Ospite Inatteso

  • The Watcher è su Netflix: e si basa su una storia autentica

    The Watcher è su Netflix: e si basa su una storia autentica

    The Watcher (L’osservatore) è una serie Netflix tra le più popolari del 2022, incentrata su una inquietante casa, ambitissima da vari compratori quanto in grado di diventare l’ambientazione di surreali incubi ad occhi aperti al loro interno. Gli episodi raccontano le vicissitudini dei vari coinquilini e, in particolare, quelle di una coppia (Naomi Watts e Bobby Cannavale) con due figli adolescenti, innamorati dell’abitazione a prima vista, nonchè futuri entusiasti acquirenti. La storia è in bilico su varie tonalità narrative e si ispira, nello specifico, ad un autentico fatto di cronaca del 2014: la storia della famiglia Broaddus, minacciata da lettere anonime dopo aver cambiato casa.

    Detta in maniera sintetica, The Watcher (scritto da Ian Brennan, in collaborazione con l’ideatore Ryan Murphy, che si occupa specificatamente del primo episodio) è una serie con più registi che vorrebbe forse riprendere la gloriosa tradizione dei mediometraggi horror di 20 o 30 anni fa. Cosa che avrebbe avuto più senso per le serie antologiche, forse, non certo per quelle che raccontano una storia di cinque ore e mezza che appare interminabile, poco stimolante e cosparsa di dettagli poco funzionali.

    Del resto si insiste su un’idea già vista, leggermente stantìa, di horror, basata sui topici dialoghi un po’ faciloni (che negli horror non sono tutto, e lo sappiamo, ma sono pur sempre qualcosa). Esemplificativo a riguardo un momento di intimità tra i coniugi, interrotto da uno dei figli per via di una musica che crede di aver sentito dalla casa, il tutto giusto durante il climax orgasmico. A quel punto ci pensa l’uomo, il padre (e chi sennò?), perfetto emblema del padre-protettore: ci pensa lui a rispondere al figlio, dalla camera da letto, “tua madre sta venendo“, una allusione talmente grossolana da far precipitare le braccia dello spettatore nelle profondità degli abissi. Anche lo stesso tormentone sul guardare o essere guardati (mentre si fa sesso?), sull’occhio dell’Osservatore da cui il titolo, passa relativamente indifferente, nonostante venga ribadito con cadenza sistematica.

    Le varie situazioni spaventose sembrano poi troppo rare rispetto alla tensione in ballo, tensione che per la verità funzionerebbe pure: i coniugi Brannock si legano visceralmente alla nuova casa, ne sono rapiti irrazionalmente, fronteggiando così alcune lettere anonime di minaccia che li vorrebbero fuori da lì. I sospetti ricadono su una coppia di vicini, fin da subito scontrosi e derisori nei loro confronti, e su alcuni altri grotteschi soggetti che sembrano riuscire a penetrare in casa anche senza averne le chiavi. La casa, ovviamente, si presta a interpretazioni psicologiche e sottotesti assortiti: il suo aspetto lussuoso è parte dello scenario in cui i protagonisti specchiano le proprie vanità, il desiderio di ritrovare la dimensione perduta, un Eden (probabilmente inesistente o idealizzato) a cui anelano da sempre. È il posto che dovrebbe metterti a tuo agio e puntualmente non lo fa, diventando un luogo seminale in cui coltivare e far degenerare terrori ancestrali, irrosolti esistenziali, frustrazioni e problemi economici. A vantaggio della narrazione si potrebbe, per onor di cronaca, raccontare della forte componente paranoica della trama (in una sequenza è presente un riferimento alla teoria del complotto sull’adrenocromo, ad esempio); non è male, peraltro, il clima paranoico (sempre accennato e vagamente hitchcockiano, per alcuni aspetti) in cui i protagonisti si muovono, senza capire come faccia l’Osservatore a vederli.

    Andrebbe bene, o sarebbe nella media dignitosa del genere, se non fosse che sono situazioni già viste e, già dalle prime puntate. The Watcher si svela come un thriller sostanzialmente ripetititivo, senza troppa anima, in cui le cose avvengono in modo lento quanto inesorabile, mentre i climax appaiono diluiti da vaghi jumpscare sempre poco efficaci e funzionali. Ne basti uno su tutti, per comprendere i limiti di The Watcher: il figlioletto che si sveglia nella casa vuota, per capire cosa stia succedendo, e poi scoprire che il suo animaletto (un furetto) è morto senza motivo. Inquadratura sui piedi, animaletto ucciso, urlo del ragazzino, sirene della polizia, poliziotto tutto d’un pezzo che accorre sotto casa. Per un furetto?

    Non gioca a favore della seie, di fatto riuscito per meno di metà, il formato scelto (ed il fatto di essere diretto da più registi alimenta più che altro il senso di opera abbastanza disorganica): prefigurandosi come mini-serie di 7 puntate, diluisce la trama più del dovuto – o almeno, questa è la sensazione crescente che si prova mentre lo si guarda. I personaggi dell’ennesimo The Watcher (da non confondersi con l’analogo The Watcher, nè con Watcher), per inciso tra le serie più viste su Netflix degli ultimi tempi, sono l’aspetto più accettabile: diretti, caratterizzati e privi di fronzoli – l’investigatrice privata tormentata, ad esempio, sembra uscita fuori dalla filmografia blaxpoitation. Sono i personaggi secondari a funzionare meglio di tutti, paradossalmente, essendo sempre caratterizzati da teatralità, suggestioni e retrogusto lynchiano. Sembrano a più riprese burattini delle loro stesse storie, incapaci di agire se non nel modo in cui lo fanno, vittime della necessità di agire passivamente per conto di un Grande Altro indecifrabile (una setta? Un demone? La casa stessa?), preda di automatismi inconsci a cui obbediscono, persi nei loro rispettivi ricordi dolorosi. L’inconscio affiora anche dalla storia di una famiglia cittadina, irreprensibile quanto involontariamente irritante, vittima probabilmente del proprio perfezionismo e che decide di trasferirsi in provincia, rifuggendo dal caos cittadino (e dov’è la novità, del resto). Una famiglia troppo stereotipata e banalizzata, se vogliamo, per essere vera.

    È la ricerca metaforica del paradiso perduto, mentre il resto della vicenda si segue con difficoltà e non cattura, purtroppo, come dovrebbe. Storie già viste, già sentite, già sviscerate in lungo e in largo – per cui viene da pensare a Jack Nicholson e Shelley Duvall, per certi versi, ma solo per brutale assonanza con la casa spettrale e minacciosa, con la “luccicanza” del caso, le famiglie che forse non sono ciò che appaiono (e ti pareva) e i vari scheletri nell’armadio che sbucheranno, prima o poi, fuori. Sarà anche così, ma non sembra molto interessante capire a fondo di cosa si tratti.

  • Moebius: un film quasi insostenibile, che ha lasciato il segno

    Moebius: un film quasi insostenibile, che ha lasciato il segno

    Un figlio scopre il padre con l’amante; la moglie decide di evirare il marito. Non riuscendoci, evira il figlio.

    In breve. Per un film del genere qualsiasi spiegazione sintetica rischia di apparire riduttiva: lo sguardo di Kim Ki-duk è impietoso e non risparmia dettagli sulle sofferenze, senza dare spiegazioni e senza un esplicito intento catartico. Uno dei film più nichilisti mai girati dal regista, probabilmente, che non rientrebbe neanche nei film prettamente consigliati per il grande pubblico. Eppure, nulla è gratuito e tutto rientra in una metafora considerevole sui tempi moderni.

    Da non confondersi con l’omonimo argentino del 1996, Moebius (trasmesso anche su RaiTre il 6 aprile del 2019) è l’ultimo film del prolifico regista coreano Kim Ki-duk, purtroppo recentemente scomparso per Covid-19 e che certamente, all’epoca, non le mandava a dire a livello contenutistico. Lo scandalo che suscitò il film per via della sua estrema crudezza di fondo è tutt’altro che ingiustificato, il tutto per quanto, in questa circostanza, la forma sembri decisamente più corposa della sostanza.

    Tanto per cominciare, perché Moebius? L’accostamento con il celebre nastro scoperto dal matematico Mobius (una struttura che si avvolge su se stessa, ottenibile congiungendo le due estremità di un nastro dopo averne girata una di 180°), si lega alla struttura narrativa avvolgente e dai tratti non lineari del film, un po’ come avviene in Strade perdute di Davide Lynch. Pensare ad esso comporta svariate suggestioni, che scateneranno particolarmente le menti degli spettatori, ovviamente quelli disposti a farsi travolgere da suggestioni molto forti.

    Moebius è la visione allucinata della vita di persone comuni, che trasformano una “ordinaria” tresca padre-figlio-amante-madre in un vortice di violenze, sopraffazione e crudeltà. Al centro della narrazione l’idea di evirazione, di privazione forzosa della parte sessuale maschile per espiare le colpe regresse, e naturalmente dei suoi risvolti tragici. In fondo, i guai peggiori del film vengono fuori dal trapianto di pene che il padre concede al figlio, diventa simbolo di una potenza virile del tutto smarrita, ed il fatto che giusto un pene assuma questo genere di valenza è tanto grottesco quanto considerevole.

    Non ci viene detto nemmeno il nome dei personaggi, e questo è quanto. Dettaglio ancora più interessante, il film è del tutto privo di dialoghi: ma questo non dovrebbe far temere velleità arthouse o da cinema d’essai, per quanto – forse solo per via dell’argomento trattato – il messaggio passi lo stesso grazie alla fisicità possente ed espressiva degli interpreti. E questo avviene in modo diretto, puri, comprensibile quasi certamente da solo quegli spettatori provvisti degli attributi (é proprio il caso di dire) per vedere il film senza distogliere lo sguardo neanche per un attimo. Dato il cinismo di Ki-duk (la sua violenza visiva, del resto, è tutt’altro che compiaciuta), ed il suo stile diretto e fin troppo privo di fronzoli (che fa sorridere, in un certo senso, a confronto con quello diluito di Hard Candy, ad esempio, film in parte analogo per contenuti e contesto), rendono la visione un “lavoro” tutt’altro che agevole.

    Il figlio, in particolare, esempio archetipico di bravo ragazzo tormentato dai bulli, diventa anche chi che paga colpe non sue e capricci dei propri genitori: il suo arresto, del resto, coincide con la sua mutazione completata, sia dal lato fisico che comportamentale, un po’ come sarebbe avvenuto nel miglior Cronenberg. Non passa istante in cui qualcuno non voglia sbirciare nei pantaloni del ragazzo, diventato quasi una sorta di fenomeno da baraccone per via del delicato intervento subito. Al tempo stesso il padre, figura in parte debole e del tutto vittima degli eventi, scopre un modo “alternativo” per procurarsi piacere, ovvero sublimando il dolore fisico, e ritenendo che ciò possa condurlo ad un orgasmo che, in effetti, non saprebbe in quale altro modo raggiungere. Una teoria disperata e crudele, non troppo dissimile da quella dei “supplizianti” di Hellraiser, a ben vedere, per quanto ovviamente non ci sia traccia dell’impianto scenico immaginifico del film di Barker. Qui il realismo è quanto di più vivido si possa immaginare, e probabilmente è questo l’aspetto realmente spaventoso e “scandaloso” in ballo.

    Il padre che viene scoperto con l’amante, la madre che vorrebbe vendicarsi sul marito per poi ripiegare sul figlio, i teppisti che aiutano apparentemente il ragazzo salvo poi coinvolgerlo in uno stupro, parlando di un’umanità persa nei palazzi anonimizzanti delle metropoli, oltre che nei suoi vicoli asfissianti. Viene in mente lo stesso regista quando affermò che “l’odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno; è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile“, il che sembra chiarire parte del senso del suo film. Moebius diventa quindi un trattato dell’assurdo su un mondo incomprensibile, prepotente e spaventoso, nel quale è difficile chiarire appieno le motivazioni dei personaggi, per quanto il sesso (e non poteva essere diversamente, in questo contesto) assuma una valenza tanto preponderante da sembrare logorroica.

    C’è da aggiungere, in conclusione – perché non è certo cosa di poco conto – come questo film sia profondamente scabroso, e vada a combinare in un vortice di pulsioni erotiche una storia tanto semplice quanto terrificante per le sue conseguenze (e che a volte, vista in modo un po’ superficiale, sembra addirittura illogica o buttata lì). Il mondo di Moebius è fatto di città semidesertiche, in cui i protagonisti si sbirciano con aria smarrita, consumano sesso proibito, fugate e a volte incestuoso, e con uno sguardo impietoso su baby-gang una più tremenda dell’altra.

    Con un perenne rivoltarsi dei giovani contro le generazioni precedenti, si crea un turbine che sembra non conoscere speranza nè possibilità di reale redenzione.

  • Il moralista: Alberto Sordi è l’irreprensibile Agostino

    Il moralista: Alberto Sordi è l’irreprensibile Agostino

    Alberto Sordi interpreta un irreprensibile (solo in apparenza) segretario dell’Ufficio Internazionale della Moralità, un puritano ed intransigente personaggio che fa chiudere locali, censura pubblicità e non transige sul proprio dovere di censore.

    Affidato all’intepretazione del colossale trio Vittorio De Sica, Franca Valeri e Alberto Sordi nei panni dell’apparentemente irreprensibile moralista, si tratta di una commedia sostanzialmente gradevole, giocata sui toni di attrazione-repulsione dal variegato ed estensivo – per così dire – mondo del vizio. Chiunque provi a convincere o corrompere il protagonista, di fatto, finisce per prendere simboliche sportellate in faccia, finchè la figlia del presidente a cui Agostino è sottoposto, con il suo comportamento più disinvolto, finirà per far svelare vari, imprevedibili altarini.

    Giorgio Bianchi dirige un film molto semplice e diretto nel suo concepimento, ma che non risulta neanche troppo datato – nonostante sia del 1959. Scomoda peraltro un tema molto attuale e controverso fino ai giorni nostri, che è relativo ai paradossi della censura di ogni ordine e grado, in cui un’autorità finisce per applicare un criterio arbitrario (quelle censure, viste oggi, fanno ancora più sorridere) per decidere chi debba vedere cosa. Ogni epoca ha avuto i suoi, senza dubbio, ed è magistrale in tale senso – ad esempio – la parodizzazione dello strip tease, formalmente combattuto da Agostino, il quale poi prova ad esibirsi in una sua (improbabile) riproduzione dal vivo. Per poi, naturalmente, andare a vedersene uno, alternando espressioni di biasimo e di godimento semplicemente da manuale.

    Se svetta per eccellenza l’interpretazione di Sordi, irresistibile nei suoi sguardi giudicanti, il resto della commedia si caratterizza con siparietti consecutivi di ogni genere, che sono commedia pura e cristallina, quasi tutti di natura elegante quanto allusiva – oltre che giocati sul tema evergreen contrasto tra le vecchie e le nuove generazioni. Alla base dell’avversione di Agostino, peraltro, vi è uno specifico trauma che non è mai stato superato, e che rende la trama ancora più divertente quanto, per certi versi, prevedibile. L’unico problema del film è che, di fatto, sembra tirato un po’ troppo per le lunghe: non sarà un capolavoro ma, visto oggi, è sicuramente da riscoprire.

    Che faccio, chiamo ‘e guardie?

  • Il lato oscuro dello sport (Netflix): recensione completa

    Il lato oscuro dello sport (Netflix): recensione completa

    Il lato oscuro dello sport: la serie tv Netflix che parla di Calciopoli

    Quando lo sport incontra cronaca nera: ecco di cosa parla Il lato oscuro dello sport, serie in 6 episodi che è possibile guardare sulla piattaforma Netflix.

    Molto intrigante questo nuovo prodotto targato Netflix che racconta sei episodi molto famosi, di altrettanti sport, in cui la cronaca più efferata è entrata a gamba tesa nelle vicende raccontate e nelle vite dei suoi protagonisti.

    Si parla dello scandalo del pattinaggio artistico di figura a Salt Lake City nel 2002, delle partite di basket universitario truccate da Arizona State, della superstar dell’Indycar Randy Lanier e il contrabbando di marjuana, delle frodi assicurative e un sicario a cavallo e della caduta in disgrazia del capitano di cricket Hansie Cronje in Sudafrica. Tra i sei racconti di sport spicca l’Italia con Calciopoli e Luciano Moggi.

    Nuovi siti scommesse e vecchi scandali italiani

    Quando parliamo di sport in Italia parliamo, anche, di bookmakers nuovi (e ne nascono sempre di nuovi ogni anno) soprattutto in tempo di pandemia. Sono, infatti, due anni che il mercato online ha spiccato il volo regalando, ad appassionati e non, nuove piattaforme su cui dilettarsi e scommettere.

    Ovviamente, visto che stiamo recensendo un prodotto televisivo che parla di scandali sportivi, non possiamo non pensare a quanti di noi siano rimasti scottati dalla vicenda Calciopoli nei primi anni 2000.

    Sono anni bellissimi per il calcio, anni in cui le squadre italiane dominano in Europa. La Juventus, poi, sembra una corazzata da guerra. Il suo direttore Luciano Moggi ha costruito una squadra fortissima che non ha rivali. Il punto di rottura avviene grazie a un’inchiesta del PM Raffaele Guariniello in cui si scopre che c’è una grossa rete di protezione verso il team e la dirigenza. Vengono coinvolti altri dirigenti, arbitri, alcune partite truccate e il calcioscommesse.

    Ecco, appunto, le scommesse. E sfido davvero chiunque a non credere, per un po’ di tempo, che fosse tutto un po’ truccato in favore dell’incolumità sportiva delle big del nostro campionato. C’è voluto un processo (sportivo e penale) che ha messo alla gogna i protagonisti per recuperare fiducia nei confronti dell’intero sistema.

    La Juventus, condannata in Serie B, ha vissuto il suo momento nero. Ma i campioni (almeno in parte) non abbandoneranno la nave che affonda. La squadra bianconera, infatti, si affiderà a Buffon, Del Piero e Trezeguet anche in B. Moggi, invece, scomparirà totalmente dal mondo del calcio di cui è stato “padre padrone” per più di 20 anni.

    Lo scandalo di Arizona State e gli altri episodi

    Mentre uno dei film più visti in questo periodo è Don’t look up non possiamo non aprire una parentesi sugli altri episodi presenti nella serie. Il primo racconta dello scandalo delle partite truccate nel campionato universitario di basket da Arizona State e il suo protagonista Hedake Smith (talentuosissimo point guard). Il miglior scorer di sempre scambiò il suo futuro nell’NBA per 20mila dollari e resta uno degli episodi più famosi e più controversi tra tutti.

    Il secondo episodio racconta del piccolo spacciatore Randy Lanier che, con gli introiti dello spaccio di marjuana, sponsorizza le sue gare in Indycar e nel frattempo porta il suo business in ambienti e situazioni insperate (rivelatesi poi completamente sbagliate).

    Il terzo è quello di cui abbiamo parlato (Calciopoli). Il quarto episodio racconta delle pressioni verso un giudice di pattinaggio che favorisce la Russia davanti al Canada alle Olimpiadi invernali del 2002.

    Il quinto episodio tocca il mondo dell’ippica con Tommy Burns che racconta con grande rimpianto dei giorni in cui era costretto ad ammazzare cavalli da competizione come parte di una truffa assicurativa che veniva elaborata dai ricchi proprietari.

    L’ultimo episodio è quello che getta ombre sull’idolo sudafricano di cricket Cronje che, attraverso alcune intercettazioni della polizia indiana, viene scoperto truccare incontri per migliaia di dollari. Nonostante sia stato bandito dallo sport a vita è ancora considerato uno dei migliori giocatori africani. La sua morte, avvenuta in un incidente aereo nel 2002, ha causato non poche polemiche in patria. Alcuni giornali hanno sostenuto, infatti, che il giocatore sia stato vittima di un’azione criminale da parte di alcuni sindacati di scommesse sul cricket sudafricano. Ovviamente queste accuse non sono mai state considerate reali, ma solo delle teorie complottistiche.

  • L’horror girato come uno snuff: August Underground’s Mordum

    L’horror girato come uno snuff: August Underground’s Mordum

    August underground’s Mordum è il secondo capitolo della serie di August underground e secondo alcuni è considerato il più inquietante della saga. Sì, perchè esiste una saga horror USA (distribuita dalla Toetag Pictures) di nome August underground che magnifica le gesta di un killer (interpretato dal regista Fred Vogel) di nome Peter, ponendo le basi ideali dal punto di vista narrativo per film successivi (altrettanto controversi) come The last horror movie, S&Man e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.

    Si presenta come un filmato amatoriale a tutti gli effetti, girato dai (finti) serial killer Peter Mountain, la fidanzata Crusty e il fratello Maggot. Sono i presupposti della famiglia perversa su cui si basa anche Non aprite quella porta, in effetti, e parte di quel mood sporco quanto amatoriale viene a ritrovarsi in questa sede. La prima sequenza è già emblematica: Peter si imbatte in Crusty che lo tradisce con Maggot, e scoppia una lite feroce. In seguito inizierà un delirio di omicidi e sadiche torture che non potrà che concludersi con una nichilistica conclusione.

    La visione composta è volutamente compromessa da una telecamera traballante (si tratta di un finto snuff a tutti gli effetti, e anche uno dei più famosi e citati), dal fatto che il protagonista urla ossessivamente la parola fuck, ma è ancora più interessante notare come, visto oggi, un film del genere possa evocare un reality show di oggi particolarmente infimo e pieno di protagonisti isterici e/o urlanti, tanto da conferire al film (mai considerato esattamente nell’olimpo dei capolavori del genere, ovviamente) quantomeno dei tratti sociologicamente coerenti o più grotteschi di quando il film uscì.

    Contestualizzando, era uno di quei film rivolti ad un certo pubblico “adulto e vaccinato”, che aveva visto almeno Cannibal Holocaust, e che cercava singolari strane emozioni da un horror, con lo spirito con cui (mi viene da scrivere) si fanno le ricerche più strane ogni notte su Pornhub. Un horror che si sforzava ad essere massimamente realistico, mostrando, senza filtro e senza evitare alcun dettaglio, protagonisti fuori di testa. Di più: August Underground Modrum era uno di quei film a cui devi credere per forza, nonostante sapessi del finto snuff, questo per dare un senso alla visione, e che rappresenta forse una delle esperienze più spaventose mai ingenerate da un film (almeno per l’epoca, siamo nel 2003).

    Tra killer omofobi, atti autolesionisti e feticistiche perversioni sessuali di ogni genere, August Underground Modrum è un unicum che forse, oggi, non dovrebbe più vedere nessuno (non si avverte realmente la necessità di farlo, a ben vedere), e che dovrebbe rimanere lì, nascosto, nella collezione segreta dei filmati non raccontabili che in molti custodiscono su dischi rigidi criptati con su scritto (magari) “Backup vari”.

    Ecco alcuni video correlati al film.