Blog

Cinema, arte, spettacolo e filosofia spicciola.

  • Perchè Bob Dylan che (non) canta We are the world è il meme più importante degli ultimi 30 anni

    Perchè Bob Dylan che (non) canta We are the world è il meme più importante degli ultimi 30 anni

    We Are the World” è il celebre, citatissimo e altamente simbolico singolo di beneficenza registrato, nel lontano 1985, registrato dal supergruppo USA for Africa nel 1985. Scritto da Michael Jackson e Lionel Richie, con la produzione supervisionata da Quincy Jones e Michael Omartian, fece parte dell’album We Are the World. All’epoca, secondo i dati ufficiali, riuscì a vendere circa 20 milioni di copie, diventando l’ottavo singolo più venduto di tutti i tempi e il ricavato venne interamente devoluto all’Etiopia, all’epoca devastata da una terribile carestia. Nello scorso anno, per inciso, Richie ha proposto di rifare l’iniziativa in favore delle vittime del Coronavirus Covid-19.

    Il supergruppo dell’epoca includeva molte delle star del periodo, 45 artisti tra cui alcuni dei fratelli Jackson, Stewie Wonder, Tina Turner, Billy Joel, Cyndi Lauper. E poi lui: Bob Dylan, sensibile all’iniziativa quanto in difficoltà per la tonalità del brano, non esattamente nelle sue corde abituali, come testimoniato dal video delle prove che effettuò con una certa “sofferenza” di fondo. Poeta, cantautore, scrittore e conduttore radiofonico, Dylan fu da sempre espressione della nuova poetica americana emergente all’epoca, ispirata ad una tradizione innovata e caratterizzata da quel timbro di voce inconfondibile. Ma in quel contesto, probabilmente, non avrebbe potuto dare il meglio di sè.

    Proprio quello che lo rese un meme negli anni a venire. Silenzio, ascolto, un sospiro, un accenno di cantato, Stewie, keep it playing one more time. Pensieri.

    Ad oggi, abbiamo questa meravigliosa testimonianza: il simbolo di chi si trova nel posto giusto senza sapere esattamente cosa fare, perchè farlo, come trovare quel maledetto attacco, quale sarà la tonalità giusta, e facendolo così sembrare un ateo costretto a cantare in chiesa, Play it again Stevie, o magari un perfetto “imbucato” al matrimonio di sconosciuti. E questa, semplicemente, è parte di una storia più grande di chiunque della quale anche lui, in pochi ricordano, fece parte.

    E quanti di noi a casa, in famiglia durante il pranzo di Natale quanto ti sposi / questi giovani d’oggi, durante l’ennesima call fiume con 18 capufficio non si è sentito esattamente come Bob?

    Il simbolo del disagio di chi, con tutta la buona volontà e le buone intenzioni, proprio non riesce a vedersi per tutta la vita in ufficio o davanti ad un computer, aspettando chissà cosa o chissà chi, e sperando (in assoluto, e senza distinguo) in un mondo migliore.

    By The cover art can be obtained from Columbia Records., Fair use, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=21720627
  • Politicamente corretto: l’impressione (sbagliata) che non si possa più dire niente

    Politicamente corretto: l’impressione (sbagliata) che non si possa più dire niente

    L’impressione che il politically correct coincida con un divieto di libertà di espressione è molto comune (anche nella stampa generalista), e in teoria qualifica ab ovo la potenziale discussione: una giungla priva di regole in cui, di fatto, una persona (in molti casi un po’ buzzurro) che si sente privata della “libertà” di insultare gli altri.

    Chiariamo, non sembra esistere una singola accezione del termine politically correct: nell’ambito cinematografico, ad esempio, non è raro che esso venga utilizzato in modo improprio, e non mancano esempi in cui si riferisce della scorrettezza di personaggi che non sono persone, che appartengono comunque al mondo dell’immaginario e contro i quali, se non altro, l’atto di sfogarsi aiuta forse a lavare la coscienza. Esiste anche una ulteriore accezione del termine, usata da persone prevalentemente conservatrici, che ne fanno uso a titolo di assurda “arma bianca” da usare contro l’interlocutore, specie se quest’ultimo non è troppo attrezzato verbalmente.

    In un libretto denso e di poche pagine in cui parla del film Matrix, Slavoj Zizek smentisce tra l’altro il mito del politicamente corretto (come lo chiama lui stesso) secondo il quale Lacan, il celebre filosofo e psicologo di inizio novecento, avrebbe relativizzato anche la scienza esatta, per “farlo sembrare”, in qualche modo, più “flessibile”. In realtà potrebbe essere una semplice banalizzazione del concetto, cosa non da poco ma sicuramente meno grave del ritenere il politically correct un “tabù” da sfondare egoisticamente e come se nulla fosse.

    Sono questi i limiti in cui dovremmo muovere e focalizzare la nostra discussione, in effetti: comprendendo che se è accettabile una certa flessibilità nelle scienze sociali, non possiamo applicare lo stesso criterio in modo acritico anche a concetti di fisica o medicina. Non che queste ultime siano infallibili e non possano prendere svarioni, ma proprio perchè è in qualche modo il “prezzo da pagare” a fare la differenza.

    Photo by Dmitry Vechorko on Unsplash

  • BONDiNG ha sdoganato tanti tabù sul sesso. E tanto basta (per ora)

    BONDiNG ha sdoganato tanti tabù sul sesso. E tanto basta (per ora)

    Bonding è una serie TV uscita nel 2018 (e terminata quest’anno) da riscoprire, per chi non l’avesse vista, per una varietà di motivi: tanto per cominciare, la durata degli episodi, di circa venti minuti ciascuno, a comporre due sole stagioni (la terza, inizialmente annunciata, non sembra che uscirà mai). In secondo luogo, gioca a suo vantaggio la fresca leggerezza della narrazione, in grado di disseminare gli episodi di spunti auto-ironici e di personaggi gradevoli.

    In ultimo ma tutt’altro che ultimo come importanza, BONDiNG tende mediamente a normalizzare gli aspetti sessuali della vita di chiunque, affrontando con disinvoltura tabù medi e grandi della società in cui ci pregiamo di vivere. Gli stessi tabù a cui siamo soggetti senza volerlo davvero, a volte, abbagliati da false conquiste e da aperture solo di facciata così come, altrettanto spesso non perfettamente a nostro agio nel rendere pubbliche le nostre perversioni. BONDiNG ha il merito di normalizzare il mondo del feticismo sessuale osando rappresentare l’eccitazione sessuale in modo fortemente soggettivizzato, non soltanto esternando o alludendo (senza stereotipi) a relazioni omosessuali, tra docente e studente e via dicendo.

    Ed è proprio la leggerezza di fondo ad essere il suo punto di forza; con un tono non certo da trattato filosofico sul genere (modello Cronenberg o Von Trier), bensì dando spazio alle fantasie sessuali umane e, per l’appunto, rendendole accettabili. Un pregio considerevole, a conti fatti, considerando l’arretratezza culturale in cui si vive in molte parti del mondo, ma anche allargando l’osservazione al mondo delle serie e dei film Netflix incentrati sul tema del sesso, che su altri frangenti è quasi sempre costituito da banalità malassortite e sedicenti role play, triti e ritriti.

    La questione è complessa, più di quanto possa sembrare: certi cambiamenti come l’effettiva parità tra i generi alla fine si raggiungeranno, sperabilmente, ma credo anche sia necessario introdurre un concetto di gradualità nell’introduzione. L’assalto frontale alla società benpensante, da sempre teorizzato e praticato da tanti, rimane ovviamente lecito, ma c’è anche il dubbio che si possa arrivare ad una maggiore accettazione anche in modo più indiretto. Non che l’opera di Rightor Doyle (con Zoe Levin e Brendan Scannell, tra gli altri) ambisca a farlo a livello di “manifesto”, ovviamente, ma di sicuro è lecito leggera la popolarità della serie almeno in termini di piccolo segnale positivo.

    Cosa non da poco, dicevamo poco fa visto che si parla di pratiche bondage, BDSM in genere, female domination, fetish, pissing e via dicendo, pratiche sessuali effettivamente esistenti e parte, piaccia o meno, del dark side sessuale di ognuno di noi. In questo frangente sorprende come, fin dal primo episodio, lo stereotipo sia smentito: a partire da quel Pete il timido che sembra lasciare spazio alla più becera stereotipizzazione da commedia americana, tra studentesse attratte dal docente di psicologia (eccallà), una protagonista dalla doppia vita da matricola e sex worker e naturalmente l’immancabile, l’immarcescibile, l’indomabile “amico gay” di lei, per cui non serve essere esperti di studi di genere per intuirne la portata banalizzante (l’unica vera pecca, forse, a livello di caratterizzazione dei personaggi).

    Stereotipare e banalizzare, parlandone più in generale: tutto questo BONDiNG non lo ha fatto, e gliene va dato atto. Le critiche che vennero espresse all’epoca dalla community delle dominatrici di professione, in effetti, che lo accusarono di eccessiva superficialità, nonchè di non insistere abbastanza sull’aspetto consensuale di questo genere di attività, rischiano quasi di lasciare il tempo che trovano. Per lo stesso motivo per cui un film, non andrebbe dimenticato, esprime un punto di vista ed una panoramica del mondo per come regista, produzione ed attori lo vedono in quell’istante. Istante che, mentre leggete, potrebbe essere già superato da nuove conquiste.

  • I 10 autentici comandamenti del cinefilo: punto primo, puoi rivedere un film più volte

    I 10 autentici comandamenti del cinefilo: punto primo, puoi rivedere un film più volte

    Lo hanno fatto anche blog molto peggiori del mio, per cui non vedo perchè non proporre un sano decalogo dei 10 comandamenti del cinefilo D.O.C.!

    Puoi rivedere un film più volte

    Anche se molti blasfemi e miscredenti cercheranno di convincerti del contrario, è possibile, ragionevole e molto gradevole vedere lo stesso film più volte. Non è affatto una cosa monotona da studiosi o professoroni del cinema: questa concezione usa e getta, del resto, non viene certo applicata nella musica, ad esempio. Per cui non si capisce per quale ragione debba essere applicata al cinema.

    Se posso ascoltare Beethoven ancora oggi – pur conoscendolo a memoria, non c’è motivo per cui non debba o possa fare lo stesso con 2001 Odissea nello spazio.

    Torna al cinema (finchè puoi)

    Oggi vediamo tutto in streaming, su schermi di qualità spesso infima, o da siti illegali che ci inondano di pubblicità porno fetish (no mamma, sono i miei amici che mi fanno gli scherzi!). In realtà tornare al cinema (dove purtroppo non si può fumare: se si potesse, come negli anni ’70, sarebbe ancora più suggestivo, al netto dei danni alla salute) è un’esperienza fantastica che dovremmo gustarci al massimo, almeno fino a quando l’ultima delle sale delle nostre città rimarrà aperta.

    Ricordati che il “cinema intellettuale” non esiste

    Probabilmente perchè tutto il cinema è una roba da intellettuali. Anche i film tipo Vacanze di Natale, secondo me – in fondo alcuni requisiti ci sono: nessuno li guarda, tutti ne parlano, molti ci scrivono. E l’unico modo per impattare con l’inconsistenza del cinema da intellettuali è quello di andare ad un festival del cinema, uno qualsiasi (ad Udine ad esempio c’è il Far East). Luoghi fuori dal tempo in cui si incontrano appassionati di cinema di ogni ordine e grado, a creare un miscuglio difficilmente omologabile ad uno standard. Meraviglia! C’è anche da dire che tendenzialmente i festival del cinema sono frequentati da sapiosessuali, cioè da quelli che se non conosci i loro stessi film non scoperanno con te (ovviamente sto ironizzando). In realtà, a parte gli scherzi, assistere ad un film è un prodigio di religiosità laica – questa era pesante – come pochissimi ne sono rimasti, e va gustato dal primo all’ultimo minuto. Un po’ come una partita di calcio, insomma, in cui ogni film è una finale da dentro-fuori con la tua squadra (o regista) del cuore.

    Toglietevi dalla testa che certi titoli “impegnati” non siano alla vostra portata o non siano pensati per voi (sì, proprio per te!) perchè non è affatto così: è solo questione di atteggiamento mentale, oltre che di attitudine.

    Non fermarti ad un genere

    Anche se il tuo genere preferito fosse il thriller sperimentale o l’horror più fuori dalle righe, non fermarti mai a considerare un singolo genere: il cinema è ricco di commistioni, mix apparentemente improbabili quanto efficaci ed interpretazioni magistrali anche in film che mai ti aspetteresti. Motivo per cui: guarda sempre di tutto, da Nekromatik al film romantico che fingi di apprezzare per compiacere la tizia che corteggi dal 2009.

    In Italia ci è voluto Tarantino per accorgerci che avevamo anche noi ottimi registi horror, thriller e via dicendo: prova che dimostra la necessità di rimarcare questo punto.

    Non avere pregiudizi

    Cerca sempre di vedere almeno un paio di film dello stesso regista, prima di emettere un giudizio assoluto. E, ancora più importante: ricordati che il tuo metro di giudizio può cambiare ed evolvere. Un film cheoggi reputi nammerda può diventare il tuo preferito domani (difficilmente avverrà il viceversa): non è questione di coerenza, è questione di buonsenso perchè, semplicemente, non funziona così solo nel cinema.

    Scopri sempre nuovi film

    Discorso molto collegato al precedente: non guardare film solo di un genere o solo di un periodo, perchè rischi di farti un’idea limitativa di quanto quest’Arte oggi sia diventata varia, espressiva e universale. Ormai nulla è di nicchia: chiunque può vedere qualsiasi film, anche grazie ad internet.

    Per cui, cosa stai aspettando? Ci sono film appena usciti, così come perle espressioniste del primo Novecento, che aspettano solo te (si fa per dire, ovviamente).

    Non leggere nulla, prima di guardare

    Leggere di cinema è cosa buona e giusta, ed il fatto che tu sia qui oggi testimonia che probabilmente te ne frega qualcosa, di ‘sto benedetto cinema.  Eppure un errore che molti fanno è quello di leggere prima le recensioni e poi vedere i film, cosa che porta a farsi un’idea coincidente con quella del recensore del momento. Recensore che, in molti casi, è spesso un ciarlatano generalista che scrive modello ghostwriter su qualsiasi cosa gli dicano (ho letto recensioni su Lords of Chaos e su Suspiria di Guadagnino che univano incompetenza e cattivo gusto espressivo ai livelli: tronista di Uomini & Donne).

    Meglio farsi un’idea propria vedendo un film e poi confrontarsi, no?

    Lascia perdere le recensioni sul web

    Su questo blog ne trovi circa 600, almeno al momento in cui butto giù queste righe con le quali, in sostanza, ti sto invitando a goderti le mie parole ma poi ad andare via, a chiudere brutalmente la pagina e a dimenticarti di me.

    Tipico tratto da sapiosessuali (ah ah ah, l’avete capita).

    A parte gli scherzi, diffidate da quello che trovate scritto sul web sui film: abbondano le ricostruzioni arbitrarie delle trame, le interpretazioni ad cazzum delle scene, la critica gentista che sembra essere diventata improvvisamente cazzuta quando era, anni fa, poco più che semplice folklore.

    Insomma: meno chiacchiere e, se proprio volete, leggete qualche libro sul cinema e soprattutto guardate tanti, tantissimi film prima di sparare sentenze.

    Lascia perdere i social

    Parlare di cinema sui social è una cattiva idea come fare il bagnetto al figlio piccolo in una vasca piena di piranha: rischi che ti passi la voglia in pochi istanti, a meno che tu non abbia solo contatti radical chic. Del resto sui social si è in grado di brutalizzare qualsiasi discussione, vogliamo tutti sembrare più ricchi e più belli di quanto davvero siamo, ma c’è già il cinema che – ogni giorno, da quando è nato – si impegna a fare esattamente le stesse cose. Unica differenza, si inventa classe, ricchezza e bellezza dove non ci sono giusto con un po’ di Arte.

    E vale anche per i film di Pozzetto e Lino Banfi, pensa un po’.

    Guarda i film in lingua originale

    Non è un vezzo da esterofili o da radical chic: guardare un film in lingua originale restituisce spesso il vero significato del film stesso. Se ti è possibile farlo, ovviamente (per chi abita nei piccoli centri è un’impresa quasi disperata), guarda sempre i film in lingua originale: ad esempio La casa di Jack è stato tranciato arbitrariamente di due minuti dalla produzione nella versione italiana, e questo soltanto perchè i produttori erano blindati nella convinzione che andasse presentato in questa veste “alleggerita”. Io l’ho visto in inglese sottotitolato, e buonanotte (e sono stato fortunato).

    Per non parlare del doppiaggio, che in questo paese viene considerato un’Arte ma che poi, a bene vedere, viene ormai esercitato dalla qualunque, attori più o meno tali – tanti quanti Youtuber più o meno insulsi, con il rischio che il senso del film venga stravolto del tutto. Ma dico, ve lo immaginate Bohemian Rapsody doppiato in italiano? Io francamente ho trovato irresistibile l’accento di Rami Malek in lingua originale.

  • Grand Guignol: il teatro dell’orrore che prolificò anche in Italia

    Grand Guignol: il teatro dell’orrore che prolificò anche in Italia

    Grand Guignol è usato più che altro come aggettivo, in questi anni, e probabilmente non tutti ricordano le sue oscure origini. Non è un caso che in pochi ricordino questo particolare sottogenere, anche perchè la critica fondamentalmente lo disprezzò sempre, a cominciare da Silvio D’Amico che non perse mai occasione per evidenziarne i limiti. Limiti che, a ben vedere, riguardano sempre le solite questioni per cui l’horror viene snobbato ancora oggi: trame risibili, interpreti sacrificati, minestra riscaldata e così via.

    Nella sua primordiale sublimazione della paura, il palcoscenico apparve come lo scenario claustrofobico ideale per la nascita e la morte di quelle micro-storie, spesso affidate ad effetti speciali artigianali ed ingegnosi che, ovviamente, risentivano dell’effetto “dal vivo”. Uno dei volumi di riferimento sull’argomento, per l’Italia, è senza dubbio Teatro Sinistro di Carla Arduini (Bulzoni Editore), che traccia una storia molto puntuale e precisa del fenomeno, e che abbiamo utilizzato come fonte per la nostra analisi.

    Nascita del Grand Guignol

    Il Grand Guignol venne fondato formalmente a Parigi, nel quartiere Montmatre, nel 1897, dove rimase attivo fino al 1962. Col tempo si diffuse anche fuori dai confini francesi,e  furono moltissime le compagnie che provano, non sempre con troppo successo, ad emularne le gesta. Lungi dall’essere un fenomeno localizzato o di provincia, il Grand Guignol venne emulato un po’ dovunque in Europa, ed affascinò per molto tempo artisti, impresari e pubblico, ponendo una base indiretta del concepimento di moltissimi film horror, sia di vecchia e nuova generazione.

    Tematiche del Grand Guignol

    Gli spettacoli di questo genere, che potremmo agevolmente definire un teatro horror o teatro thriller che dir si voglia, erano quasi sempre atti unici estremamente compressi  e circoscritti, in cui venivano narrate storie di efferati delitti caratterizzati da una forma di realismo molto marcato. Sangue, crudeltà e violenza la facevano da padrone, ed in cui le narrazioni sono ambientate, spesso e volentieri, nei vicoli bui delle città in cui si viveva all’epoca.

    La derivazione del genere horror a livello cinematografico dal Grand Guignol appare, a questo punto, lampante – così come il tasso di exploitatation in qualche modo in nuce, vincolato da effetti speciali da palcoscenico che, per forza di cose, dovevano sfruttare l’ingegnosità (al contrario di un film, se un effetti speciale salta perde credibilità l’intera messa in scena, e non si può certamente tagliare nulla).

    Grand Guignol in Italia

    Nel nostro paese la figura di riferimento nel genere fu senza dubbio la compagnia di Alfredo Sainati, capocomico ed attore della Drammatica Compagnia Italiana, che propose un ricco repertorio di Gran Guignol dal 1908 al 1936). A livello internazionale, per inciso, la drammaturgia di riferimento viene spesso ricondotta ad Andrè De Lorde (1871-1942).

    Pline, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons – L’attuale International Visual Theatre, dove nacque in Grand Guignol – attualmente restaurato e dall’aria diversa rispetto a come si presentava all’epoca.

    Sainati non fu l’unico artefice di una compagnia del genere, ma sicuramente fu tra quelli che durarono di più: si contarono compagnie di Gran Guignol italiane che non durarono neanche un anno, a volte. Sulla figura di Sainati ci sarebbe moltissimo da scrivere: venne considerato l’unico autentico artefice del genere del teatro horror nel nostro paese, nonostante un esordio non proprio incoraggiante: dopo il debutto al Teatro Pavone di Perugia, Sainati lancia il Grand Guignol nelle città di Napoli, Torino, Firenze e Milano, ottenendo una reazione quasi sempre non esaltante dalla critica, che considerò il genere eccessivo e, in qualche modo, diseducativo.

    La cosa che rende interessante il genere, di fatto, è che a mio avviso conferisce al genere una forma di letteratura popolare: della serie, se è vero che le storie di questo tipo sembrano tratte da fatti di cronaca tanto assurdi da sembrare inventati, c’è sempre l’approfondimento psicologico e intimo dei personaggi, con riferimenti espliciti a sesso, morte e violenza. Eppure all’inizio del Novecento un letterato come James Joyce si era interessato al genere, tanto da contattare Sainati per fargli realizzare la Cavalcata del Mare di Synge, progetto mai realizzato per mancata autorizzazione degli eredi dell’autore. Riders to the sea è considerato uno dei capolavori del teatro irlandese, un atto unico in cui si mescola un singolare connubio tra realismo, sovrannaturale e folklore.

    Alcune trame degli spettacoli di Grand Guignol

    Gli intrecci del Grand Guignol erano in genere brevi ed intensi, spesso anche a discapito dell’approfondimento psicologico dei personaggi, e caratterizzati da micro-mondi che si aprivano e si dischiudevano in pochi attimi. Molte di quelle storie si limitavano ad aprire e chiudere un micro-universo, come avviene nel caso della storia di un medico che, scoperto che la propria moglie aveva un amante, li chiude in un cottage, inoculando ad uno dei due il virus della rabbia (senza specificare quale). Quasi un Hostel in nuce, verrebbe da dire, in grado di fornire in modo essenziale uno dei feeling più comuni del teatro horror: il tema, svisceratissimo anche nel cinema, della vendetta.

    Premesso che molti di questi spettacoli assorbivamo più elementi al proprio interno (inclusi alcuni ironici o intrisi di humor nero), il libro più celebre nella nostra lingua che ne parla è senza dubbio Teatro del Grand Guignol di Corrado Augias, un libro non più edito dei primi anni 70 e attualmente (a quanto pare) di complicata reperibilità. Tra le opere citate ve n’è una, Mammina, che suscita più di una curiosità: è l’unica della raccolta di cui non è noto il nome del traduttore (la maggioranza sono state tradotte da Carlo Cignetti e Giuseppe Concabilla), e a dispetto dell’innocenza del titolo è una storia terribile, in qualche modo quasi antesignana del genere rape’n revenge. Una prostituta in vena di trasgressione si concede ad un apache dall’aria selvaggia: chiede all’uomo, durante il rapporto, di raccontargli il suo ultimo crimine. Si rende progressivamente conto che le vittime da lui indicate sono la madre ed il figlio della donna, motivo per cui ucciderà l’uomo pugnalandolo. Sabotaggio di Charles Hellem, W. Valcros e Pol D’Estoc è un altro dramma incidentalmente familiare dai toni simili: un operaio fa saltare la corrente del proprio quartiere come atto di ribellione e sabotaggio, ma nel farlo provoca un problema al figlio malato di crup, proprio mentre sta subendo una tracheotomia che ovviamente fallisce.

    Con l’avvento del cinema, progressivamente, il Gran Guignol perse, anno dopo anno, la propria popolarità, per essere recuperato solo in seguito da alcune compagnie teatrali (in Italia, ad esempio, il Grand Guignol de Milan). Le suggestioni del teatro dell’orrore, ovviamente, non dovrebbero mai essere sottovalutata – nemmeno oggi.