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Cinema, arte, spettacolo e filosofia spicciola.

  • La questione di genere dentro Nosferatu di Robert Eggers

    La questione di genere dentro Nosferatu di Robert Eggers

    Per l’osservatorio EIGE qualsiasi questione di genere può essere definita come qualsiasi questione o tematica determinata da differenze basate sul genere e/o sul sesso tra donne e uomini. Non è atipico che questa tematica venga riprodotta all’interno del recente horror di Eggers, diventando oggetto di una vera e propria sottonarrazione rispetto alla trama principale. Da sempre – e un po’ meccanicamente – si considera Thomas Hutter, agente immobiliare inviato nel castello del conte Orlok per fargli firmare un contratto, il vero protagonista della storia in sè. In realtà nella versione di Eggers è anche Ellen a relegarsi un ruolo di protagonista duale, rispetto alle vicende sanguinose che vengono richiamate nella trama e per l’aspetto legato proprio al sangue: del resto il sangue è vita, e sarà mia, viene ripetuto da McBurney (il capo di Thomas) più volte. (attenzione: il saggio contiene spoiler della trama)

    Inizialmente vediamo la città di Wisborg, in Germania, con Ellen che sembrerebbe vivere felicemente assieme al marito Thomas Hutter. La relazione tra i due viene delineata come profonda, toccante e romantica, ma suggerisce anche implicitamente che non sia una relazione fisica: i due coniugi sembrano non avere tempo e/o modo di avvicinare troppo i loro corpi, vuoi per il lavoro frenetico di Thomas (che arriverà in ritardo dopo essersi trattenuto in effusioni con la moglie), vuoi per una relazione di stampo tradizionalista improntata sull’inibizione reciproca, vuoi perchè (dice apertamente Thomas, ad un certo punto) non potrebbero mantenere un eventuale figlio, cosa che invece possono tranquillamente la coppia benestante di amici (che ne hanno anche un terzo in arrivo). Ellen appare intrappolata in questa visione angusta della relazione e della sessualità, e infatti la vive in maniera controversa: la prospettiva che Thomas vada via per un lungo viaggio la turba, riferisce terribili incubi (uno davvero spaventoso: sogna di sposare la Morte in persona, di voltare le spalle all’altare e constatare che tutti gli invitati sono deceduti all’improvviso), ma viene costantemente minimizzata e quasi ostracizzata nel manifestare il malessere interiore. È il tema legato ad ogni questione di genere: la donna come eterna Cassandra, condannata a non essere creduta nelle proprie affermazioni, che il pubblico sa avere un fondamento. In un momento storico in cui la psicologia e la psichiatria erano ancora ai primi passi, di fatto, non meraviglia che Ellen dopo alcune crisi di sonnambulismo venga semplicemente legata al letto, e solo l’atteggiamento progressista di Von Franz (che evoca grottescamente conoscenze occultistiche nel farlo) la libera da questo gioco.

    Vale la pena di osservare che Ellen ad un certo punto avrà una discussione con il ricco amico del marito, accusando l’uomo di essere responsabile del contagio della peste nei confronti della moglie di lui: l’uomo si limita a richiamare la donna all’ordine, e a restare al suo posto. Ellen non sembra disposta a farlo e, a quel punto, finirà per inseguire il proprio destino che è quello di redimere l’umanità con il suo sacrificio. Nel frattempo Thomas proverà gelosia per le intenzioni del Conte Orlok e si precipiterà a casa, una volta evaso disperatamente dal castello, per evitare di farli incontrare. Tuttavia la connessione tra Ellen e il villain della storia è soprattutto mentale, prima ancora che fisica, al punto che Ellen anela inconsciamente ricongiungersi al conte – con cui, si scoprirà in seguito, ha avuto una storia da giovane. Questa rivelazione cambia radicalmente il rapporto tra i due, facendolo diventare apertamente conflittuale ed instillando il sesso nella relazione nel modo più diretto: in una sequenza che non sappiamo essere o meno condizionata dall’influsso a distanza del conte, Ellen viene posseduta con brutalità dal marito (in modo traumatico per lo spettatore, che non si aspetta un’evoluzione del genere), in funzione della gelosia che prova e della “minaccia” che possa avere un rapporto con il conte. Il vampiro portatore di peste arriva, finalmente, a casa di Ellen, assicurandosi che il patto firmato subdolamente dal marito di lei venga rispettato: la terza notte la donna accetta, ma ha già concordato il proprio sacrificio con Von Franz, l’unico a conoscere le sue intenzioni. Così mentre Von Franz, Sievers e Thomas trovano Knock nella bara del conte e danno fuoco al rifugio del conte per garantire che possa scomparire con la luce del sole, non avendo più dove nascondersi, Ellen si concede al conte più volte, per tutta la notte. Continuerà a ripetere “ancora” e a farsi mordere alle prime luci dell’alba, stremata e morente, consapevole di aver salvato il mondo con la sua prima (e autentica) libera scelta.

  • Che cos’è il meme hurr-durr

    Che cos’è il meme hurr-durr

    Il meme hurr durr è un suono onomatopeico che viene usato, sui social e su 4chat, per criticare un post o un parere che viene giudicato scadente o poco divertente. In altri contesti, hurr durr può essere una semplice espressione di sarcasmo. questa espressione è spesso abbinata a immagini in cui i soggetti restano a bocca aperta goffamente o hanno un aspetto poco lusinghiero.

    “Hurr durr” viene definita dall’Urban Dictionary in questi termini:

    “Hurr durr” è il suono della risata proveniente da qualcuno con mezzo cervello. Viene utilizzato principalmente per sottolineare quando qualcuno ha fatto un’affermazione idiota, anche se, sorprendentemente, i maschi idioti cercheranno di farli ridere il più profondamente possibile per farli sembrare più virili, quando in realtà tutto ciò che fa è farli sembrare degli idioti.

    La parola “hurr” appare periodicamente nei trend di ricerca mondiali su Google almeno dal 2010; in alcuni contesti, hurr è uno slang per definire i capelli (storpiatura di hair, almeno in apparenza).

    Come è nato il meme Hurr Durr

    Prima ancora di essere abbinata a “durr”, la parola “hurr” appariva da sola su siti come il forum Something Awful in cui veniva usata in modo simile alla risata sarcastica “har har” in risposta a una battuta visibilmente banale o sciocca, o in relazione a film per adulti.

    Nel 2006, hurr era stato anche rappresentato come emoji.

  • La vera storia del meme «Chill guy»

    La vera storia del meme «Chill guy»

    Phillip Banks è il nome dell’artista autore del meme distribuito con nomi differenti, in genere “chill meme” o “chill guy“, letteralmente un “tizio rilassato”, dove la parola chill, “freddo”, “rigidezza”, “rigore”, va qui inteso come espressione gergale per indicare qualcuno che viva il proprio tempo in modo piacevole e senza eccessivi pensieri. Il suo account X / Twitter è ad oggi molto attivo, da quello che vediamo, e pubblica per lo più contenuti ironici o auto-ironici.

    Non si sa molto altro di Phillip Banks, se non che si tratta dell’omonimo del personaggio reso celebre dalla serie TV anni 90 Willy il principe di Bel Air. Sappiamo pure che Banks si oppone fermamente a qualsiasi utilizzo commerciale della sua opera senza consenso, in considerazione della grande adozione del suo disegno da parte di molte criptovalute uscite fuori sul web negli ultimi anni.

    Copyright: Philips Banks – https://x.com/phillipbankss

    Sebbene l’opera abbia avuto un notevole successo dopo la pubblicazione online, è diventata virale ad agosto 2024, quando un utente di TikTok ha creato una presentazione che la includeva tra i meme più interessanti visti online. Da lì in poi è stato un dilagare di nuove citazioni, che hanno ottenuto numerose visualizzazioni sui social, al punto di suscitare l’attenzione delle multinazionali Halo e Sprite.

    Cosa significa il chill meme

    Quello del chill meme è un cane dall’aria serena e composta, che sorride vagamente e che indossa un maglione grigio. Le mani sono in tasca, in un mood di silenziosa sicurezza di sè. Ogni dettaglio del suo essere, dal posato sguardo alle calzature ordinate, trasmette un messaggio che non è soltanto visivo, ma esistenziale: l’ideale del “chill”, quello stato d’animo in cui la vita si svincola dall’ansia per abbracciare un’armonia semplice e leggera.

    Secondo l’interpretazione più diffusa l’opera ha avuto successo come meme in quanto è stato considerato un invito riconoscibile, divertente e diretto a ricorrere all’autocontrollo nella vita di ogni giorno, sia utilizzando magari la psicoterapia o la psicologia oppure, ancora, i classici manuali di auto-aiuto (il mai abbastanza citato Fattore fortuna di Richard Wiseman, ad esempio). Il messaggio è quello di cercare di rimanere senza stress e affrontare la vita con un atteggiamento più rilassato di quanto la sregolazione emotiva media possa suggerire.

    Questo cane, che è ormai noto come the chill guy o chill meme, si erge a simbolo di una filosofia di vita: vivere serenamente senza il peso della frenesia, trovando il proprio equilibrio in un modo o nell’altro.

    Sarebbe un meme come tanti altri, ma qualcosa è profondamente diversa dalla media: il creatore dell’opera, Philip Banks, ha iniziato una battaglia per preservare l’aspetto artistico della sua creazione, opponendosi al suo uso commerciale, nello specifico in contesti legati alle criptovalute.

    Per rispettare la sua scelta, per inciso, su questa pagina abbiamo scelto di non inserire inserzioni pubblicitarie di alcun genere.

  • Perchè la coerenza è sopravvalutata (una provocazione)

    Perchè la coerenza è sopravvalutata (una provocazione)

    La parola coerenza deriva dal latino cohaerentia (l’essere unito) e tende generalmente ad assumere una valenza mentale, oltre che di presunta “solidità” psicologica. Se sei coerente voilà, sei a posto (in apparenza): è come essere credente in chiesa, metallaro a un concerto, con mille pagine già battute di fronte al tuo editore. È nell’ordine delle cose, essere coerenti, e soprattutto ordina le tue cose: sei coerente, per cui agisci secondo i tuoi principi e tanto basta. Del resto coerenza è il contrario di disomogeneità, disorganicità, frammentarietà, rappresenta lo stare uniti, stare assieme, usando un termine desueto potremmo anche dire sentirsi agglutinato, che fa presa con gli altri e dentro di te. Agglutination era (è stato) un celebre festival metal nonchè una delle rare occasioni di aggregazione metallara nel sud Italia. Nulla di male nella coerenza, insomma, e non sarà certo un articolo a far cambiare le cose. Coerenza intesa come generica costanza logica o affettiva nel pensiero e nelle azioni, come da manuale, non farebbe mai di per sè urlare allo scandalo in alcun modo, anzi. Il problema sta altrove (come sempre, direbbero i benaltristi).

    Esiste una forma di coerenza che non ci piace, e non riusciamo ad ammetterlo. Non la troviamo un valore desiderabile o, quantomeno, offre meno vantaggi e cose di cui andare orgogliosi di quanto potrebbe sembrare. La coerenza va sempre contestualizzata e compresa a fondo, prima di considerarla un valore positivo. Del resto già Sigmund Freud aveva notato, nella sua Psicologia delle masse, che un manipolatore che volesse condizionare un gruppo di persone

    non ha bisogno di coerenza logica fra i propri argomenti; deve dipingere nei colori più violenti, esagerare e ripetere sempre la stessa cosa.

    Gli strumenti di comunicazione ambigui, pericolosi e potenzialmente minacciosa della democrazia – intesa nel senso più ampio del termine, non solo politico ma anche sociale, emotivo ed economico – sono quelli della manipolazione, dello sfruttamento di bias cognitivi radicati nell’uomo fin dalle sue origini. Non fanno leva, questi strumenti, sul semplice fatto di sentirsi tranquilli perchè (mantra rassicurante) “ci siamo comportati come sempre abbiamo fatto“, “siamo stati coerenti e va bene così“. La coerenza di base permette di costruire senso e personalità alla vita, ovviamente, ma può diventare un’arma infida che potrebbe rivoltarsi contro. La coerenza ostentata aiuta a renderci unici o inimitabili (e neanche sempre) ma può portare, in altri termini, a ripetere sempre gli stessi errori e/o pattern, cosa che molte band metal  dopo aver prodotto capolavori negli anni 80 e 90 hanno finito per fare, diventando una parodia del genere.

    La coerenza è anche un modo per arroccarsi nelle proprie posizioni senza dare spazio all’altro, anzi investendolo di insulti e umiliazioni (peggio che peggio sui social, sfruttando l’illusione dell’anonimato digitale). Diventiamo parodie di noi stessi con il paravento della coerenza.

    Lo scrittore Ralph Waldo Emerson parlava, a riguardo, di uomini perennemente con la testa dietro le spalle, timorosi di essere ciò che vorrebbero essere, spaventati dall’idea di fare alcune cose o di pensarle (tra cui il diritto di cambiare idea, uno dei tabù del mondo moderno), alla ricerca di una fantomatica coerenza con il passato o, per dirla con le sue parole:

    Perché trascinarti dietro il cadavere della memoria, per paura di contraddire quel che hai detto e fatto in questo o quel luogo pubblico?

    Perchè, in altri termini, usare la coerenza come paravento per negare, negandosi a se stessi e agli altri, impedendosi di migliorare le cose per una malintesa forma di “coerenza” col proprio passato? Il punto dovrebbe essere esattamente questo, ed è proprio questa frase ad aver ispirato questo insolito rant contro il mito della coerenza ad ogni costo e in ogni dove.

    Perchè in fondo la coerenza può cedere il passo all’intelligenza, e qualora diventasse cristallizzata, morbosa o spigolosa può diventare qualcosa di cui preoccuparsi, da correggere, limare e lavorarci su. Fermo restando che la sua variante sana ha pieno diritto di esistere, e che potrebbe essere almeno un faro in grado di guidare le nostre vite e la sanità delle nostre azioni, con l’elasticità di liberarcene quando non ci serve e riprendercela se ne abbiamo davvero bisogno. La coerenza come scusante per non essere … no, non dovrebbe albergare in nessuno di noi.

    L’incoerenza può essere una linea di fuga da logiche troppo stringenti in cui non ci riconosciamo più.

    Photo by Raamin ka on Unsplash

  • La vera storia di Deep Blue, il computer che vinse a scacchi contro Gasparov

    La vera storia di Deep Blue, il computer che vinse a scacchi contro Gasparov

    Sono passati quasi trenta anni da quando Gasparov, campione russo, si trovò a perdere nel febbraio del 1997 una combattutissima partita a scacchi contro Deep Blue, un computer programmato in linguaggio C dalla IBM appositamente per lo scopo. Se le caratteristiche tecnologiche della macchina sono ben note (c’erano 480 processori e un’architettura parallela VLSI), è meno noto l’aspetto puramente psicologico legato alla gara. A quanto ne sappiamo, infatti, Gasparov si fece fuorviare dalle proprie convinzioni sul comportamento dell’algoritmo che lo stava sfidando e, a suo modo, fece una stima sulle sue potenzialità che lo portò in errore.

    Come raccontò più volte in seguito, infatti, il campione russo si era fatto mandare fuori strada da un “comportamento” specifico di Deep Blue, il quale a volte indugiava sulla prossima mossa più del dovuto. Aveva già “deciso” cosa fare, ma aspettava a farlo per un quanto di tempo casuale. Dal punto di vista dei programmatori della IBM si trattava di semplici pause randomiche in cui Deep Blue non faceva nulla, fingeva letteralmente di elaborare e questo, naturalmente, realizzava un comportamento pseudo umano che spinse il campione di scacchi a sottovalutare la situazione. Alla lunga, per quanto avvenne con un solo punto di stacco, la partita finì 3 a 2 per Deep Blue.

    La combinazione di vari bias cognitivi coinvolti nella partita dimostra quanto sia complesso il rapporto tra mente umana e intelligenza artificiale. Sebbene Deep Blue fosse tecnicamente superiore nel calcolo, la componente psicologica ha giocato un ruolo fondamentale nel risultato, rendendo questo evento storico un’illustrazione perfetta di come le percezioni e i pregiudizi influenzino anche i campioni più brillanti.

    La sconfitta di Garry Kasparov contro Deep Blue è un caso affascinante che mette in luce diversi bias cognitivi coinvolti nella sua interpretazione del comportamento della macchina. Analizziamoli:

    1. Bias di antropomorfismo
      Kasparov attribuì a Deep Blue caratteristiche tipiche di un comportamento umano, come il “pensare” o “indugiare”. Le pause randomiche della macchina, progettate per sembrare naturali, lo portarono a credere che l’algoritmo fosse in grado di una riflessione più complessa e strategica di quanto effettivamente fosse.
    2. Bias di conferma
      Una volta convinto che Deep Blue stesse “pensando” come un essere umano, Kasparov cercava prove per confermare questa idea. Interpretava le pause come segnali di una strategia raffinata, invece di considerarle per quello che erano: semplici pause preprogrammate.
    3. Bias dell’intenzionalità
      Kasparov attribuì intenzioni al comportamento della macchina, pensando che le sue mosse e le sue pause fossero progettate deliberatamente per disorientarlo, piuttosto che derivare da calcoli algoritmici privi di intenzionalità.
    4. Bias dell’overthinking (sovrapensiero)
      Kasparov, noto per la sua capacità di calcolo mentale, potrebbe essere caduto nella trappola di sovrastimare l’intelligenza di Deep Blue, analizzando ogni sua mossa come parte di una strategia a lungo termine, invece di vederla come il risultato di pura elaborazione numerica.
    5. Effetto framing (cornice)
      La presenza di Deep Blue come una macchina rivoluzionaria, costruita da IBM con enormi risorse, probabilmente influenzò il modo in cui Kasparov approcciava il confronto. Potrebbe aver interpretato l’intera partita in un quadro di superiorità tecnologica, portandolo a percepire la macchina come invincibile.
    6. Effetto Dunning-Kruger inverso
      Questo effetto può manifestarsi quando un esperto come Kasparov sottostima le proprie capacità in un contesto nuovo (giocare contro un supercomputer), sopravvalutando quelle del “rivale”, anche in situazioni dove potrebbe avere ancora il vantaggio.