gli intellettuali fuori corso all’università, ve ne basti una: due vittime sono americane, una è giapponese mentre il cattivo è tedesco, il che si presa ad una rilettura in chiave storica, precisamente seconda guerra mondiale, il nazismo. Ma poi stop, quando hanno finito di spiegarvi queste cose eravate assenti, in un certo senso: piazzare dei fondali luminescenti, risaltare il camice del medico in un’atmosfera chirurgica e piazzare un’aquila nazista nella sua casa è un po’ pochino per urlare alla metafora simbolista del secolo. È chiaro, quindi, che siamo quasi esattamente sulle stesse sponde che ha voluto toccare un film analogo, per certi versi, quale Grotesque.

    Josef – il medico folle, non spiega perchè agisca in quel modo; sappiamo che è affetto da varie forme di perversioni, di cui quella sadico-feticistica gioca un ruolo da padrone, ma il discorso finisce lì. Nessuna spiegazione ulteriore, nessun flashback o approfondimento. Il centipede spiazza, nella sua semplice e diretta brutalità, e pure parecchio. Il film procede con un’insistenza – quasi compiaciuta – nel mostrare la continua ed interminabile sofferenza delle tre vittime, senza  neanche provare delineare lo spessore dei personaggi coinvolti. Cosa stanno espiando le vittime? Dentro film cruenti come Saw abbiamo il piacere di saperlo, alla fine, qui no: e ci manca solo una bella pernacchia conclusiva, tipo Alvaro Vitali dei bei tempi.

    Il senso di liberazione provato nel finale credo che sia qualcosa di universale, così come il notevole twist che si verificherà poco dopo (il finale merita, ed è il solo motivo per cui non mi sento di bocciare questo film). Così, mentre lo spettatore più sensibile si ritrova con lo stomaco rivoltato, e magari neanche riuscirà a finire di vederlo, quello più propenso all’intellettualismo non troverà pane per i suoi denti. Senso di indefinito, quindi, che poi si materializza nel fatto che siamo lontanissimi dai canoni della black-comedy: c’è poco o nulla da ridere, insomma, a confronto il sadismo di Funny Games è quasi demenziale, e l’unico richiamo che possa venirmi in mente, a parte le citazioni da horror di cassetta anni 70/80, è quello del genere nazi-sexploitation.

    Il centipede umano” è orrore puro, “divertimento” diretto e crudele, che emana la cattiveria del protagonista: perfetto, inumano, detestabile dal pubblico fin dal primo istante, proprio perchè praticamente privo di debolezze ed empatia. Al tempo stesso rimane in una sorta di purgatorio, per cui non si riesce a capire chi si abbia di fronte, e che reazione si possa avere: se si debba ridere, vomitare, urlare al capolavoro, scappare o piangere.

    Nella serie South Park il film è stato parodiato come HUMANCENTiPAD. Nel loro caso, la colpa da pagare è quella di aver cliccato “Accetto” sulle rinnovate condizioni d’uso di Apple. Se non altro, Trey Parker e Matt Stone hanno dato una motivazione.

    Il film horror sul millepiedi umano si presta ad un’analisi sociologica non da poco. Forse

    Nel 2009, il regista Tom Six ha pubblicato The Human Centipede: First Sequence che è stato un appello per i fan del genere solo per il suo concetto. Apparentemente, il film era basato su un’affermazione ironicamente feroce secondo cui ogni molestatore di bambini dovrebbe essere punito in questo modo. La trama ruota attorno a uno scienziato tedesco pazzo che vuole costruire un millepiedi umano unendo diverse persone insieme dalla bocca al fondoschiena.

    Il tutto è stato pubblicizzato con lo slogan “100% medicalmente accurato” che è stato (presumibilmente) confermato da un chirurgo che era presente durante le riprese del film. Ciò che è stato davvero sorprendente è stato il fatto che il Dr. Heiter si comporta in modo così serio e che il film non è poi così spettacolare – il valore dello shock deriva dal perturbante, a nostro parere (la storia è talmente assurda che potrebbe essere vera, anche se poi ovviamente non lo è) dalla recitazione psicotica di Dieter Laser. È un pezzo di cinema disgustoso relativamente intelligente che è stato in grado di schivare, almeno per gran parte, qualsiasi accusa di horror pornografia o, come andava di moda scrivere anni fa, “torture porn”.

    La storia

    All’inizio ci sono le due classiche studente americane in cerca di avventure, ridono e parlano spensieratamente, e non sanno quello che le aspetta. Incontrano così l’orco di turno, Josef (nomen omen), che prevedibilmente le narcotizza per poi legarle ad un letto d’ospedale. Ma non è il sesso, ciò che vuole Josef: vuole creare un singolare esperimento bio-tecnologico in cui le ragazze saranno parte integrante. Un centipede umano sarebbe come un millepiedi composto da almeno tre persone, legate tra di loro con punti chirurgici e in corrispondenza del didietro e della bocca. Non riusciamo a dirlo meglio di così: è una metafora. Di quelle potenti, qualcuno dirà è un po’ trash, certo che lo è, ma è una metafora trash in effetti. La metafora del mondo trash in cui ci tocca vivere, in fin dei conti.

    Lo scopo di Josef – cattivo raggelante nonchè, ci passiate l’azzardo, unico nel suo genere – non è tanto quello di costringere i malcapitati a praticare la coprofagia l’uno dell’altro: è quello di creare nuova vita, come un novello dottor Frankenstein. Con un feticismo così particolare, del resto, non è impossibile pensare ad un’interpretazione socio-psicologica del mondo in cui viviamo. Un mondo in cui un inquietante Grande Altro ha finito per legarci l’uno a l’alto, rendendoci interdipendenti e costringendoci a collaborare tra di noi. Ma nel mondo in cui viviamo è difficile collaborare, per cui il nostro Io si trova costretto a collaborare alla meno peggio.

    Ci convince, e vorremmo lasciare questa suggestione a chiunque abbia visto il film, comunque ne sia rimasto: disgustato, offeso, raccapricciato, colpito e via dicendo.

    Il film è stato presentato in anteprima al London FrightFest Film Festival il 30 agosto 2009. Ha ricevuto un’uscita nelle sale limitata negli Stati Uniti il 30 aprile 2010. Nonostante un’accoglienza di critica mista, il film ha vinto numerosi riconoscimenti ai festival cinematografici internazionali. Due sequel anch’essi scritti e diretti da Six, Full Sequence e Final Sequence, sono stati rilasciati rispettivamente nel 2011 e nel 2015. L’intera trilogia è stata combinata in un unico film nel 2016, intitolato Complete Sequence, che Six ha descritto come un “millepiedi del film” a causa del fatto che ogni sequenza porta al suo successore mentre lavorava contemporaneamente come film autonomo separato.

  • Blood Feast è stato il primo horror splatter mai girato

    Blood Feast è stato il primo horror splatter mai girato

    Un donna di Miami si reca in un ristorante esotico per organizzare un banchetto per la figlia: non sa che il venditore è uno psicopatico che usa smembrare corpi di donne per allestire sacrifici umani, in onore della dea Ishtar (mesopotamica, ma spacciata per egizia nel film).

    In due parole. Blood Feast dovrebbe essere visto da qualsiasi appassionato di splatter e, probabilmente, da nessun altro: con sano gusto vintage (siamo negli anni 60) rappresenta morbosamente la contrapposizione tra il mondo perbenista dell’America e la ferocia assassina di un insospettabile maniaco. Le scene gore sono inusualmente forti per l’epoca, fino a confezionare un buon grindhouse con molta forma e poca sostanza.

    Girato a Miami in soli nove giorni, con costo complessivo di circa 25.000 dollari, fa riferimento fin dal titolo al “banchetto di sangue” egizio effettuato tradizionalmente 5.000 anni fa, il quale prevedeva non soltanto il sacrificio di una sacerdotessa, ma anche un vero e proprio atto di cannibalismo. Lewis riesce a mettere assieme dettagli disgustosi ed una trama piuttosto esile per produrre quello che viene considerato universalmente il primo splatter della storia: violento, sgradevole ed esteticamente perfetto. Gli effetti speciali sono davvero impressionanti per un film dei primi anni 60, ed il sangue scorre a fiumi in un rosso vivido che ricorda – a partire dai titoli di testa – più quello della vernice colante che altro. Esagerata e grottesca (ma per nulla divertente) la rappresentazione del gore, con punte di esagerazione a partire dal macabro dettaglio con cui viene reso il sezionamento del killer, perennemente con gli occhi di fuori ed attentissimo a prelevare un organo differente da ogni vittima. La violenza dell’assassino è pari probabilmente solo a quella del “paperino” de Lo squartatore di New York, una “mazzata” del cinema anni 80 amatissima dai fan ed accusata più volte di compiaciuta misoginìa. Qui il Bene finisce per trionfare, ed in un modo che più ovvio non si può, mentre passa la sensazione sgradevole di un’America puritana che sembra guardare con sospetto agli stranieri titolari di ristoranti, immaginati come soliti cucinare essere umani e servirli come vivande. Un razzismo velato, forse del tutto involontario, che non è comunque mai troppo fine a se stesso, e che si presta a voler rassicurare il pubblico ad ogni costo nonostante l’efferatezza della maggioranza delle scene.

    Per appassionati e curiosi dei meandri splatter è semplicemente una chicca del suo genere.

  • Abducted in Plain Sight racconta di un insospettabile vicino di casa che rapisce una ragazzina

    Abducted in Plain Sight racconta di un insospettabile vicino di casa che rapisce una ragazzina

    La vera storia della famiglia Brobergs, una famiglia dell’Idaho che per anni non si accorse di aver dato fiducia e fatto avvicinare alle figlie un insospettabile sociopatico con tendenze pedofile.

    In breve. Un documentario inquietante su una delle storie più incredibili capitate negli USA anni ’70: il duplice rapimento dell’attrice Joan Broberg Felt, all’epoca ragazzina, da parte di un insospettabile vicino di casa. La vittima viene anche intervistata assieme ai genitori, che forniscono dettagli reali (ed incredibili) sulla vicenda.

    Il peggior incubo di qualsiasi genitore è la tagline che accompagna il documentario Netflix, girato con stile vivido da true crime e tratto da fatti realmente accaduti. La storia, in effetti, ha dell’incredibile: si parla del duplice rapimento, a 12 e 14 anni, dell’attrice americana Jan Broberg Felt da parte dell’amico di famiglia Robert Berchtold, vicino di casa e membro della medesima comunità locale  della Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni.

    Abducted in Plain Sight è uscito nel 2017 ed è appena arrivato su Netflix anche per l’Italia: con un titolo che evoca la exploitation anni ’70 (ed il paragone è tutt’altro che gratuito, dati gli argomenti trattati), il regista Borgman costruisce una storia dai tratti realistici ed inquietanti, con una disinvoltura considerevole nel rendere dettagli e per una storia, per quanto surreale, che sembra tratta dalle vite di chiunque. Che non implica solo abusi e rapimento di una minorenne, ma racconta soprattutto le successive conseguenze sulla vita della ragazza in seguito. In seguito al brainwash subito, Jan cresce traumatizzata ma difendendo il proprio aguzzino, arrivando a farsi rapire una seconda volta, questa volta sotto falso nome e raccontando che Berchtold fosse un agente della CIA.

    La voce proveniva da un piccolo interfono, ero legata al letto… pensavo di essere stata rapita dagli alieni.

    In effetti all’inizio non si capisce se si tratti di vere immagini di repertorio o di ricostruzioni, cosa che diventa più chiara nel seguito (in realtà è un mix delle due cose): ma poco importa, perchè l’attenzione dello spettatore è catturata, seppur con la lentezza tipica di questo genere di documentari, che hanno la tendenza ad allungare un po’ troppo le fasi del racconto, in alcuni momenti. Questo comunque aiuta a creare un effetto da mockumentary, con la differenza considerevole che la storia è reale – e soprattutto che le vere vittime vengono intervistate durante lo svolgimento della stessa. Soprattutto, se si volesse evidenziare un difetto del film, bisognerebbe notare che alcuni dettagli non sembrino troppo consequenziali, nonostante la storia sia narrata con dovizia di particolari e scatenando l’effetto traumatico di pellicole analoghe su questi argomenti, come ad esempio Mysterious Skin (in cui gli UFO sono analogamente simbolo di un trauma regresso) oppure (in tema di abusi da persone vicine a noi) Strange Circus.

    Vittime che, per inciso, non risparmiano dettagli terrificanti: gli abusi da parte del rapitore pedofilo, che per arrivare alla piccola Jan, prima ne seduce la madre e poi abusa sessualmente del padre di lei, senza che la cosa induca un minimo sospetto in seguito, almeno fino alle indagini affidate all’FBI. È anche presente più di una dichiarazione dell’ufficiale di polizia che seguì il caso, che all’epoca non aveva neanche la corretta percezione del fenomeno – perchè probabilmente, nella piccola provincia USA dell’Idaho, non era pensabile che potesse succedere un fatto del genere.

    Per ben due volte, peraltro, e passando per personaggi ambigui ed inquietanti quali finti psicologi, e ne fuoriesce un’immagine del crudele protagonista subdola, manipolatrice, perversa e attento ai minimi dettagli, oltre decisamente scaltra ed in grado, ogni volta, di farsi ridurre la pena (morì suicida per non scontare la terza condanna). In grado di architettare, fin dall’inizio, un modo pazzesco per darsi credito: far credere alla giovane vittima di essere stati rapiti dagli alieni, e di doversi unire a lui come unica possibilità per salvarsi.

    L’ingenuità della ragazzina, derivante anche dall’educazione ricevuta in famiglia e dall’ambiente di provincia, non le permise tragicamente di sospettare nulla, almeno all’epoca dei fatti, fino alla liberazione da parte della polizia messicana e dopo un secondo rapimento, questa volta degno di una spy story. Senza timore di cadere negli stereotipi, a questo punto, potremmo dire che nel caso di Rapita alla luce del sole la realtà aveva abbattuto qualsiasi imprevedibile trama da fiction.

    Un ritratto forse impietoso dell’America dell’epoca, senza dubbio, che restituisce un’immagine ingenua delle vittime che fa scalpore, probabilmente più come effetto indiretto che come autentico sensazionalismo. Sicuramente da vedere.

  • Malice: sinossi, cast, trama, produzione e spiegazione finale

    Malice: sinossi, cast, trama, produzione e spiegazione finale

    Malice – Il sospetto” è un film del 1993 diretto da Harold Becker. Si tratta di un thriller psicologico con un cast stellare, tra cui Alec Baldwin, Nicole Kidman (in uno dei suoi primi ruoli da protagonista) e Bill Pullman. Di seguito troverai informazioni sulla produzione, la sinossi, alcune curiosità e una spiegazione finale del film (con spoiler):

    Cast

    • Alec Baldwin nel ruolo del Dr. Jed Hill
    • Nicole Kidman nel ruolo di Tracy Kennsinger
    • Bill Pullman nel ruolo del Dr. Andy Safian
    • Bebe Neuwirth nel ruolo di Dana Kennsinger
    • George C. Scott nel ruolo del Dr. Martin Kessler
    • Anne Bancroft nel ruolo di Mrs. Kennsinger

    Il film è stato prodotto da Aaron Spelling e Alan Greisman. La sceneggiatura è stata scritta da Aaron Sorkin insieme a Scott Frank.

    Sinossi

    Il film ruota attorno a un giovane medico di nome Andy Safian (interpretato da Bill Pullman) e alla sua moglie Tracy (interpretata da Nicole Kidman). La coppia si trasferisce in una piccola cittadina dove Andy trova lavoro in un ospedale locale. Tuttavia, quando una serie di eventi misteriosi e sospetti inizia a verificarsi, tra cui una serie di violenze sessuali, la coppia si trova coinvolta in una trama oscura che coinvolge anche il loro vicino, il dottor Jed Hill (interpretato da Alec Baldwin). L’indagine sulle violenze sessuali e sui crimini collegati porta alla scoperta di verità sconvolgenti e segreti nascosti.

    Curiosità:

    • Il film è noto per le sue torbide dinamiche di potere e per le rivelazioni inaspettate che si svelano man mano che la trama si dipana.
    • La performance di Alec Baldwin è stata particolarmente elogiata per la sua abilità nel creare un personaggio ambiguo e inquietante.

    Spiegazione finale (avviso Spoiler)

    Alla fine del film si scopre che il dottor Jed Hill è il colpevole dietro i crimini commessi. Si rivela che Jed è un abile chirurgo e un sociopatico che ha perpetrato gli atti violenti e ha orchestrato una serie di eventi per far sembrare che il dottor Andy Safian fosse il colpevole. Aveva manipolato Tracy, la moglie di Andy, per convincerla che era incinta di lui, inducendo così Andy a compiere azioni in nome della sua famiglia. Alla fine, Andy riesce a smascherare le azioni di Jed e a salvare la sua famiglia.

    In sostanza, il film gioca con le tematiche della fiducia, della manipolazione e dell’identità, creando una trama complessa che sfida le aspettative dello spettatore fino alla rivelazione finale.

    Di screenshot catturato da Utente:Valerio79 – video, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=3877887

  • L’ape regina: sono andato in bianco, e sono contento

    L’ape regina: sono andato in bianco, e sono contento

    Alfonso decide di sposare Regina, dopo una vita da quarantenne single. L’uomo è convinto di aver trovato la donna perfetta, dato che si mostra sincera e riservata, tanto da non concedersi a lui prima del matrimonio. Dopo essersi sposati, le cose cambiano…

    In breve. Un climax senza sconti sugli effetti del bigottismo sulla società, con un indimenticabile Ugo Tognazzi in un ruolo ineditamente drammatico. Da non perdere.

    L’ape regina, rinominato “Una storia moderna: l’ape regina” dopo l’intervento della censura dell’epoca (siamo nel 1963), è un film grottesco da collocarsi nella complessa poetica del regista Marco Ferreri, che va da La grande abbuffata fino al più criptico Dillinger è morto, con numerose ulteriori opere espressione di un linguaggio complesso, mosso su vari registri e quasi sempre socialmente / politicamente impegnato. Il punto di vista contenuto ne L’ape regina (film per cui Marina Vlady vinse come miglior interprete femminile, e Ugo Tognazzi ebbe un Nastro d’Argento come Migliore attore protagonista) è quantomeno insolito, perchè narra di una neo coppia apparentemente “media”, per cui si disvela un inquietante scenario. Uno scenario in cui l’unico modo per cui la donna possa avere la meglio è, di fatto, quello di “allearsi” al cattolicesimo imperante – il film venne rimaneggiato e censurato dopo la sua uscita, ovviamente.

    Lo sai perchè sono contento? Perchè sono andato in bianco!

    By [1], Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=36692171
    Subito dopo il matrimonio, infatti, vediamo sbucare fuori la reale natura di Regina: molto religiosa (devota a una santa barbuta), obbliga il consorte ad abitare vicino al Vaticano, si mostra compiacente rispetto all’invasività nella coppia dei parenti di lei, oltre che condizionante sul carattere di Alfonso (uomo che si rivela fragile, insofferente al bigottismo quanto facile da plagiare). Vediamo la quotidianità ed intimità della coppia, che sembra fatta in apparenza di passione e complicità – ma che sta logorando Alfonso, pressato dalla sessualità dirompente ed invasiva da parte della moglie (che, neanche a dirlo, vorrebbe rimanere incinta ad ogni costo).

    Del resto la religione, abilissima ad avere la pretesa di controllare l’istinto altrui, in questa circostanza si mostra ostile ad Alfonso e strumento nelle mani di Regina: ce ne accorgiamo dalla sequenza in cui l’uomo prova a confidarsi col prete che li ha sposati, il quale gli prescrive un ricostituente ormonico – tanto lo prendono tutti, perchè Sant’Alfonso (evidentemente, nomen omen) ha scritto in ginocchio […] sui rapporti coniugali […]: il coniuge non può e non deve sottrarsi al desiderio legittimo dell’altro coniuge. Il desiderio santo (così come viene definito) è accettabile sempre e comunque, purchè adagiato sui dettami della chiesa, anche se poi diventa ossessivo e svilente per il protagonista, al quale viene ripetuto più volte di fare un figlio alla svelta per “risolvere” il problema.

    Non lo fo per piacere mio, ma per far piacere a Dio!

    In nuce sembra di assistere alle medesime tematiche affrontare, in tempi recenti, da quel piccolo cult quale è The lobster, in cui la sessualità era gestita a comando ed andava finalizzata in modo pre-determinato: coppia o single, senza vie di mezzo e senza sfumature, a voler per fora accondiscendere una delle due distopìe. Ferreri intuisce la questione in modo atipico, se vogliamo, invertendo i ruoli tradizionali uomo-donna e mostrando un uomo succube della consorte. È anche chiaro che manda il messaggio forte e chiaro che la religione svilisca l’aspetto piacevole del sesso e ne esalti, puramente, quello procreativo; tanto peggio se lo fa sfruttando l’avvenenza di Regina, fino alla fine cinica e calcolatrice. Alla fine l’uomo diventerà un vuoto a rendere, privato di ogni individualità, padre destinato a cedere il passo ad una prole mai davvero voluta, prima del tempo.