Ospite Inatteso

  • La zona di interesse: trama, spiegazione, finale

    La zona di interesse: trama, spiegazione, finale

    “La zona di interesse” è un film storico del 2023 scritto e diretto da Jonathan Glazer, una co-produzione tra Regno Unito, Stati Uniti e Polonia. Liberamente ispirato al romanzo del 2014 di Martin Amis, il film si concentra sulla vita del comandante tedesco del campo di concentramento di Auschwitz, Rudolf Höss, e di sua moglie Hedwig, che vivono con la famiglia in una casa situata nella “Zona di Interesse” accanto al campo. I protagonisti sono Christian Friedel nel ruolo di Rudolf Höss e Sandra Hüller in quello di Hedwig Höss.

    Lo sviluppo del film è iniziato nel 2014, in concomitanza con la pubblicazione del romanzo di Amis, che a sua volta trae parzialmente ispirazione da eventi reali. Jonathan Glazer ha scelto di raccontare la storia della famiglia Höss piuttosto che dei personaggi fittizi del libro, conducendo un’approfondita ricerca sulla famiglia per realizzare un’opera che demistificasse i perpetratori dell’Olocausto, presentandoli non come “mitologicamente malvagi”, ma come esseri umani reali. Il progetto è stato annunciato ufficialmente nel 2019, con A24 confermata come distributore. Le riprese principali si sono svolte intorno al campo di concentramento di Auschwitz nell’estate del 2021, con ulteriori riprese a Jelenia Góra nel gennaio 2022.

    “La zona di interesse” è stato presentato in anteprima al 76º Festival di Cannes il 19 maggio 2023 e distribuito nelle sale statunitensi il 15 dicembre 2023. Il film ha ricevuto il plauso della critica e incassato oltre 52 milioni di dollari. Tra i riconoscimenti, ha ottenuto cinque nomination ai 96º Premi Oscar, vincendone due: Miglior Film Internazionale (il primo per un film britannico non in lingua inglese) e Miglior Sonoro. Inoltre, ha conquistato il Grand Prix a Cannes, tre premi BAFTA, incluso quello per il Miglior Film in Lingua Straniera, e ricevuto tre nomination ai Golden Globe. La National Board of Review l’ha incluso tra i cinque migliori film internazionali del 2023.

    A Berlino, Rudolf Höss viene incaricato da Oswald Pohl di dirigere un’operazione che porta il suo nome. Questa operazione prevede il trasporto di 700.000 ebrei ungheresi nei campi di concentramento, destinati al lavoro forzato o all’eliminazione. Questo incarico gli permetterà di tornare ad Auschwitz e di ricongiungersi con la sua famiglia. Durante una festa organizzata dall’Ufficio Centrale Economico e Amministrativo delle SS, Höss partecipa con un atteggiamento apatico. Successivamente, al telefono con sua moglie Hedwig, confessa di aver passato il tempo alla festa riflettendo su quale fosse il modo più efficiente per gasare i presenti.

    Mentre lascia il suo ufficio a Berlino, Höss scende una scala e improvvisamente si ferma, conati di vomito lo travolgono mentre fissa nel buio dei corridoi del palazzo. Nel presente, l’Auschwitz-Birkenau State Museum viene pulito da un gruppo di inservienti, simbolo della memoria e della necessità di preservare i luoghi della tragedia. Tornando al 1944, Höss riprende la discesa lungo le scale, immergendosi sempre di più nell’oscurità.

    Il finale di The Zone of Interest è profondamente simbolico e suggerisce un contrasto tra il passato e il presente. La scena di Höss che scende le scale rappresenta metaforicamente la sua discesa nella disumanità e nella depravazione morale, un viaggio sempre più profondo nell’oscurità, che è sia fisica che spirituale. I conati di vomito potrebbero indicare un momento di rigetto fisico o emotivo, ma l’assenza di un reale pentimento mostra la natura automatizzata e spersonalizzata delle sue azioni.

    La presenza dei custodi nel museo di Auschwitz oggi sottolinea l’importanza della memoria e della riflessione su ciò che è accaduto. L’alternanza tra i due periodi rafforza l’idea che, nonostante il tempo passi, il peso di quegli eventi rimane tangibile, così come la responsabilità di ricordarli e di non dimenticare l’orrore causato da individui apparentemente “ordinari”.

  • I cannibali di Liliana Cavani portò l’indovino Tiresia nel centro di Milano

    I cannibali di Liliana Cavani portò l’indovino Tiresia nel centro di Milano

    Quattro ragazzini trovano uno sconosciuto accasciato in spiaggia, si incuriosiscono e lo svegliano. Fuggendo via, vengono brutalmente colpiti a morte da un gruppo di militari, mentre l’uomo (che si scoprirà essere Tiresia, la cui lingua è incomprensibile alla maggioranza delgi uomini) rimane inebetito ad assistere alla scena.

    Tu ci vedi, ma pur vedendoci non vedi in che abisso sei caduto è la citazione, attribuita a Tiresia, dall’Antigone di Sofocle da cui trae ispirazione questo film, che ne da’ il via dopo un inizio traumatico (la morte di quattro bambini, idea di per sè in controtendenza rispetto alla maggioranza delle pellicole).

    A dirla tutta, si potrebbe assistere alla visione de I cannibali anche senza sapere nulla del classico di riferimento, tanto la regia di Liliana Cavani è concisa, sintetica ed efficace. Antigone è il personaggio a tutto tondo che esce volutamente fuori dalle righe, consapevole della carica etica e rivoluzionaria del suo gesto, un gesto che la società utilitaristica e narcotizzata non può capire e che, per questo, verrà martirizzata dal sistema. Simbolo della libertà di coscienza e derisa dal potere capitalistico (ci sono più sequenze nel film che esprimono questa metafora), nell’antica mitologia Antigone sfidò le autorità, a prezzo della sua stessa vita, pur di garantire una degna sepoltura al fratello Polinice, contrastata dal re di Tebe che, dal canto suo, voleva proibirla al fine di consolidare il proprio potere politico.

    Ne I cannibali (noto all’estero anche con il titolo The year of the cannibals, e distribuito in Italia da Raro Video) c’è anche spazio anche per una profonda considerazione sociologica: in un mondo militarizzato di soldati cinici e obbedienti al Super Io del Potere, i media sono talmente allineati al potere da fare le sue veci, catturando personalmente uno dei dissidenti, facendo un grottesco annuncio al telegiornale in pompa magna. Basti poi considerare la sequenza in cui Tiresia prova a scappare e, invece di provare a riprenderlo, il commentatore TV si lascia andare ad una surreale telecronaca dell’evento per capire come un film del genere, per quanto dall’andamento serioso, non manchino momenti di cupa, autentica ironia.

    Tu sei mio padre, e tu sei… il mio padrone. (Emone)

    Nel clima distopico imperante, i dissidenti vengono uccisi e usati come monito per i sopravvissuti, e nella migliore delle ipotesi sono rinchiusi in una sorta di carceri-manicomi, dove sono sottoposti a vessazioni di ogni genere. The Cannibals è anche il primo film di Cavani a fare affidamento (per garantirsi massima libertà espressiva, si presume) a una casa di produzione indipendente, il che lo rende ancora più diretto e interessante da reperire. Vedremo pertanto Antigone (giovane donna dei giorni nostri, intepretata da una efficace Britt Ekland, da bellezza enigmatica dalle motivazioni oscure a corpo sfigurato e martirizzato) che trafuga il cadavere del fratello (un contestatore ucciso dalla polizia) assieme a quelli di altri ragazzi che hanno subito la stessa sorte, trasgredendo così la repressiva legge vigente.

    Nel compiere l’impresa sarà proprio Tiresia (Pierre Clémenti), giovane altrettanto misterioso con cui sembra l’unica a riuscire a capirsi, a dargli una mano nel realizzare la propria idea. Il contrasto, pertanto, sembra perennemente giocato sulla contrapposizione tra adulti calcolatori e privi di scrupoli e giovani rivoluzionari vessati dal sistema nei modi più fantasiosi.

    Il mito del poeta tragico Sofocle (497-406) viene così traslietterato ai giorni nostri mediante una sostanziale modernizzazione: il re diventa il primo ministro, la protagonista una figlia di buona famiglia non allineata, mentre le relazioni tra i personaggi restano sostanzialmente intatte rispetto all’originale. Non c’è alcun sentimento didascalico nel farlo, soprattutto, e questo favorisce la fruibilità di un lavoro che, per l’epoca, deve certamente aver fatto discutere parecchio (anche chi non dovesse conoscere l’originale poteva capire appieno il senso dell’opera, anche solo per la scelta di rottura di ambientarlo nel centro di una Milano fin troppo riconoscibile).

    Il significato de I cannibali appare chiaro nella propria valenza puramente politica, anche per il periodo in cui uscì: 1970, a cavallo del Sessantotto, in un periodo in cui gli scontri per strada tra polizia e manifestanti erano all’ordine del giorno, oltre che motivo di acceso dibattito nell’opinione pubblica. Un film che si potrebbe quindi collocare nella costellazione dei film anni settanta di matrice socio-politica come, per intenderci, La proprietà non è più un furto oppure Dilinger è morto.

    Dal canto suo, il Potere – il vero “mostro” della storia – appare auto-indulgente all’ennesima potenza: messo davanti alla situazione estrema della sua stessa figlia ricoverata in gravi condizioni in ospedale e personificato dal Re / Primo ministro, rifiuta cinicamente di salvarla in nome dello Stato, dato che cedere ad una richiesta di pietà avrebbe avuto il peso politico dell’auto-delegittimazione.

    La trama del film parte da una spiaggia (dove, chissà come , è arrivato Tiresia), mentre la regia equilibrata e realistica della Cavani mostra un mondo distopico, colmo di indifferenza, spie, allegorie e delatori. La gente muore per le strade, senza che nessuno sposti i cadaveri, e nessuno se ne lamenta. Il quadro è chiaro fin dai primi fotogrammi, proprio mentre vediamo passanti aggirarsi tra i morti come se fossero semplici elementi del paesaggio.

    Peggio ancora: esiste una legge specifica che punisce duramente chiunque osi toccarli o spostarli. Il clima di indifferenza e conformismo generale è alimentato dalle leggi dello stato: è ammessa la benedizione dei morti, ma solo durante la pulizia delle strade. La realtà dell’epoca sembra binaria quanto serializzata nel senso stabilito da Baudrillard: o sei contro il sistema o sei complice, non ci sono viene di mezzo, i corpi delle vittime devono rimanere per strada perchè servano da monito ai vivi, mediante un raffinato meccanismo di serializzazione (il simulacro del corpo di Polinice si trasforma in centinaia di corpi di contestatori sparsi). Il reale è riprodotto in serie e sono i morti, letteralmente, ad essere al centro della narrazione, probabilmente perchè risulterebbe destabilizzante per il sistema farli seppellire.

    Negare il diritto di sepoltura è un modo per mantenere l’ordine costituito, con una sorta di legge marziale in cui è concesso sparare a vista sui dissidenti senza processo. Di fatto, è ormai normale aggirarsi per la strada con decine di morti distribuiti ovunque, ridotti a elementi scenografici del numerosi non-luoghi meneghini.

    I cannibali rimane un film moderno, sostanziale ed imperdibile ancora oggi, impreziosito da una performance poco nota (e notevolissima nella sostanza) di Thomas Milian.

    Una versione restaurata del film è stata rilasciata su DVD e Blu-ray da Kino Lorber nel 2014.

  • L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov

    L’uomo con la macchina da presa (1929) di Dziga Vertov

    L’uomo con la macchina da presa” (film del 1929), diretto da Dziga Vertov, è un’opera fondamentale del cinema sperimentale sovietico e un esempio emblematico del movimento “cine-occhio” (kinoglaz). Il film è noto per l’uso innovativo di tecniche cinematografiche, tra cui: un montaggio rapido e dinamico, con circa 1.775 inquadrature diverse, un ritmo quattro volte più veloce rispetto ai film dell’epoca; effetti speciali come sovrimpressioni, stop-motion e angolazioni inedite fino ad allora; assenza di didascalie, andando contro le convenzioni implicite del cinema muto. Queste scelte stilistiche mirano a esplorare le potenzialità del mezzo cinematografico, liberandolo dalle influenze teatrali e letterarie.

    Il film rappresenta l’apice della carriera di Vertov, un’opera tecnicamente all’avanguardia che ancora oggi colpisce per originalità e vivacità. Il film è riconosciuto come un caposaldo della cinematografia mondiale, grazie alle capacità tecniche e artistiche di Vertov e di suo fratello, Mikhail Kaufman, operatore e protagonista del film.

    Vertov si opponeva al cinema che addormenta le coscienze, preferendo cogliere la vita “al volo”, nella sua quotidianità, senza messa in scena teatrale. Teorico convinto del “cine-occhio”, sosteneva la superiorità del documentario sul cinema di finzione, ritenendo quest’ultimo inadatto a formare una società comunista. Il film esprime la sua convinzione che la cinepresa possa rivelare verità nascoste, superando i limiti dell’occhio umano (Cinescuola).

    Il film segue una giornata tipo di un cineoperatore che riprende scene di vita quotidiana nelle città sovietiche, mostrando il lavoro nelle fabbriche, i trasporti pubblici, momenti di svago e attività sportive. La narrazione è priva di una trama tradizionale; invece, offre un mosaico visivo che celebra la modernità e il ritmo della vita urbana sovietica. Il cineoperatore stesso diventa oggetto dell’indagine dell’occhio scrutatore, in un gioco di meta-cinema che coinvolge lo spettatore.

    L’opera finisce per esaltare il progresso tecnologico e la modernità, riflettendo la visione futuribile di Vertov, che vedeva nel cinema uno strumento per mettere in contatto i proletari di tutto il mondo.

  • M. Il figlio del secolo di Joe Wright è la miniserie sulla nascita del fascismo

    M. Il figlio del secolo di Joe Wright è la miniserie sulla nascita del fascismo

    La visione del regista Joe Wright per la sua miniserie su Mussolini si colloca in uno spazio estetico e narrativo audace, quasi sperimentale, evocando suggestioni che si intrecciano tra il passato e la cultura contemporanea. Wright stesso descrive la sua miniserie M (ispirata al celebre romanzo di Scurati) come un singolare «incrocio tra L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, Scarface e la cultura rave degli anni ’90». Da un lato, in effetti, il richiamo al capolavoro avanguardista di Vertov (in cui si narrava una storia destrutturata, come un lungo documentario privo di didascalie) suggerisce un approccio alla macchina da presa vivido e frammentario, in grado di catturare l’energia di un’epoca in transizione.

    I toni evocano quelli di Terry Gilliam, per certi versi, con un insolito e marcato gusto per il grottesco e la rappresentazione parodistica. La macchina da presa è onnipresente, alternandosi tra monologhi di Benito Mussolini che guarda la macchina da presa e fascisti che progressivamente prendono il sopravvento in Italia, in un clima di crescente violenza e sopraffazione. L’influenza del capolavoro di De Palma conferisce un tono in qualche modo epico alla narrazione, in cui la figura del futuro dittatore italiano assume la parvenza di un anti-politico puro, pronto a rinnegare la democrazia e il potere stesso delle elezioni, calcolatore ed utilitarista nella politica, nonchè personaggio al limite del tragico.

    E se la narrazione racconta la fascinazione del potere, la conquista del governo sfruttando modalità quasi tribali, lo dobbiamo alla possente colonna sonora di Tom Rowlands, uno dei The Chemical Brothers assieme a Ed Simons.Una musica carica di suggestione, evocazione, brutalità, in grado di assumere un tono spiazzante per via della evidente ucronia, e che in molti frangenti ha fatto quasi più discutere di per sè rispetto ai contenuti della miniserie. Con questa miscela unica, Wright sembra intenzionato a smantellare le tradizionali narrazioni storiche, rivelando invece la complessità, l’ambiguità e, soprattutto, la pericolosa attrattiva di un’ideologia che ha sedotto le masse. Una scelta che promette di sorprendere, dividere e, soprattutto, far riflettere.

    Contenuti che dovrebbero essere noti ai più: M. Il figlio del secolo di Joe Wright – disponibile su Sky e Sky Go – narra la storia dell’ascesa al potere di Benito Mussolini, dalla fondazione dei Fasci italiani di combattimento nel 1919 fino al discorso in Parlamento del 3 gennaio 1925.

    L’idea dell’opera nasce nel 2021 dopo l’incontro tra Joe Wright e il produttore Lorenzo Mieli, il quale propone una serie su Mussolini che il regista classe 1972 (noto in passato per un’altra notevole rielaborazione storica, quella su Winston Churchill ne L’ora più buia).

    «Sono stato molto attento a raccontare la verità senza essere didattico, ho cercato di capire senza simpatizzare, mantenendo una distanza critica […] A livello più personale è una serie sulla mascolinità tossica, che non è qualcosa di diverso da noi, ce l’abbiamo dentro.» (Joe Wright, Elle)

    Il tono di Wright è quantomeno insolito, ed evoca analogie con L’ora più buia: non si conferisce spessore tanto alla vicenda storica in sè, quanto ai singoli protagonisti (D’Annunzio, ad esempio) e ai movimenti culturali e militari che si muovono più o meno dietro le quinte all’epoca (futuristi, arditi). E poi naturalmente c’è Benito Mussolini, interpretato da un Luca Marinelli perfetto, cristallizzato nell’immagine del Duce a cui conferisce uno strano e insolito spessore, al limite del grottesco, in cui non sembrano mancare riferimenti più o meno impliciti addirittura al mondo della cultura pop (Mussolini aviatore evoca, in qualche modo, il personaggio di Marco all’interno di Porco Rosso, per il quale è difficile non pensare ad un tributo).

    A livello più personale è una serie sulla mascolinità tossica, che non è qualcosa di diverso da noi – ce l’abbiamo dentro. È proprio così (fonte): anche Deleuze sottolinea in Millepiani che il fascismo non è solo un fenomeno storico o politico ma una tendenza, una attitudine interiorizzata che si insinua nel quotidiano – anche al di là della politica, un “fascista cristallizzato” dentro ognuno di noi, a cominciare da certi gesti e desideri più comuni. Il fascismo non si manifesta solo attraverso burocrazie e strutture oppressive di stato, ma anche nelle micro-dinamiche personali, nei desideri che si conformano e nei sistemi di potere che perpetuiamo inconsciamente e che favoriscono indirettamente la diffusione delle prime.

    Wright sembra consapevole di questa complessità, cercando nella sua serie non solo di ritrarre Mussolini come figura storica, ma anche di esplorare il terreno fertile che permette l’emergere di tali figure: quel fascista che, per Deleuze, «si nasconde nei nostri cuori». Per questo assistiamo alla violenza insostenibile dei fascisti contro i socialisti, all’assalto della sede dell’Avanti!, alla opportunistica alleanza con D’Annunzio a Fiume, intervallata dalla figura di Mussolini aviatore che si reca al primo congresso dei fascisti a Firenze, osannato fin da subito.

    Una serie da non perdere.

  • Terrifier è un vero incubo

    Terrifier è un vero incubo

    Terrifier di Damien Leone vorrebbe richiamarsi alla gloriosa tradizione horror slasher anni Ottanta e Novanta, la stessa che annovera Halloween, Venerdì 13 e via dicendo. Un genere che non da’ molto respiro narrativo e che difficilmente si discosta dal canone (amicizie, amori, sessualità, villain che irrompe a simboleggiare i sensi di colpa di chiunque); un genere che imporrebbe, quasi ontologicamente, una qualche variazione sul tema, perchè proporre le cose come al solito lo farebbe decadere nella stereotipìa. Del resto non sarebbe cinema di genere se non proponesse situazioni già viste e riviste, cosa che questo primo episodio del regista classe 1982 Damien Leone (il primo di una saga che conta tre episodi, l’ultimo dei quali – Terrifier 3 – è uscito nel 2024) fa in maniera a suo modo encomiabile, per quanto il lavoro soffra di un’approssimazione ineludibile sulla trama.

    Terrifier inizia su un canale sintonizzato che intervista una ragazza in un canonico salotto TV, in cui scopriremo che la stessa è stata orrendamente sfigurata ed è sopravvissuta ad un serial killer. Neanche il tempo di familiarizzare col mood che vediamo subito l’assassino in azione, che sembra avvenire in una città qualsiasi, forse nel giorno di Halloween, in un quartiere di cui non sappiamo nulla e per cui intuiamo essere negli Statu Uniti.

    Se è vero che la trama articolata di uno slasher è un qualcosa che per i fan conta poco o nulla, non può a una critica poco più che grossolana perchè, di fatto, è proprio la narrazione di Terrifier a non funzionare. Al netto delle efferatezze mostrare, della fantasia nel proporle e della mancanza di scrupoli nel far vedere tutto da vicino allo spettatore, le cose accadono perchè è necessario che avvenga. Detta diversamente manca il contesto, manca lo scenario, per quanto non si lesini sul senso di colpa e sul non detto (come già in altri epigoni slasher, il clown che uccide simboleggia il senso di colpa delle vittime, ma anche l’oscurità d’animo di chi cova odio e violenza per motivi che la società non conosce, non può o non riesce a vedere). Non si tratta del resto di un horror sociologico perchè manca totalmente l’aspetto dialogico e narrativo, e gran parte dei personaggi risultano più che altro irritanti nelle proprie certezze. Impossibile non notare, ovviamente, le assonanze tra questo Art The Clown e Pennywise di IT, che colpiva solo i bambini e che almeno era arricchito dalla prosa ineguagliabile di King, qui del tutto assente – al punto che viene il sospetto che i clown killer abbiano un po’ stancato.

    Art the Clown, l’assassino protagonista uccide senza ritualistica e senza suggestione, spesso sfigurando le vittime, e viene presentato come assodato, pronto all’uso, pre-marketizzato: è il killer nascosto che tutti abbiamo già visto, cugino dei reali serial killer della storia, nipote di Freddy Krueger (dato che predilige vittime giovani), discendente di qualsiasi assassino misogino sia stato inventato dal cinema.

    I dialoghi di questo primo Terrifier sono banalotti, poco incisivi, scarsamente coinvolgenti, al netto di ciò che viene mostrato a livello di gore: ci sono sangue, assassinii che evocano grotteschi rituali, amputazioni e decapitazioni come tradizione splatter impone, per il resto poco altro. La trama appare telefonata, piatta, prevedibile, del tutto priva di una qualche introspezione, al punto di rappresentare personaggi monocordi, ossessionati dall’aspetto sessuale e in cui i personaggi femminili sono quasi esclusivamente frivoli, impeccabili e per forza sensuali. Il sottotesto ipotizzato da Carol J. Clover a inizio anni Novanta non è cambiato: questi film mantengono, forse non sempre volontariamente, una potenzile chiave di lettura femminista, che si esplica nella vittimizzazione dogmatica della donna, nella rappresentazione del villain che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo, senza una ragione che non sia ricondubile ad un universo lovecraftiano, irrazionale, o – se vogliamo leggerla con le lenti critiche di oggi – intriso di cultura maschilista, profondo legame nei confronti dei ruoli e quant’altro. Art the Clown avrebbe potuto essere il patriarca grottesco che uccide senza motivo e senza dover rendere conto di ciò che fa, ma Terrifier resta un prodotto per niente politico e poco avvezzo a letture del genere.

    Comunque stiano le cose – e sarà la sensibilità del pubblico a deciderlo – Terrifier è un onesto tentativo di rendere la realtà che viviamo più splatter e orribile di quanto non sia, e rimane lontano dallo status di cult e memorabilità che ha reso celebri i film di cui sopra. Al punto che si guarda a fatica, ci si distrae facilmente – al netto delle espressioni grottesche di Art the Clown, il cui interprete (David Howard Thornton) ha studiato mimo e da’ quasi la sensazione di potersi materializzare alle spalle dello spettatore, e rimane l’unico vero motivo per guardare il film almeno una volta nella vita.

    Cosa per cui l’horrorofilo navigato riporrà ogni speranza di vedere una svolta, un qualcosa che non si limiti a brutalizzare corpi, a mostrare sangue, a inventarsi l’ennesimo sadismo ostentato che, di suo, lascia poco o nulla. Paradossalmente i tre cortometraggi a cui si ispira il film – contenuti in All Hallows Eyes – riuscivano a rendere meglio l’idea, soprattutto per il taglio da mockumentary che li rendeva accattivanti, senza contare per quel tocco autoironico che caratterizzava il clown, in misura leggermente superiore a quanto avvenga in Terrifier.

    Un film che strizza l’occhio ai blockbuster dell’orrore, riuscendo solo in parte nell’impresa, a nostro avviso, e limitandosi a costruire una valanga di riferimenti al mondo dell’Altro che, alla lunga, rendono il film vuotamente enciclopedico, al netto del buon Art the Clown: un villain come se ne sono visti tanti, che probabilmente occuperà il proprio posto infernale nella storia del genere, che magari tra qualche anno sarà riesumato e riscoperto, ma che appare qui troppo ovattato e prevedibile per potersi ricordare.